mercoledì 26 febbraio 2020

L’uomo della speranza



“Che cosa mi darai?”. Se lo domandava e se lo ripeteva, come un’ossessione: “Che cosa mi darai?”. Si sentiva deluso. Più ancora, tradito. Si girava e rigirava sulla stuoia, con un’agitazione crescente. La notte era fredda, ma aveva gettato via il mantello che lo copriva e continuava a domandare: “Che cosa mi darai?”. Sarai, che gli dormiva accanto, si svegliò, gli si avvicinò, l’abbracciò. “Cosa c’è?”. Gli toccò la fronte. “Stai bruciando, hai la febbre. Mettiti quieto, cerca di riposare”.
Lo ripeté come un grido: “Che cosa mi darai?”. 
Si alzò e uscì dalla tenda.

Che silenzio là fuori, e che pace. Strideva col tumulto che lo agitava.
Era ancora turbato dalle voci udite poche ore prima, quando il sole era al tramonto e inondava di luce calda la steppa d’intorno. Aveva ancora nelle orecchie e, più abbarbicati nel cuore, i nomi dei bambini del clan che a sera le mamme, all’entrata della tenda, avevano chiamato per cena. Li conosceva tutti quei nomi, ad uno ad uno, e ognuno gli disegnava un volto. Erano la sua tribù, che amava, che gli era fedele, che guidava ormai da anni di pascolo in pascolo in quella terra straniera che lentamente gli diventava familiare. Erano i suoi figli, come lo erano i loro genitori. Era la sua tribù. Ne era il capo indiscusso, amato e temuto, venerato come un patriarca.
Ma non erano suoi.
Quella sera, come ogni altra sera, ormai da anni e anni, sua moglie non aveva chiamato nessun figlio per la cena. Non aveva figli, lui.
Ormai era anziano. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene come quando era giovane, la forza di un bufalo. Ma era anziano. E senza figli.
Sarebbero passati pochi anni e presto la sera, nelle tende, quando si narrano le storie dei padri, nessuno l’avrebbe più ricordato, sparito come il sogno d’una notte.
Nel silenzio della notte, sotto un cielo d’un mare di stelle, gridò, senza voce, il suo lamento:
M’hai strappato dalla mia terra,
dalla mia gente,
dai miei dèi.
M’hai lanciato verso un orizzonte
che non ha meta
in un’avventura
che ha perso ogni sapore.
Perché?
Che cosa mi darai?
Me ne vado senza figli.
Mio erede sarà il mio servo,
fedele,
ma non carne della mia carne,
non sangue del mio sangue…

Penso al grido di Abramo ogni volta che vedo persone sole. Magari hanno tutto. Quando tornano a casa dal lavoro, trovano un bell’appartamento, possono rilassarsi, uscire di nuovo a divertirsi… e poi?
Penso a quanti hanno visto il fallimento della propria famiglia e con quello il loro personale fallimento; a chi è attraversato dal dolore, dalla perdita di persone amate; a chi non riesce nella vita; a chi si sente insicuro, conosce il dubbio, è fragile, nell’oscurità…
Abramo non è il solo a chiedere a Dio “Che cosa mi darai?”.
Tanti di noi l’accompagnano.
“Fino a quando, o Signore,
mi dimenticherai?
Sarà forse per sempre?
- gridava Davide in un suo salmo –
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando avrò l’ansia nell’anima
e l’affanno nel cuore tutto il giorno? (…)
Guarda, rispondimi, o Signore,
mio Dio!” (Salmo 13, 1-3).

“Abramo, Abramo”.
Finalmente udì la voce di Dio.
“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”, disse Dio ad Abramo, e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15, 1-5).
Era una promessa!
Per accoglierla Abramo dovette guardare in alto.
Solo dall’alto viene la parola della promessa.

Abramo credette, “sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” (Romani, 4, 18).
È l’uomo della speranza, nostro padre nella fede.
Siamo eredi della speranza.

È l’inizio del mio libro "Dio si compromette".

1 commento:

  1. Grazie P. Fabio. È l'inizio del tuo libro.... È l'inizio del mio cammino quaresimale

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