Baita
Segantini, 2.300 metri d’altitudine, contornata dalle Pale di San Martino: che
sia una delle sette meraviglie del mondo? Una meraviglia lo è comunque…
E
lassù si cantava: “Vanno tutti sulle cime della luce e dell’amor, si fa l’anima
sublime scopre il volto del Signor…”. Meta ambite delle prime Mariapoli, di
passeggiate durante le quali si condivideva il vissuto, le scoperte dell’amore
di Dio e ciò che egli operava nell’anima: luogo di comunione d’anima!
Anche
noi siamo saliti a questa meta. Prima la messa in un autentico "luogo carismatico", la chiesa di Tonadico, e poi in cammino, nella condivisione a
piccoli gruppi, a tu per tu… fino all’incontro finale, sui prati, come da
manuale!
Non
dobbiamo credere che si tratti di qualcosa di eccezionale. Siamo nella prassi
della vita cristiana, fin dalle sue origini. I riferimenti nel Nuovo Testamento
sono molteplici, a cominciare dai grandi modelli della comunicazione
spirituale: il Padre che dice il
Verbo e il Verbo che dice se stesso,
donandosi nelle sue parole; Maria, che canta il Magnificat…
Quando
i discepoli tornano dalla missione che ha loro affidato Gesù, pieni di gioia
raccontano la loro esperienza e questo consente a Gesù di dire a sua volta
quanto di più profondo ha in cuore (cf. Lc 17).
Maria
Maddalena va dagli Apostoli e condivide la sua esperienza: “Ho visto il
Signore”. Lo stesso fanno i discepoli di Emmaus, gli apostoli nei confronti di
Tommaso, Pietro dopo l’incontro con il Centurione, Paolo alla comunità di Antiochia
al ritorno dei suoi viaggi…
Le
lettere dell’Apostolo sono una costante comunione di quanto vive, dalla spina
nella carne (le prove più intime) al rapimento al terzo cielo (le grazie
mistiche), al rapporto personale con Gesù, ma anche i successi e fallimenti nel
suo lavoro apostolico, le peripezie durante i viaggi…
Grazie
alla sua esperienza esorta: «ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza» (Col 3,16). La Lettera agli Ebrei non è
meno esplicita: «Cerchiamo di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere
buone (...) esortandoci a vicenda» (Eb 10,
24-25).
In
effetti non c’è vera fraternità se non si entrare nella vita del fratello e se
non si consente a lui di entrare nella nostra. Senza questa comunione di vita,
la fraternità rimarrà soltanto una comunanza fisica, priva di significato.
Una
volta si invitava a un atteggiamento di forte riserbo riguardo alla
comunicazione delle realtà della vita interiore, citando Tobia 12, 7: “È bene tenere nascosto il segreto del re”. Si
dimenticava come prosegue il versetto: “ma è motivo di onore manifestare e
lodare le opere di Dio”. Forse si confondeva la sincera comunione delle
realtà più profonde della propria anima con l’esibizionismo, lo sfogo, lo
sterile parlare di sé.
La
tradizione della Chiesa ha continuato su questa linea, a cominciare da Agostino
con le sue Confessioni e dopo di lui i tanti Fondatori e Fondatrici che hanno
scritto la loro autobiografia. Anche S. Tommaso aveva detto che «è più perfetto
donare agli altri ciò che si è contemplato che contemplare soltanto».
Quando
la comunione è sincera si può constatare un reciproco arricchimento tra tutti i
membri della comunità, che godono della ricchezza della complementarità dei
modi di vedere, come anche delle differenti sensibilità. La varietà dei doni
che ognuno apporta al vivere comune fa scomparire gelosie e invidie, perché
ognuno gode del bene dell’altro, nella convinzione che, proprio in forza della
comunione, esso gli appartiene come proprio. L’altro, quando partecipa il suo
dono, non è più visto come antagonista. Ci si libera così dai piccoli complessi
che ogni uomo porta con sé, verso una apertura serena all’altro, fino alla
piena libertà interiore.
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