lunedì 21 marzo 2011

Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione

Sembrava che con il fortunato libro, Il pane di ieri, Enzo Bianchi avesse detto tutto sul mondo contadino nel quale è nato e vissuto. Aveva dipinto un quadro straordinariamente vivo delle langhe del Monferrato e della sua gente.
Ma la cella del monaco di Bose, quella esteriore con la quale apre il nuovo libro, e quella interiore con la quale lo chiude, è di una tale profondità che, nel suo vuoto, essa è capace di accogliere e far rivivere le persone incontrate lungo la vita; è di una tale trasparenze che dilata lo sguardo su colline e villaggi; è talmente silenziosa che può dar voce alla riflessione sapiente sul senso della vita e della morte, della giovinezza e della vecchiaia. Le stagioni evocate sono soprattutto l’autunno e l’inverno, le più adatte alla contemplazione, ad uno sguardo sereno e pacato che abbracci i sapori della vita, dal barolo chinato all’amicizia sincera, ma anche alla “com-passione” per persone e fatti, rievocati fino a renderli vivi davanti al lettore, e insieme decantati e sublimati dal passare del tempo. Caduto l’effimero, col passare degli anni, resta il gusto delle cose vere.
È un libro di colline e vigneti, tavole e focolari, feste e riti familiari, proverbi e gesti misurati. Un libro di ritratti essenziali di uomini e donne che ti pare di avere sempre conosciuti.
Un libro che insegna, evocando soltanto, come ci si rapporta con le cose e le persone e come essere grati a cose e persone, nella convinzione che “avere qualcuno che crede in noi è decisivo affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita”. Un libro che suscita la voglia di vivere appieno la propria umanità.

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