lunedì 11 ottobre 2021

La messa di Simonetta

 


“Mi hanno diagnosticato la SLA”. Mi mandò questo laconico messaggio via WhatsApp, invitandomi a tenere la notizia riservata. Scesi subito a incontrarla a casa sua, a poche centinaia di metri da dove abito. Non immaginavo che in così poco tempo i suoi movimenti fossero ormai rallentati in maniera evidente. Mi verrebbe da dire che da allora le sono stato particolarmente vicino, ma è più vero che è stata lei ad essermi stata particolarmente vicina.

Fino al recente ricovero nella clinica per malattie terminali e cure palliative. La frequentazione si è fatta più ravvicinata e il rapporto, con l’avanzare veloce della malattia, paradossalmente sempre più semplice e direi sempre più scherzoso. La situazione si faceva drammatica e io continuavo a fare il giullare e a farla sorridere. Immancabilmente dimenticavo il cappello nella stanza e quando tornavo a recuperarlo mi giustificavo col desiderio di volerla salutare ancora una volta. In un momento che l’ho trovata particolarmente provata e stanca non ho saputo fare di meglio che cantarle una ninna nanna… Ma le leggevo anche, in anteprima, il mio ultimo libro. Ogni volta mi chiedeva: “Un'altra pagina?”. Quando a Natale sarà pubblicato non potrò scinderlo da lei.

I momenti più intensi sono stati quelli della celebrazione eucaristica nella sua stanza. Era lei l’altare… “Continui la tua messa?” le chiedevo prima di andarmene. E essa, immancabilmente, con il sintetizzatore oculare, ultimo strumento per comunicare, mi assicurava: “Sono contento di celebrarla”. Era tutta occhi e sorriso. Il giorno prima della sua morte avrebbe voluto comunicarmi ancora qualcosa con quella sua macchina prodigiosa, ma era troppo debole. “Non preoccuparti – le ha detto Elisabetta, l’angelo che la assisteva – non avete più bisogno di messaggi”. Sì, era comunione consumata. La sua messa era compiuta.

Il giorno seguente sono stato a vederla, morta. Non l’ho riconosciuta! E ho scritto: «Che valore alto acquista il nostro corpo, così com’è, con le sue debolezze e le sue energie, le violenze subite, le ferite… Saliremo al Cielo “interi”, con il corpo, con i rapporti che lo legano alle altre persone, con la creazione nella quale siamo immersi e di cui siamo parte ed espressione. Non possiamo lasciarlo in terra chissà dove: fa parte di noi, della nostra identità. O forse sì, lo lasceremo per un po’ sotto terra, ma solo provvisoriamente. Prima o poi lo riprenderemo e lo porteremo con noi nella risurrezione finale. Neanche Gesù ha potuto farne a meno e se l’è portato in Paradiso. Tutto ciò che è umano acquista valore, politica e arte, lavoro e patire, fallimenti e gioie, perché ha la vocazione al Cielo».

2 commenti:

  1. Grazie. È la prima volta che scrivo qui. Il blog di oggi mi ha toccata particolarmente, perché testimonia una vicinanza, una delicatezza, una profondità di comunione che danno un respiro di cielo. Grazie!

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    1. Grazie padre Fábio, dal Brasile. Mi hai immersa nella realta' essenziale della nostra vita: il Paradiso. Ho percepito quanto l'amore sia Ricco di sfumature anche in situazioni estreme. Grazie di cuore!

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