Il “mese di maggio” mi ha portato davanti a un’altra delle
tante icone che abbiamo in casa. Questa si trova proprio vicino al mio ufficio,
ma non mi ha mai detto niente, anzi, non mi è mai piaciuta. Ma pregandola, mi è
apparsa più bella del solito (niente apparizioni!), nonostante quel mento così pronunciato,
che la fa apparire… imbronciata. Proprio vero che la preghiera trasforma tutto!
Il quadro è incorniciato con gli stemmi di Pio XII, quello
degli Oblati, il monogramma di Maria e cinque invocazioni: Mater Christi – Amor
Caritatis – Pax – Amor Justitiae – Regina pacis. Una piccola litania!
Di valore il paesaggio lontano, cinquecentesco.
Adesso, quando ci passo davanti, reciterò ad alta voce almeno
una di quelle litanie…
Ho cercato chi ne fosse l’autore, così per la prima volta mi
sono accorto che in un angolo, piccola piccola, c’è la firma e la data: “Rev. J.
Rose o.m.i. 1952”.
Chi sarà mai questo p. Joseph Rose? Gli archivi mi aiutano.
Era
nato a Bonn, in Germania, il 24 gennaio 1877.
Era
infatti un artista! Lo avevano scoperto presto durante gli anni della sua
formazione in Germania. Il suo superiore, p. Leynhecher, nel 1898, alla vigilia
degli ordini minori, scriveva di lui “La sua intelligenza ha sbalordito; non si
aspettavano che riuscisse così bene allo scolasticato. A volte è un po’
ingenuo. Artista (notevole talento per il disegno)… Cuore tenero e sensibili,
riconoscente per natura… è pieno di ardore per la sua perfezione. Di salute
cagionevole e tuttavia sano”.
È
un ritratto che rimarrà inalterato lungo tutta la sua vita. Sempre fragile di
salute, accusa mal di testa, stanchezza…, uno di quelli che sembra siano sempre
per morire, eppure capace di arrivare a 80 anni senza mai venir meno ai suoi
impegni di missionario in mezzo alla gente. Sensibile e semplice, sa affrontare
situazioni difficili e guidare le comunità. E soprattutto, artista: musicista,
pittore, fotografo.
Una
volta diventato Oblato ricevette la prima obbedienza per in Messico. Ne era
felicissimo. “La gioia che provo nel ricevere l’obbedienza per il Messico,
scrisse al suo superiore, è ineffabile. Come sono grato a Dio che mi sceglie
per prendere parte a una nuova fondazione. Oh, sì, lo ringrazio e lo ringrazierò
ogni giorno della mia vita” (3 marzo 1902). Pochi giorni dopo gli ripete: “Ve
lo dico e lo ripeto, che andrò volentieri in Messico per far parte d’una
fondazione, perché so che il buon Dio mi ha chiamato attraverso la vostra
persona. Ho pregato molto perché il Buon Dio mi doni la grazia necessaria per
compiere i miei doveri di stato” (20 marzo 1902).
Partì
con libri e bagagli come tutti gli altri, ma in più aveva con sé una cassa di
articoli da fotografo.
La prima lettera dal
“nuovo mondo”, datata 20 maggio 1902, è da Chantla. Racconta brevemente del
lungo viaggio in mare che lo aveva portato in Messico. I primi due giorni aveva
sofferto di mal di mare, ma poi tutto andò liscio.
Il vescovo di Oaxaca aveva
invitato gli Oblati nella diocesi per aprirvi un seminario. Quello che offriva
erano soltanto due piccole scuole, una in città e una nel paese di Chautla, con
ragazzi, come scrive p. Joseph, “poveri
di latino come di ogni altro bene”. Il padre, insieme ad un pugno di altri
Oblati, inizia con un entusiasmo straordinario il nuovo ministero, cominciando
con l’apprendimento della lingua spagnola, la direzione del collegio di Chautla, i contatti con la gente la domenica
in una chiesa vicina. Dopo appena un anno è Oaxaca, nel seminario degli Auxiliarios. Ma anche questa è un’esperienza
breve, senza futuro. Non ci sono le condizione per un seminario come Dio
comanda! Eccolo allora a Puebla dove l’arcivescovo
aveva offerto agli Oblati un collegio industriale. Otto anni come professore di
arti e letteratura, durante i quali svolge anche il compito di direttore di
musica nel “Collegio Pio”, dove poi viene nominato superiore.
In una lettera del 25 settembre 1903, ricorda al suo superiore quanto
egli ami la pittura e la fotografia. Aveva già fatto alcuni disegni ad Hünfeld
in Germania, ma adesso ha iniziato con la pittura a olio. Ha appena dipinto un
Sacro Cuore, messo nel parlatorio, di cui “tutti sono contenti”, e un ritratto di
sant’Eugenio de Mazenod. Seguono altri quadri, come santa Cecilia, l’Immacolata...
