Giornata
di incontro a Loppiano. Ho incontrato separatamente un centinaio di bambini e
ragazzi parlando loro del paradiso. Poi 600 adulti ai quali ho introdotto “Resurrezione
di Rona”: Provenienti da tutta la Toscana.
È uno degli scritti più famosi di Chiara Lubich, frutto di una sua esperienza poi trasmessa in un articolo apparso sulla rivista “La Via” nel 1949. È un “manifesto” per comprendere il fenomeno urbano e per operare in esso, così da assumerne le problematiche e le aspirazioni, accompagnando l’umanità alla sua piena realizzazione, fino ad una fraternità che si apre all’unità tra cielo e terra. È una Magna Charta per un rinnovamento della società.
Dopo l’esperienza mistica dell’estate ’49, Chiara è avvolta dal “Paradiso”, da Dio. Ed ecco il rientro e l’impatto con Roma. Lascia Tonadico ma non lascia il Paradiso, o meglio, il Paradiso non lascia lei. L’esperienza di luce vissuta in montagna continua a Roma nella vita quotidiana di un dopo-guerra difficile.
La
città rispecchia la condizione della società di quel tempo: non ci sono alloggi
sufficienti, manca il lavoro, numerosi migranti arrivano soprattutto dal sud,
non c’è un progetto sociale, con un degrado materiale e morale.
Cosa
fare davanti a questa situazione? Nel testo “Resurrezione di Roma”, possiamo
individuare cinque tappe.
Prima tappa: uno sguardo realista
sulla città
«Se io guardo questa Roma così com’è –
scrive Chiara pochi giorni dopo la sua discesa in città – sento il mio Ideale
lontano… Il mondo con le sue sozzure e vanità ora la domina nelle strade e più
nei nascondigli delle case dov’è l’ira con ogni peccato e agitazione».
La
Roma di quegli anni è poi tanto diversa dalle nostre città di oggi? Ed è
diversa dalla Gerusalemme dei tempi di Gesù? Anche lui guardava la folla che lo
circondava, smarrita e sofferente, senza legami e orfana. Al punto che, vedendo
la sua città dall’alto del monte degli ulivi, pianse. Si sentiva impotente,
anzi rifiuto, al punto che la sua missione, al culmine della sua vita terrena,
pareva fallita.
La
prima reazione di Chiara è: «Passo per Roma e non la voglio guardare». È troppo
lontana dal suo ideale: «Sento il mio Ideale lontano come sono lontani i tempi
nei quali i grandi santi e i grandi martiri illuminavano attorno a loro con
l'eterna Luce persino le mura di questi monumenti...».
Allora cosa fa
Chiara? Chiude gli occhi per non vedere più la città, e li apre su un’altra
visione.
Fa
come ha fatto Gesù che «insaziato e triste per il tutto che correva alla
rovina», la notte si ritirava a pregare e entrava in contatto con tutto un
altro mondo; guardava «il Cielo dentro di Sé, dove la Trinità viveva ed era
l'Esser vero, il Tutto concreto, mentre fuori per le vie camminava la nullità
che passa». Gesù aveva bisogno di respirare aria di casa, di guardare cose
belle, il suo Paradiso.
Ecco dunque la seconda tappa: guardare dentro
«Ed anch’io – scrive Chiara dopo aver visto come fa Gesù – faccio come Lui [...]. Guardo il mondo che è dentro di me e m’attacco a ciò che ha essere e valore. Mi faccio un tutt’uno con la Trinità che riposa nell’anima mia».
In cosa consiste
questo sguardo interiore, questo entrare dentro per essere in comunione con la
Trinità?
È
fare come Gesù, entrare nella preghiera, in un rapporto profondo con Dio, fatto
di silenzio, di interiorità, così da vivere in ciò che solo vale.
Per Chiara questo
entrare dentro, tornare a casa, ha anche una dimensione comunitaria. Lei viene
dall’esperienza del Paradiso, dal “Patto d’unità”, che l’ha portato assieme
agli altri nel seno di Dio Padre, fusi in un’anima sola.
Quel guardare «il
mondo che è dentro di me» - là dove la Trinità «riposa nell’anima mia» - non si
riferisca dunque unicamente a un’esperienza personale di unione con Dio, ma
anche a un’esperienza fatta insieme. È quella che oggi Papa Francesco chiama la
«“mistica” di vivere insieme» (Evangelii gaudium, 272).
