Marek con i genitori |
Mi è sempre difficile parlare del sacerdozio,
per i troppi stereotipi che abbiamo in mente.
Vedendo morire Gesù in croce tutto si sarebbe potuto dire tutto eccetto che Gesù era
sacerdote. In
quel momento egli appare l’essere più lontano dal sacerdozio tradizionale. La
sua offerta non è nel tempio, ma fuori della città santa e in un ambiente
immondo. Non si trova nella purità rituale richiesta al sacerdote: è impuro,
sporco di sangue, di terra, di sputi. Non indossa la veste liturgica: è
vergognosamente nudo. Soprattutto è teologicamente “maledetto” dalla Legge in quanto appeso sul legno (Dt 21, 22-23). La sua è una “liturgia”
senza precedenti, fino ad allora inimmaginabile.
Eppure
proprio sulla croce, segno dell’amore più grande, Gesù è costituito sommo ed
eterno Sacerdote, si fa Mediatore tra cielo e terra, inaugura la liturgia
definitiva, il culto nuovo in spirito e verità.
Egli pone fine a
una forma provvisoria di sacerdozio e ne dischiude un’altra. La quale è tanto
nuova che, almeno all’inizio dell’era cristiana, per mantenere le distanze dalla
precedente non si darà a Gesù il titolo di sacerdote. Soltanto dopo trent’anni
dalla morte di Gesù la lettera agli Ebrei riconoscerà in lui il Mediatore, che
merita il nome di sacerdote.
Più tardi ancora la
prima Lettera di Pietro darà il titolo di sacerdote all’intero popolo di Dio (2,
9-10).
Sappiamo bene che il titolo di sacerdote nel
Nuovo Testamento e fino al IV secolo non viene mai dato a quanti guidano il
popolo di Dio, annunciano la
parola, presiedono la celebrazione eucaristica. Essi sono soltanto gli anziani,
i presbiteri, gli episcopi, o i ministri, ossia i servi del popolo sacerdotale.
Il Sacerdote è uno solo, Gesù, assieme al suo corpo che è la Chiesa. Non ci
sono altri sacerdoti.
Sì, noi preti, o
presbiteri, noi anziani (ci chiamiamo anche “sacerdoti”, ma solo in senso
analogico, e con le debite attenzioni), siamo stati scelti per esercitare un ministero,
un servizio straordinariamente grande: ripresentare
oggettivamente l’evento di Gesù Cristo in quello che il Concilio Vaticano
II ricorda essere i tre munera: l’annuncio/interpretazione
autorevole della Parola di Dio scritta e trasmessa, l’amministrazione
competente dei sacramenti e in particolare – quale culmen et fons – dell’Eucaristia, la guida della comunità
cristiana.
Siamo, come ci
ricorda il Concilio, «strumenti vivi di Cristo eterno sacerdote, per proseguire
nel tempo la sua mirabile opera» (PO
12).
“Strumenti vivi di
Cristo”, basterebbe questo per ricordarci come vivere e alimentare una
spiritualità sacerdotale.
Una spiritualità
presbiterale può prendere le mosse anche dalle tre dimensioni basilari
dell’ecclesiologia di comunione, così come le ha messe a fuoco, a 20 anni dalla
conclusione del Concilio, il Sinodo dei vescovi del 1985: mistero, comunione, missione. Una trilogia usata da Pastores dabo vobis come chiave per una
comprensione del ministero presbiterale (n. 12).
È una triade che affonda le sue radici nei
versetti centrali della Preghiera di Gesù per l’unità che non a caso è stata chiamata anche
Preghiera sacerdotale: “che siano uno come io e te” (comunione); “tu in me e io
in loro” (mistero); “affinché il mondo creda” (missione).
Seguiamo dunque
brevemente questa triplice indicazione:
Mistero
Il presbiterato è
innanzitutto partecipazione all’evento pasquale: in termini paolini siamo
chiamati ad essere “con-morti” e “con-risorti” con Cristo. È un entrare nel
mistero di Cristo, prendere la sua forma configurando la vita a quella del suo
essere Crocifisso e Risorto. “Vivi quello che leggi e annuncia quello che
vivi”, ci è stato ricordato rito dell’ordinazione; e riguardo all’Eucaristia: “vivi
ciò che celebri”.
Gesù è mediatore in
quanto si fa nulla, ossia si dona interamente, nel più alto e perfetto atto
d’amore. La massima perfezione del presbitero sta nella “inesistenza”, così da mettere
in luce non sé ma Cristo come l’unico Sacerdote.
Comunione
I presbiteri sono
costruttori della koinonia ecclesiale ed hanno perciò bisogno di vivere una
spiritualità di comunione. Non possono generare comunione se non sanno viverla in
prima persona.
Secondo Novo millennio ineunte (n. 43) ciò
significa “fare spazio” al fratello e alla presenza di Dio fra noi; fare spazio
ai laici e ai differenti carismi, in modo da non andare mai da soli a
celebrare, ma sempre come espressione di tutto il popolo di Dio.
Missione
Dal Cristo risorto
gli apostoli sono inviati fino agli ultimi confini della terra. Si tratta di intraprendere
con il Cristo l’esodo extra muros:
fuori dal recinto sacro (Eb 13, 12);
essere, come dicevano i parenti di Gesù: “fuori di sé”.
In termini paolini
si direbbe: “farsi tutto a tutti” (cf 1 Cor
9), preferire di essere anatema al posto dei propri fratelli (Rm 9, 3), per far fiorire in ogni
persona e in ogni situazione umana quei germi della risurrezione che lo
Spirito, donato da Gesù in croce, ha posto ovunque; aprirsi a un dialogo
universale, percorrendo con Gesù la via dello svuotamento di sé e della propria
realtà “divina”; non tenere per sé alcuna ricchezza, neppure quella del proprio
ministero, per essere con il cuore e la mente completamente aperti, a fianco a
ogni uomo, a ogni donna.
È quanto ho
augurato ai nostri festeggiati.
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