Dolci e ondulate le colline delle Marche, prati verdi, campi arati che si
stanno preparando per la prossima semina, e casali, torri, paesi disseminati tra
ciuffi di boschi. Giungiamo a Tolentino, per conoscere san Nicola. Se la sua
santità è pari all’arte che ha suscitato è davvero un gran santo. Il “cappellone”,
la chiesa, il chiostro, sono tutto un canto alla sua santità.
In cosa consistesse poi la sua santità è più difficile a dirsi. Eppure sono
quei santi dichiarati tali dalla gente perché
disponibile e amabile verso tutti. Accogliente nel confessionale, dove è ricercato
e amato, perché rasserena i cuori. Parla col cuore in mano, visita i bisognosi
chiusi e nascosti nei tuguri, pacifica le fazioni, è sollecito verso ogni sorta
di miserie e povertà, dà battaglia al diavolo… Risulta simpatico anche a noi…
Nel pomeriggio
cambio di scena: l’abazia di Fiastra. È la prima volta che la visito, anche se
mi è cara per colui che nel 1985 la rimise in vita, l’abate Giovanni Rosavini,
un amico sulla cui tomba, custodita nel cimiterino attiguo alla chiesa, ho potuto
finalmente pregare.
Nel 2006 pubblicò il racconto della sua esperienza: “Ut omnes unum sint. Comunione d’anima”, dove parlando con Dio testimonia: “Tutta la mia vita è una prova del tuo ostinato e invincibile amore per me”. Scrisse il libro “per fare con voi una vera Comunione d’anima, pensando che queste mie esperienze possono esservi utili… Sono state un dono di Dio e non devo tenerle per me: l’amore di Dio esige la Comunione”. “Questa è la verità – vi si legge –: Dio ha eseguito il suo disegno ed io non sono riuscito ad impedirlo e a rovinarlo completamente”.
Ha contribuito
tantissimo a ridare vita all’ordine Cistercense, facendo rinascere il monastero
di Poblet in Spagna, riaprendo l’Abbazia di Chiaravalle a Milano e poi questa
di Fiastra. Ricordava che san Bernardo di Chiaravalle raccomandava ai suoi
monaci “di essere vigilanti nel custodire l’unità, col farsi tutto a tutti,
vivendo tra i fratelli non solo senza dare motivo di lamentele, ma
rallegrandoli con la presenza, pregando per tutti, affinché anche di te si
possa dire: ecco uno che ama veramente i fratelli e la Comunità”.
Da qualche anno i
Cistercensi non sono più a Fiastra, ma lo spirito di san Bernardo vi alita
ancora. I campi e i boschi d’intorno ricordano che i monaci di questa abbazia
hanno bonificato le terre di mezze Marche. “Troverai più nei boschi che nei
libri – diceva san Bernardo –. Gli alberi ti insegneranno le cose che nessun
maestro ti dirà”.
Quando ci sediamo
nella sala capitolare ci ricordiamo che lì i monaci avevano “voce in capitolo”.
Ma una scritta attribuita sempre a san Bernardo ammonisce: “Parla poco, odi
assai et guarda al fine di ciò che fai”.
Ma soprattutto nella grande chiesa monastica, mi rileggo alcune tra le prime parole che ho imparato a conoscere di san Bernardo, pronunciate verso la fine del suo commento al Cantico dei Cantici (Sermone 83, 4-6):
L’amore è sufficiente per se stesso, piace per se stesso e
in ragione di sé. È se stesso merito e premio. L’amore non cerca ragioni, non
cerca vantaggi all’infuori di Sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Amo perché
amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se
ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre
prende alimento per continuare a scorrere.
L’amore è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti
e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se
non alla pari; l’unico con il quale possa contraccambiare il prossimo e, in
questo caso, certo alla pari.
Quando Dio ama, altro non desidera che essere amato. Non per
altro ama, se non per essere amato, sapendo che coloro che l’ameranno si
beeranno di questo stesso amore. L’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore cerca
soltanto il ricambio dell’amore e la fedeltà. Sia perciò lecito all’amata di
riamare. Perché la sposa, e la sposa dell’Amore non dovrebbe amare? Perché non
dovrebbe essere amato l’Amore? Giustamente, rinunziando a tutti gli altri suoi
affetti, attende tutta e solo all’Amore, ella che nel ricambiare l’amore mira a
uguagliarlo.
Si obietterà, però, che, anche se la sposa si sarà tutta
trasformata nell’Amore, non potrà mai raggiungere il livello della fonte
perenne dell’amore.
È certo che non potranno mai essere equiparati l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura. La sorgente, infatti, dà sempre molto più di quanto basti all’assetato. Ma che importa tutto questo? Cesserà forse e svanirà del tutto il desiderio della sposa che attende il momento delle nozze, cesserà la brama di chi sospira, l’ardore di chi ama, la fiducia di chi pregusta, perché non è capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che è l’Amore? No certo. Sebbene infatti la creatura ami meno, perché è inferiore, se tuttavia ama con tutta se stessa, non le resta nulla da aggiungere. Nulla manca dove c’è tutto. Perciò per lei amare così è aver celebrato le nozze, poiché non può amare così ed essere poco amata. Il matrimonio completo e perfetto sta nel consenso dei due, a meno che uno dubiti che l’anima sia amata dal Verbo, e prima e di più.
Nessun commento:
Posta un commento