Una volta chiusa anche l’esperienza del collegio di Puebla, p. Joseph Rose si trova missionario tra messicani e gli indios di Metepec, nella diocesi di Tulancingo. Il 31 luglio 1912 scrive al superiore generale raccontando della nuova missione: “Sono arrivato a Metepec il 15 maggio, la sera alle 10, dopo un’ora a cavallo, sotto una pioggia battente. Bagnato fino all’osso, mi hanno dato dei vestiti asciutti. L’indomani, festa dell’Ascensione… mi sono messo subito al lavoro. Dopo otto giorni predicavo già una missione insieme a p. Stuhlmann e ieri abbiamo terminato la quarta missione con i frutti più consolanti. La parrocchia segue sei villaggi e ancor più numerosi rancho, alcuni a 2-3 ore di viaggio a cavallo”. Racconta dell’abbandono religioso e dei risultati delle prime quattro missioni: 78 matrimoni di coppie conviventi da anni, 1300 confessioni, 1800 comunioni. Poi conclude: “Ben triste, caro superiore generale, questa ignoranza religiosa… Occorre una salute di ferro e lo zelo di san Paolo e anni e anni per arrivare a qualche risultato”. Parla anche degli indiani “Otomiti”, che comprendono appena lo spagnolo e che dopo la messa “vanno in processione sulla montagna da dove portano giù un loro idolo davanti al quale, la mattina dopo, fanno esplodere del fuochi artificiali. La messa e l’idolo!”
Dal Messico al Texas,
a Rio Grande City, Del Rio, e finalmente superiore della comunità dei
missionari e parroco della città di Laredo. Anche qui gli amatissimi messicani.
Sono gli anni più bella della sua vita, durante i quali si sente in piena
vocazione: missionario dei poveri!
Nel 1923, da Laredo,
descrive lo stato di abbandono in cui aveva trovato la gente, in una parrocchia
molto vasta, 32.000 abitanti, di cui 23.000 messicani. Di questi soltanto 3.000
assistono alla messa domenicale. “È triste – annota – vedere la fede
completamente morta di questi poveri messicani… Tuttavia il bene si fa, lentamente”.
In altre lettere parla delle “fatiche” del missionario “soprattutto quando il
caldo opprimenti del Texas ci obbliga all’inattività… In generale i nostri
lavori ci danno consolazione, ma resta ancora molto, molto da fare”.
“Questo è proprio il
nostro scopo – leggiamo in una lettera del 16 dicembre 1924 – restaurare omnia in Christo, là dove la rivoluzione
messicana ha lavorato contro lo spirito degli Oblati. Sono già 6 anni che mi
trovo a Del Rio e spero che i mesi prossimi possa terminare il nuovo santuario
della nostra chiesa messicana: Our Lady
of Guadalupe. Che lavoro tra i nostri poveri messicani, ma sono ben
disposti ad aiutarmi per portare a compimento il lavoro iniziato…”. Conclude la
lettera augurando al destinatario quello che spera anche per sé: “Che il buon
Dio benedica tutte le vostre opere e vi conceda una vita lunga tra noi per la sua
gloria, la salvezza delle anime e il bene della nostra cara Congregazione”.
“Restaurare omnia in Christo”: così padre Joseph intendeva la sua
missione. Era il motto di Pio X, che riprendeva le parola della Lettera agli Efesini
1, 10 con le quale Paolo spiegava che il disegno di Dio è “ricapitolare in
Cristo tutte le cose”. Pio X, morto dieci anni prima che p. Joseph scrivesse
questa lettera, era stato il papa dei suoi primi anni di ministero, e gli aveva
indicato lo scopo della vita: “evangelizzare i poveri…”, perché tutto fosse
unificato in Cristo.
Ma non c’è esaltazione nel suo lavoro missionario. È una persona molto semplice, p. Joseph, va avanti a piccoli passi, crede nella sua vocazione e nella grazia di Dio che lo accompagna. È difficile per lui essere missionario, ma si trovava bene tra la sua gente.
Quel giugno del 1925 non
si aspettava che gli arrivasse un ordine che gli avrebbe sconvolto la vita: la
nomina, da parte del papa, a Prefetto apostolico del Pilcomayo, in Bolivia. Un
mondo così lontano, in un ambiente così difficile, senza direttive chiare, dove
bisogna cominciare tutto da zero…
Oltre un mese il viaggio
da Laredo, attraverso New Orleans, l’Havana, il Canale di Panama, per arrivare ad
Arica, il porto
del nord del Cile, a soli 18 km a sud del confine con il Perù. Poi ancora da Arica a La Paz, per
presentarsi davanti al Nunzio apostolico per la sua professione di fede (ed è
già passato un anno!)