Lo stesso noi. Cosa
possiamo fare quando siamo scoraggiati per quello che vediamo di brutto attorno
a noi? Dobbiamo tornare dentro di noi, ritrovare l’unione con Dio e ritrovarci
insieme tra di noi, nei nostri luoghi del “due o più”, tornare a casa, perché
lì, nella comunione con Dio e nella nostra unità, c’è la luce, la gioia, la
vita... Lì si riprende «contatto
col Fuoco che, invadendo tutta l'umanità mia donatami da Dio, mi fa altro
Cristo...».
Allora evadiamo il mondo per vivere nel nostro piccolo ambito? No. Gesù, dopo aver passato la notte a pregare e a ritrovare la propria unione con la Trinità, torna in mezzo alla gente con nuova determinazione e slancio.
Eccoci dunque alla terza tappa: Uno sguardo che coglie la realtà nel profondo
Trasformata dall’incontro con Dio, dall’immersione nel “Fuoco della Trinità”, Chiara riapre gli occhi sulla realtà che la circonda e guarda Roma con occhi diversi: «ed i miei occhi non sono più spenti, ma, attraverso la pupilla che è vuoto sull’anima, per il quale passa tutta la Luce che è di dentro (se lascio viver Dio in me), guardo al mondo e alle cose; però non più io guardo, è Cristo che guarda in me».
In
un’altra parte del Paradiso Chiara afferma che Dio guarda l’umanità attraverso
la Ferita dell’Abbandono, con uno sguardo che non solo apre a una visione
diversa delle cose, ma le trasforma perché «versa sull’umanità il Divino»,
riempie cioè ogni umana mancanza con l’Amore e dal negativo trae il positivo.
Chiara
vede le cose di prima, ma con un altro sguardo, col modo di vedere di Dio in
Gesù: «vedo l’umanità con l’occhio di Dio che tutto crede perché è Amore».
Lo “sguardo d’amore” è una modalità di conoscenza, perché chi ama vede nell’intimo, nel profondo, vede ciò che chi non ama non vede. È uno sguardo profetico che, assieme a ciò che è sotto gli occhi di tutti, vede pure ciò che è a venire, il destino delle cose.
Siamo così
alla quarta tappa: Generare e far dilagare rapporti di condivisione
Lo sguardo d’amore è anche generativo. Non solo coglie la realtà più in profondità ma la trasforma, a cominciare dai rapporti interpersonali: «Vedo e scopro la mia stessa Luce negli altri, la Realtà vera di me, il mio vero io negli altri (magari sotterrato o segretamente camuffato per vergogna) e, ritrovato me stesso, mi riunisco a me risuscitandomi - Amore che è Vita - nel fratello». (Perché Chiara usa qui il maschile? Perché è Gesù in lei che opera)
La “Realtà vera” che Chiara
coglie negli altri, come in sé stessa, è la presenza di Gesù, di Dio Trinità. L’identità di ciascuno trova nuova maturità
nell’incontro, nella relazione con l’altro.
Simili relazioni sono
poi in grado di rivitalizzare la comunità, la società: «Così prolungo il Cristo in me nel fratello e compongo
una cellula viva e completa del Mistico Corpo di Cristo, cellula viva, focolare
di Dio».
Chiara parla di “cellule” in cui
si attualizza il Corpo mistico di Cristo in un modo che incide anche sulla
realtà sociale. E caratterizza queste cellule come “focolare di Dio”: un luogo
dove Dio, se così si può dire, è “di casa”, crea “famiglia”.
Sono cellule pervase da una forza
comunionale e unitiva non solo a livello spirituale, ma nelle dimensioni
concrete dell’esistenza: «Così l’Amore circola e
porta naturalmente [...] come un fiume infuocato, ogni altra cosa che i due
posseggono per rendere comuni i beni dello spirito e quelli materiali».
