giovedì 6 agosto 2020

Libri d’estate: Vangelo e poesia



L’ha scritto 25 anni fa, ma quell’articolo di Mario Luzzi “Vangelo e Poesia”, poi pubblicato su “La porta del cielo”, sembra scritto per l’oggi.  
Riporto soltanto quello che dice sul rapporto tra silenzio e parola, ineffabile e mistero.

Il silenzio esalta la parola; infatti quello che oggi mortifica la parola è la mancanza di silenzio. La parola viene da altre parole. La parola è moltiplicata, è usata in eccesso più per non dire che per dire, più per dissimulare un pensiero oppure per simulare un pensiero inesistente.
Noi sappiamo che questa è la malattia del nostro tempo: tutti gli strumenti che noi stessi ci siamo creati ci invitano a rifiutare la dimensione così profonda del silenzio, che è il rapporto essenziale con la parola, come il deserto è un termine essenziale di rapporto con la società, la sociabilità; per cui abbiamo il ritiro nel deserto, l’esperienza del deserto, il raccoglimento nel silenzio: sono parti essenziali dell’esperienza religiosa, delle origini e del periodo del primo cristianesimo, del grande cristianesimo iniziale oltre che esempio tratto dalla vita di Cristo e da Cristo stesso. (…)

Va preservato il diritto divino dell’ineffabile; c’è qualcosa che non si può dire, che non si può dire con parole e che però fa parte ancora di quel linguaggio più vasto, perché il Vangelo appunto non è solo verbale. Questo è splendido, questa potenza del silenzio che vuole quasi garantirci che c’è un ineffabile, qualcosa che non può essere pattuito con l’economia delle parole umane, ma che ha il suo eloquio ugualmente come scansione, come tempo interno delle parole che invece si possono dire. (…)

C’è qualcosa che non è alla portata della parola degli uomini, non riducibile alla loro parola. Questo equivale a dire che c’è un mistero; ed è un mistero che non nasconde, ma anzi si illumina come tale, si comunica come tale. (…)
Il mistero: è un vocabolo che noi usiamo e di cui abusiamo e abbiamo troppo abusato, perché in fondo è anche comodo; quello che non è intelligibile lo chiamo mistero: per cui hanno avuto buon gioco i filosofi dell’ottimismo positivista o gli scienziati euforici del positivismo quando nel mistero vedevano l’ignoranza. Vedevano la prova della superstizione, la prova di tutto ciò che essi imputavano alla religione o alla metafisica, come negativo. Ma mistero è una forma, invece, di conoscenza. C’è una conoscenza per mistero, come c’è una conoscenza per idee e anche per formule, se volete.
Nei Vangeli, mi sembra, la presenza del mistero non solo aleggia, ma è proprio palpabile, sensibile, e nel linguaggio del Vangelo è inclusa anche la presenza del mistero come nozione non negativa. Non come un divieto a conoscere, ma anzi come un’offerta di conoscenza. La parola che emerge dunque dal silenzio, da quel silenzio, ha una forza straordinaria di intimidazione.

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