Ben più lungo il
viaggio da La Paz al nuovo vicariato apostolico, attraverso Buenos Aires. Ma
dov’era il nuovo vicariato apostolico? In mezzo a una foresta sterminata senza
città né villaggi, piena di acquitrini, punteggiata soltanto da baracche
militari, con indigeni nomadi. Il nuovo Vicario viaggia, per settimane, a dorso
di mulo, unico mezzo per spostarsi. Un anno dopo il suo arrivo, in occasione
della festa del Padre generale (28 agosto), gli scrive: “Abbiamo soltanto
sofferenze, privazioni, penitenze e miserie da offrirvi, ma sopportando tutto
con rassegnazione, presentando al Buon Dio tutte le spine con le nostre
preghiere e il santo Sacrificio della Messa…”.
Una persona così
delicata e sensibile (in fondo era un artista!), non sapeva da che parte
cominciare, non poteva farcela: il Papa si era sbagliato, i suoi superiori si
erano sbagliati, non si rendevano conto di dove l’avevano mandato; non per
nulla quelle sterminate foreste le chiamavano “l’inferno verde”. Aveva
compassione anche dei pochi Oblati tedeschi che gli avevano dato per iniziare
la missione. Con molto candore scrive ai superiori: “Quantunque sottomessi alla
nostra decisione, vi domandiamo il favore di voler permettere il ritorno al
nostro precedente campo di lavoro: il ritorno dei Padri e che cari fratelli in
Germania e il mio ritorno in Texas. Senza tenere conto della salute,
l’interesse per la mia anima non mi permette più di accettare un’altra
fondazione in un paese ignoto. Ho lavorato per 25 anni tra i messicani e alla
mia età non posso più adattarmi a un’altra situazione. Desidero lavorare in
qualsiasi posto in Texas, tra i messicani e vi chiedo di voler accordarmi
questo favore”.
P. Joseph dovette
tornare in Texas e continuò il ministero di prima nelle varie parrocchie e
missioni nella Valle del Rio Grande: Brownsville, Del Rio, Brady, Rio Grande
City, Mercedes. Nel 1949 era di nuovo a Laredo e con i soldi ricavati dalla
vendita della sua collezione di francobolli e dei suoi quadri, poté costruirvi
la casa parrocchiale; una sola pittura del Sacro Cuore gli aveva procurato 1000
dollari.
Non ce l’aveva fatta. Chi l’ha detto che un missionario deve essere sempre un eroe? Non fa parte della missione anche il fallimento? Non è soltanto con la morte che il chicco di grano porta frutto? Se oggi gli Oblati sono lì nel Chaco e portano avanti una fiorente missione, lo si deve anche a chi ha vi ha saputo morire.
Finalmente, anziano e sofferente, si ritira al noviziato. Il 10 maggio 1951, nel cinquantesimo di sacerdozio, scrive al superiore generale dicendogli che “essendo prima Oblato e poi prete”, ha compiuto il suo “dovere”: “consacrare la mia vita, come Oblato, all’evangelizzazione dei poveri; per me è la più grande consolazione nell’occasione delle feste per il mio giubileo d’oro”.Il 12 maggio 1951 segue una bella lettera all’Assistente
generale, per ringraziarlo degli auguri che gli ha inviato in occasione del suo
giubileo d’oro sacerdotale, celebrato nel noviziato di Laredo; giubileo “che ha
fatto un bene immenso spirituale ai nostri buoni messicano, che ora sanno
meglio cos’è un padre Oblato per il bene delle loro anime. Non ho meritato –
continua la lettera – tutte queste manifestazioni, perché è per il voto di
obbedienza che ho lavorato nella vigna del Signore per il bene dei poveri
secondo lo spirito del nostro Venerato Fondatore. Adesso posso comprendere
meglio quello che cantiamo spesso qui al noviziato e dopo i ritiri annuali: Ecce
quam bonum… Qui al noviziato cerco di aiutare il buon padre Maestro dei
novizi con il buon esempio e un corso di musica per i cari novizi…”
Sì, è ormai ritirato al noviziato, debole, con scompensi
cardiaci, artrite… al punto che devono chiedere un indulto alla Santa Sede
perché possa celebrare la Messa seduto!
Nel 1954 al porto di Genova giunge una cassa con alcuni suoi dipinti, indirizzati al Superiore generale a Roma. Lo sdoganamento è complesso, ma finalmente i quadri giungono a destinazione. In quella cassa c’è anche il quadro che ora è collocato accanto al mio ufficio? Certamente c’era un quadro dell’Immacolata, giusto in tempo per il Congresso internazionale mariano, al quale partecipano molti Oblati. In quei giorni alla casa generalizia si tiene anche un congresso oblato mariano e nella sala del congresso viene collocato il quadro dell’Immacolata dipinto da p. Rose.
E il quadro dell’Immacolata dov’è finito? L'ho cercato... e finalmente sono riuscito a trovarlo. Per adesso è in un ripostiglio...
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