L’amore concreto permea via via
sempre più la città, “risuscitandola”: «Ed il Fuoco... si diffonderebbe in un
baleno per Roma a risuscitarvi i cristiani ed a far di quest’epoca, fredda
perché atea, l’epoca del Fuoco, l’epoca di Dio. Bisogna
far rinascere Dio in noi, tenerLo vivo e traboccarLo sugli altri come fiotti di
Vita e risuscitare i morti. E tenerLo vivo fra noi amandoci»
L’amore reciproco porta all’unità. Sprigionando fra le persone una corrente di condivisione, le coinvolge nel circuito stesso dell’amore di Dio Trinità... fino a...
E siamo alla quinta tappa: cambiamento della cultura, delle istituzioni e delle strutture
«Allora tutto si rivoluziona:
politica e arte, scuola e religione, vita privata e divertimento. Tutto»
L’affermazione è ardita e sarebbe
utopica se un tale cambiamento fosse affidato ai soli sforzi umani. Per Chiara
l’unico capace di cambiare tutto è Dio, Dio in noi e fra noi. Dio che in Gesù
ha preso carne umana e la cui incarnazione vuole e può continuare attraverso di
noi: «Dio non è in noi come il Crocifisso che sta
alle volte quasi amuleto su una parete d’un’aula scolastica. È in noi vivo - se
Lo facciamo vivere - come legislatore d’ogni legge umana e divina, ché tutta è
fattura sua. Ed Egli dall’intimo detta ogni cosa, ci insegna - Maestro eterno -
l’eterno e il contingente ed a tutto dà valore»
Una volta risorto, Cristo è
presente ovunque, nelle piazze, nelle strade, nei bar, nei luoghi del lavoro e
del riposo, nei parlamenti e nelle imprese, nell’intimo dei focolari familiari
e negli stadi.
Il Santo esce dai “luoghi
convenzionali” per santificare il mondo, là dove vivono i fratelli del Risorto,
i figli dell’unico Padre. Gesù dunque vive e opera ovunque.
A noi basta dunque “tenere Gesù
in mezzo” perché sia lui a fare tutto?
No. Gesù – ha spiegato Chiara
alla Scuola Abbà – continua ad agire nel mondo come Risorto, ma lo fa operando
attraverso le persone umane e in mezzo a esse (cf. Mt 18, 20): «È Gesù nell’uomo,
in quel dato uomo - quando la sua grazia è in lui -, che costruisce un ponte,
fa una strada, ecc.»: «Gesù-noi, Gesù-io, Gesù-tu».
Gesù in noi, fra noi, si fa
protagonista della vita sociale. «Egli è l’Uomo, l’Uomo perfetto [...].
E chi ha trovato quest’Uomo ha trovato la soluzione d’ogni problema umano e
divino. Egli lo manifesta. Basta che Lo si ami». È dunque vero che nel Vangelo
c’è la soluzione di ogni problema però, una volta capita la soluzione alla luce
del Vangelo, sono le scienze che debbono tradurla in adeguate conoscenze e
norme di vita per i vari tempi e le varie culture».
La vita di Gesù in noi e fra noi non annulla l’autonomia, la libertà, la capacità di conoscenza e di azione della persona umana e quindi la sua responsabilità, anche se esse sono mosse dalla presenza e dall’azione di Dio.
Come
a Chiara non era sufficiente offrire il suo contributo alla sua città quando
abitava a Trento, così non le basta la resurrezione di Roma. In uno scritto
pubblicato su Città Nuova nel 1958, intitolato Una città non basta,
annota: «Una città è troppo poco. (…) mira più lontano: alla tua patria, alla
patria di tutti, al mondo». Nello stesso anno viene pubblicato un altro suo
scritto, nel quale immagina «una città d’oro, dove il divino è in rilievo,
splendente di luce, e l’umano fa da sfondo, messosi in ombra per dar più gran
risalto allo splendore». Per lei non è un’utopia, perché «questa città è in ogni
città e tutti la possono vedere, purché si spenga in Dio, obliando, l’anima
nostra e s’accenda in essa il fuoco dell’amore divino».
Chiara
continua a lasciarsi ispirare dall’esperienza trasmessa in “Resurrezione di
Roma”, per “leggere” e “vivere” altre città, fino a quando tutti saremo uno.
Bellísimo, grazie!
RispondiEliminaBellissimo. Una vera e profunda meditazione. Mi sono meza in questa realta con tutta me stessa. Gracissime. M. José
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