giovedì 15 novembre 2018

Chiesa in uscita


Ogni mattina, appena dopo il risveglio, guardo ai santi del giorno per iniziare la giornata con loro. Guardo anche agli Oblati di cui ricorre l’anniversario della morte. Ieri non c’era soltanto p. Gaetano Liuzzo, ma anche p. Giuseppe Ladié.
P. Ladié: un uomo pacifico; come suo fratello p. Carlo, mio compagno di studi, morto molto giovane; come il nipote p. Mauro, ora felicemente superiore dello scolasticato di Vermicino. Un uomo buono, p. Ladié, ma niente di eccezionale. Lo scatto è avvenuto con l’arrivo del tumore che in tre anni lo ha consumato.
In una sua lettera scriveva: «Sto vivendo e scoprendo in modo particolare l’Eucaristia. Dico la Messa per lo più seduto, nella cappellina della comunità [a causa della malattia] (…). Ebbene, quando alla consacrazione dico: “Questo è il mio Corpo, cioè la mia vita, data per voi” penso: ma io sono parte del Corpo mistico di Cristo, quindi con verità posso offrire me stesso, la mia vita, per la Chiesa, il mondo, la Congregazione, la Provincia, le persone care ecc. Così “Questo è il mio sangue…”; posso far dono della mia sofferenza… Mai come adesso sento di realizzare il mio sacerdozio, mai come adesso mi sento “Oblato”, “offerto”, e quando la morte verrà, allora l’Oblazione sarà completa; e voi reciterete, sì, il De Profundis, perché ne avrò bisogno, ma con più forza canterete il Magnificat, perché “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, in me indegno servo…».

Quello che ieri mi ha particolarmente colpito leggendo di lui è un’altra sua testimonianza: «Gesù mi concede momenti intensi di cenacolo con Lui. Gioie profonde. Mi fa capire però che devo uscire con Lui per vivere al Getsemani».
Sto ultimando il mio libro sul cenacolo, dove nell’introduzione riporto il bellissimo discorso di Papa Francesco pronunciato nel cenacolo il 26 maggio 2014, in occasione della sua visita in Terra Santa: «Qui, dove Gesù consumò l’Ultima Cena con gli Apostoli; dove, risorto, apparve in mezzo a loro; dove lo Spirito Santo scese con potenza su Maria e i discepoli, qui è nata la Chiesa, ed è nata in uscita. Da qui è partita, con il Pane spezzato tra le mani, le piaghe di Gesù negli occhi, e lo Spirito d’amore nel cuore».
“Chiesa in uscita” è uno dei cavalli di battaglia di Papa Francesco, un termine che rischia di essere un po’ inflazionato. “Chiesa in uscita” fa subito pensare alla Chiesa di Pentecoste, che lo Spirito scaraventa fuori del cenacolo ad annunciare a tutti il Risorto.
P. Giuseppe Ladié mi ricorda che la prima “uscita” della Chiesa dal cenacolo è stata per andare al Getsemani.

«Potete voi bere il calice che io sto per bere?», chiese Gesù ai figli di Zebedeo. Con entusiasmo gli risposero di sì (Mt 20, 22). «Andiamo anche noi a morire con lui», disse Tommaso rivolgendosi ai suoi compagni (Gv 11, 16). «Darò la mia vita per te», proclamò con passione Pietro (Gv 13, 37). Quando però furono nell’orto degli ulivi non furono capaci neppure di vegliare un’ora con Gesù, lo lasciarono solo, lo abbandonarono, lo rinnegarono, lo tradirono. Gesù accettò di bere il calice della volontà del Padre che lo chiamava a dare la vita per l’umanità intera, ma in quel momento gli apostoli rifiutarono di berlo.
La prima uscita della Chiesa è per andare a condividere la passione e morte del suo Signore, per bere il calice con lui. In quest’ora in cui la Chiesa sta perdendo credibilità e sembra soccombere sotto il peso degli scandali, quando il Papa, suo segno visibile di unità, viene criticato e rifiutato, la tentazione è la stessa degli apostoli: rinnegare e fuggire. Chiesa in uscita è condividere l’umiliazione di Cristo, la sua angoscia nel vedersi tradito, rifiutato, abbandonato. «Volete andarvene anche voi?», sembra ripetere Gesù (Gv 6, 67). Chiesa in uscita è far proprio l’invito della Lettera agli Ebrei: «Usciamo dunque verso di lui fuori dell'accampamento, portando il suo disonore» (Eb 13, 13). 

«Nata dal sangue di un Dio che muore sulla croce – scriveva sant’Eugenio de Mazenod ai suoi fedeli di Marsiglia –, [la Chiesa] avrà un’esistenza conforme alla sua origine e sempre, tanto sotto la porpora come nelle galere, porterà la croce dolorosa, dove è sospesa la salvezza del mondo. Indissolubilmente unita a Gesù Cristo, calunniato, perseguitato, condannato dagli ingrati che voleva salvare, camminerà con costanza sino alla fine dei secoli nella via delle sue sofferenze e in un’unione ineffabile che l’inferno fremente di rabbia proverà incessantemente a turbare; dovrà sempre lottare, come il suo sposo divino che è anche il suo eterno modello, contro tutti gli errori e tutte le passioni scongiurate, e sostenere i diritti eterni di Dio, che sono la verità e la giustizia (Lettera pastorale, 19 gennaio 1845).
Al termine della vita, nella sua ultima Lettera pastorale del 16 febbraio 1860, cantava il suo inno d’amore a Cristo e alla Chiesa, indissolubilmente compenetrati l’uno nell’altro: «Come è possibile separare il nostro amore per Gesù Cristo da quello per la sua Chiesa? Questi due amori si confondono: amare la Chiesa è amare Gesù Cristo e viceversa. (…). Ora, carissimi fratelli, vi domandiamo: non amare di un amore filiale la Sposa di Gesù Cristo che Egli ci ha dato come Madre, non amare la famiglia dell’Uomo-Dio, la sua casa vivente, il suo tempio santo, la sua città terrena, immagine della città eterna, il suo regno, il suo gregge, la società che ha fondato, in una parola l’opera che è stata l’oggetto di tutte le sue fatiche e che è l’oggetto di tutte le sue compiacenze quaggiù, non è un non voler amare Lui stesso?».


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