Scrivo
sempre qualcosa di mio sul blog. Un esercizio quotidiano di meditazione, la più
varia, anche se a volte sconclusionata. Oggi faccio una eccezione. Dal 25
maggio 2021 su sul desk del computer c'è un articolo di Roberto Rosano, Troppo povero per una
colonna. L’antica leggenda di Rufo (e delle cicogne arrabbiate), apparso
sull’Osservatore romano, di cui sono un quotidiano lettore on line. L’avevo lasciato lì (e poi dimenticato) perché pensavo di leggerlo, una volta o l’altra, in una delle
mie lezioni. Ma ormai il tempo delle lezioni è terminato. Lo rileggo ad alta
voce:
Il bosco e il deserto hanno in
comune assai poco. Nella «forma esteriore», quasi nulla: riboccante il primo,
vacante il secondo. Due polarità: il pieno e il vuoto. Da una parte, un intrico
spontaneo, fitto di fronde, folto di peli, arruffato di una ferinità selvaggia;
dall’altra, il fascino ruvido delle sabbie e delle pietre, il brulicame
serpentiforme, ignudo delle sue creature. Eppure, fuori dell’inventario
rigoroso delle scienze geografiche e territoriali, e dentro invece il catalogo
esistenziale, affettivo e spirituale, bosco e deserto sono concetti contigui,
potremmo dire quasi equivalenti: si oppongono rigorosamente, entrambi, allo
spazio umanizzato e organizzato della «Civiltà urbana», sia essa contadina, sia
essa industriale, sia essa post-industriale. Qui la ragione ha potuto poco, per
questo gli uomini ne hanno sempre provato spavento o fascino.
In alcuni antichi poeti e mistici
arabi, il deserto è un motivo ricorrente per significare il locus
horridus, il no man’s land, l’ignoto, lo smarrimento, la
brutale assenza di norme comuni, esattamente come lo è il bosco nella nostra
poesia e nella nostra letteratura: pensiamo alle selve e alle foreste incantate
ove si smarriscono gli eroi di Dante, Ariosto, Calvino o al bosco di Le Mans,
ove vagabonda «Berta dai grandi piedi» e dove Carlo VI diventerà
pazzo.
Ma tra deserto e bosco esistono
almeno un altro paio di fils rouges. Uno ci conduce verso quella
idealizzazione letteraria dei boschi e dei deserti che va da certi miti
arturiani («Noi ritorniamo alla foresta che ci protegge e ci salva!» si legge
nel mito di Tristano e Isotta), alla gaste forêt di Parceval,
allo splendido realismo magico di Ibrahim al-Koni, che è riuscito a fare del
Sahara un abbagliante locus amoenus. Un altro fil rouge ci
conduce verso la perfetta equipollenza tra bosco e deserto nella narrazione, a
volte autentica, a volte leggendaria, della fuga mundi:
l’eremitismo cristiano orientale ha avuto anacoreti del deserto, esattamente
come l’ascesi solitaria occidentale ha avuto santi, monaci, eremiti ed
anacoreti del bosco. Potremmo dire che laddove l’Oriente, cristiano e
mussulmano, ha avuto i suoi Padri del Deserto (Antonio il Grande, san Girolamo,
Paolo di Tebe), l’Occidente ha avuto i suoi «Padri del Bosco»: san Bruno e i
suoi compagni nella Grande Chartreuse, san Roberto di Molesmes e i suoi
discepoli nel bosco di rose selvatiche di Citeaux, Eustachio il Monaco nei
boschi del Boulonnais, sant’Uberto nei boschi dell’Austrasia. Quest’ultimo pare
che abbia ricevuto una visione del crocifisso tra le corna d’un cervo, durante
una battuta di caccia; mentre san Teobaldo di Provins, dopo aver letto in
giovane età le biografie dei Padri del Deserto, ne rimane talmente affascinato
da rinunciare alle ricchezze dei genitori, conti dello Champagne, per dedicarsi
alla vita contemplativa nei boschi di Pettingen, insieme al suo fedele scudiero
di nome Gualtiero.
Se diamo un’occhiata alle antologie
dei cosiddetti Pateriká, che raccolgono detti e sapienza
delle Amma (Madri) e degli Abba (Padri) che
«portano la loro ombra magra alle rocce del deserto» — dalla Vitae
Patrum, alla Storia lausiaca, alla celeberrima Vita di
Antonio — scopriamo che gli incipit si somigliano un po’ tutti: «Il
beato Macario trascorse quasi tutta la sua lunga vita nel deserto»; «Quando
Nilo decise di abbandonare il mondo per rifugiarsi nel deserto», «Un giorno,
cavalcando nel deserto della Tebaide». A loro volta, molti Pateriká e
molte agiografie dell’Occidente cristiano — dalle leggende bretoni agli Acta
Sanctorum — cominciano con espressioni di questo tipo: «Nei boschi di
Bretagna, molti secoli fa, vivevano molti anacoreti», «Severo (…) decise di
tornare nelle foreste della Normandia, dove era nato, per fare l’eremita».
E così come i deliziosi quadretti degli apoftegmi pullulano di demonietti, bestie e mostriciattoli del deserto, obbedienti all’ingiunzione del santo, le leggende auree del bosco hanno, a loro volta, un nutrito bestiario disposto a rabbonire: il più celebre di tutti, il lupo di Gubbio, non ha bisogno di presentazioni. Meno noti sono invece la Tarasca, vinta da santa Marta con l’acquasantiera e l’aspersorio; l’orso di san Romedio e il più illustre orso di san Corbiniano (entrato addirittura nell’araldica pontificia), entrambi ammansiti e sellati dopo aver sbranato i cavalli dei santi; le cicogne di Rufo stilita, in un’antica leggenda (stavolta orientale), ma di ambientazione al quanto forastica.
Quest’ultima leggenda, tanto
affascinante quanto sconosciuta, è, come si suole dire, «all’altezza della
chiosa». Un certo Rufo, di cui sappiamo assai poco, decide, sull’esempio di san
Simeone, di farsi stilita, di passare cioè tutta la vita in cima ad una
colonna, nel silenzio e nella preghiera. Ma, a causa della grande santità che
regna a quel tempo, le colonne libere sono introvabili e Rufo è troppo povero
per farsene costruire una. Un giorno, ai margini di un bosco, vede un trespolo
con una enorme ruota di legno, su cui è poggiato un pagliericcio. Decide che
quella sarà la sua colonna. Sale fin lassù e comincia a contemplare le cose del
cielo.
In autunno, tuttavia, arrivano, dal freddo dei Paesi nordici, due cicogne assai prepotenti. Vedendo che il loro nido è occupato, si avventano su Rufo con grida e colpi di becco. Lo stilita parla loro con profonda dolcezza e le invita a seguire il messaggio fraterno di Cristo. Le cicogne, sorprese dalla dolcezza di Rufo e dalla Buona Novella, cominciano a grattargli la testa coi becchi e decidono di dividere il nido tutti assieme. Quando piove, ci racconta la leggenda, Rufo le copre col suo mantello; quando Rufo ha fame e freddo, le cicogne gli procurano nuova paglia e qualche frutto saporito. Un giorno che Rufo si duole di non essere più riuscito a fare la Santa Comunione, non avendo preti alla portata, le cicogne volano fino a Roma e tornano, dopo qualche giorno, con un’ostia nel becco, benedetta niente meno che dal Papa.
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