“Una malattia, una disgrazia, mettere l’altro sotto i piedi per arrivare primi…”.
È stata questa la reazione questa mattina a colazione quando ho detto che avrei
proposto la parola “competizione”. “Metto in guardia i miei alunni dalla competizione”,
mi sento dire ancora. Non viene in mente l’etimologia latina, di per sé neutra:
cum (insieme) e petere (andare verso), che suggerisce semplicemente
l’andare insieme, il convergere verso un medesimo punto. Una etimologia che indica
la collaborazione per raggiungere un obiettivo comune, richiamando la “cooperazione”,
il lavorare insieme. Non viene in mente neppure la “competizione sportiva”, sinonimo
di lealtà, perché ormai anche questa difficilmente è leale. Così, la parola “competizione”
porta con sé una triste negativa eredità e fa subito pensare al conflitto per raggiungere
il primo posto, per emergere, a scapito degli altri che vanno eliminati come avversari
e “concorrenti”, senza guardarli in faccia, ricorrendo magari a colpi bassi.
Sì,
“concorrente”, l’altro è una persona che corre con me, verso la meta comune. Se
lo considero un avversario gli faccio uno sgambetto perché perda la corsa così da
assicurarmi la vittoria. Se lo considero un compagno di viaggio, possiamo andare
avanti a braccetto, aiutandoci quando c’è una difficoltà, aspettandoci quando il
passo si rallenta, per arrivare insieme alla meta. Mi affascina la “mistica” del
vivere – e viaggiare – insieme su cui torna papa Francesco, quel “prenderci in braccio,
appoggiarci, partecipare alla marea un po’ caotica” dell’umanità in cammino, fino
a trasformarla “in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale,
in un santo pellegrinaggio”, dove la comunicazione aperta e sincera porta a “maggiori
possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti…” (cf. Evangelii gaudium,
87). Fino a dire: “se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo
è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (Ibid., 274).
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