“Quando
una tomba diventa un altare, una vita ha raggiunto il suo compimento”. Con
queste parole, rimaste indelebili nella nostra mente, p. Marino Merlo iniziava
la sua omelia sulla tomba dell’allora beato Eugenio de Mazenod nella cattedrale
di Marsiglia. Sono passati trent’anni da quel giorno quando, con le due
comunità di Marino e Vermicino, venimmo sui luoghi del fondatore.
Oggi,
celebrando ancora una volta la messa su quella tomba, divenuta altare, mi sono
tornate alla mente quelle parole. Una vita trova il suo compimento quando
raggiunge la santità, meta alla quale tutti siamo chiamati. “In nome di Dio,
siate santi”, ripeteva sant’Eugenio ai suoi Oblati. Essi, scriveva nella
regola, “devono lavorare seriamente a diventare santi, […] vivere […] in una
volontà costante di giungere alla perfezione”. Prima
ancora l’aveva spiegato alla gente semplice della sua città e poi ai giovani
che aveva riunito in associazione. “Dobbiamo essere veramente dei santi.
Questa parola sintetizza tutto ciò che potremmo dire”.
Non è
quello che ci ha ricordato il Concilio parlando dell’universale vocazione alla
santità?
Ogni
tomba dovrebbe trasformarsi in altare, ogni vita è chiamata a trovare il suo
compimento nella santità.
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