“Mi hanno diagnosticato la SLA”. Mi mandò questo laconico
messaggio via WhatsApp, invitandomi a tenere la notizia riservata. Scesi subito
a incontrarla a casa sua, a poche centinaia di metri da dove abito. Non
immaginavo che in così poco tempo i suoi movimenti fossero ormai rallentati in maniera
evidente. Mi verrebbe da dire che da allora le sono stato particolarmente
vicino, ma è più vero che è stata lei ad essermi stata particolarmente vicina.
Fino al recente ricovero nella clinica per malattie
terminali e cure palliative. La frequentazione si è fatta più ravvicinata e il
rapporto, con l’avanzare veloce della malattia, paradossalmente sempre più
semplice e direi sempre più scherzoso. La situazione si faceva drammatica e io
continuavo a fare il giullare e a farla sorridere. Immancabilmente dimenticavo
il cappello nella stanza e quando tornavo a recuperarlo mi giustificavo col desiderio di volerla salutare ancora una volta. In un momento che l’ho
trovata particolarmente provata e stanca non ho saputo fare di meglio che cantarle
una ninna nanna… Ma le leggevo anche, in anteprima, il mio ultimo libro. Ogni
volta mi chiedeva: “Un'altra pagina?”. Quando a Natale sarà pubblicato non
potrò scinderlo da lei.
I momenti più intensi sono stati quelli della
celebrazione eucaristica nella sua stanza. Era lei l’altare… “Continui la tua
messa?” le chiedevo prima di andarmene. E essa, immancabilmente, con il sintetizzatore
oculare, ultimo strumento per comunicare, mi assicurava: “Sono contento di
celebrarla”. Era tutta occhi e sorriso. Il giorno prima della sua morte avrebbe
voluto comunicarmi ancora qualcosa con quella sua macchina prodigiosa, ma era
troppo debole. “Non preoccuparti – le ha detto Elisabetta, l’angelo che la assisteva
– non avete più bisogno di messaggi”. Sì, era comunione consumata. La sua messa
era compiuta.
Il giorno seguente sono stato a vederla, morta. Non l’ho
riconosciuta! E ho scritto: «Che valore alto acquista il nostro corpo, così
com’è, con le sue debolezze e le sue energie, le violenze subite, le ferite… Saliremo
al Cielo “interi”, con il corpo, con i rapporti che lo legano alle altre
persone, con la creazione nella quale siamo immersi e di cui siamo parte ed
espressione. Non possiamo lasciarlo in terra chissà dove: fa parte di noi,
della nostra identità. O forse sì, lo lasceremo per un po’ sotto terra, ma solo
provvisoriamente. Prima o poi lo riprenderemo e lo porteremo con noi nella
risurrezione finale. Neanche Gesù ha potuto farne a meno e se l’è portato in
Paradiso. Tutto ciò che è umano acquista valore, politica e arte, lavoro e patire,
fallimenti e gioie, perché ha la vocazione al Cielo».
Grazie. È la prima volta che scrivo qui. Il blog di oggi mi ha toccata particolarmente, perché testimonia una vicinanza, una delicatezza, una profondità di comunione che danno un respiro di cielo. Grazie!
RispondiEliminaGrazie padre Fábio, dal Brasile. Mi hai immersa nella realta' essenziale della nostra vita: il Paradiso. Ho percepito quanto l'amore sia Ricco di sfumature anche in situazioni estreme. Grazie di cuore!
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