«Purtroppo, abbiamo perso il gusto di sostare, di stare
calmi, di fissare i colori di un’alba o di un tramonto, di contemplare e
ammirare. Lo scrittore inglese Chesterton era lapidario: “Il mondo non perirà
per mancanza di meraviglie ma per la perdita della meraviglia”».
Così scrive Ravasi nel “Breviario” che ha scritto ieri sul
Sole 24 Ore. Ho avuto la smentita ieri sera. Seduti sulle gradinate del
santuario di Sameiro decine e decine di persone aspettano il tramonto. Altre
sono sedute lungo la scalinata che scenda per un centinaio di metri verso la
città. Mi siedo accanto a loro per contemplare la luce del sole che colora i
monumenti di totalità calde. Il cielo s’accende di mille tonalità. Appena il
sole scompare esplode un applauso collettivo: Che artista il nostro Artista!
Tutti presi dalla meraviglia della sua grande opera, che rinnova in maniera
nuova ogni sera.
Ed ecco, ancora una volta, l’inizio della meditazione che ho dato oggi ai vescovi:
Il giorno di Pentecoste, lo Spirito, dopo aver fatto
irruzione nel cenacolo infiammando gli apostoli con lingue di fuoco, li spinge
fuori, in mezzo alla folla. Pietro con gli Undici si alza in piedi e a voce
alta proclama: «Fate attenzione alle mie parole» (Atti 2, 14). Narra di
Gesù di Nazaret, dei miracoli, prodigi e segni operati tra il popolo, della sua
crocifissione e morte, della sua risurrezione. Dopo averlo ascoltato, «coloro
che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte
circa tremila persone» (2, 41). La Chiesa nasce dalla proclamazione della Parola;
è davvero Ek-klesia, assemblea di popolo convocata tramite l’annuncio
della Parola, come dice il termine greco.
Il Concilio ha raccolto le significative parole di
sant’Agostino sull’attività missionaria dei Dodici: «Predicarono la parola di
verità e generarono le Chiese».
È l’adempimento del “mandato missionario” trasmesso dal
Vangelo di Matteo: «Andate dunque e fate miei discepoli tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando
loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (28, 19-20).
Il parlare presuppone il vivere. E questo ci porta verso il
“mandato missionario” come è espresso nel Vangelo di Giovanni, individuato
nelle parole dell’ultima cena: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli,
se avrete amore gli uni per gli altri» (13, 35) e in quelle della grande
preghiera al Padre: «Siano in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu
mi hai mandato. (…) Siano perfetti nell’unità, affinché il mondo riconosca che
tu mi hai mandato» (17, 21.23). Qui l’accento è posto sulla testimonianza.
Ne è rivelatrice, ancora una volta, la prima comunità
cristiana di Gerusalemme, che, assieme alla libertà e al coraggio
dell’annuncio, possedeva una grande forza d’attrazione e di testimonianza. Il
vivere la Parola rendeva i primi credenti annunciatori autentici e credibili:
la parola poggia sulla vita e la vita si esprime nella parola.
Ugualmente per la comunità di Giovanni. L’annuncio è
condivisione dell’esperienza vissuta con il Signore: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che
noi abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre
mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunziamo anche a voi, perché
anche voi siate in comunione con noi»
(1 Gv 1,
1-3).
Non un credo astratto, ma il frutto di un rapporto personale
con Gesù. L’annuncio cristiano dovrebbe essere così, sempre frutto di
esperienza. Come proclamare un Dio che è amore se non ci crediamo
profondamente, se non l’abbiamo sentito presente nella nostra vita, se non ne
abbiamo fatto l’esperienza? Non si può annunciare una fede imparata soltanto al
catechismo o nello studio della teologia, senza che sia entrata nella vita:
“Ciò che contempliamo… noi lo
annunciamo”. Senza un rapporto personale con Gesù non si può parlare
efficacemente di lui. O meglio, se ne può parlare, ma non avviene un’autentica
testimonianza di fede. L’annuncio è la comunicazione di un’esperienza capace di
coinvolgere e suscitare una medesima esperienza.
Non si può evangelizzare, se prima non si sperimenta il
Vangelo, se non ci si lascia evangelizzare.
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