Sembrava che con il fortunato libro, Il pane di ieri, Enzo Bianchi avesse detto tutto sul mondo contadino nel quale è nato e vissuto. Aveva dipinto un quadro straordinariamente vivo delle langhe del Monferrato e della sua gente.
Ma la cella del monaco di Bose, quella esteriore con la quale apre il nuovo libro, e quella interiore con la quale lo chiude, è di una tale profondità che, nel suo vuoto, essa è capace di accogliere e far rivivere le persone incontrate lungo la vita; è di una tale trasparenze che dilata lo sguardo su colline e villaggi; è talmente silenziosa che può dar voce alla riflessione sapiente sul senso della vita e della morte, della giovinezza e della vecchiaia. Le stagioni evocate sono soprattutto l’autunno e l’inverno, le più adatte alla contemplazione, ad uno sguardo sereno e pacato che abbracci i sapori della vita, dal barolo chinato all’amicizia sincera, ma anche alla “com-passione” per persone e fatti, rievocati fino a renderli vivi davanti al lettore, e insieme decantati e sublimati dal passare del tempo. Caduto l’effimero, col passare degli anni, resta il gusto delle cose vere.
È un libro di colline e vigneti, tavole e focolari, feste e riti familiari, proverbi e gesti misurati. Un libro di ritratti essenziali di uomini e donne che ti pare di avere sempre conosciuti.
Un libro che insegna, evocando soltanto, come ci si rapporta con le cose e le persone e come essere grati a cose e persone, nella convinzione che “avere qualcuno che crede in noi è decisivo affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita”. Un libro che suscita la voglia di vivere appieno la propria umanità.
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