martedì 22 febbraio 2022

Parlare di Dio con l'arte

Frans Claerhout, Oblato

Ogni Oblato, in un certo senso, è un po’ un “artista”! Ogni missionario è chiamato a comunicare una Verità che, per sua natura, è tutt’uno con la Bellezza. Annunciare la parola è un’arte. Lo attesta il parlare di Gesù che sfocia sempre in poesia. L’annuncio della parola diventa spesso un canto. La parola si visualizza poi nell’immagine e si materializza nell’architettura. È il cammino dell’incarnazione: il Dio invisibile si rende visibile nel volto di Cristo, eikôn, “icona-immagine” divina perfetta (cf. Col 1, 5).

L’avevano ben compreso Sant’Eugenio e i suoi primi missionari. Ogni loro missione al popolo richiedeva l’arte oratoria, il canto, la teatralità di alcune cerimonie… Già nel 1826 sant’Eugenio fece stampare una Raccolta di canti e di preghiere ad uso dei Missionari Oblati di Maria, detti di Provenza. Fu seguito da molti altri Oblati, che scrissero inni e pubblicarono raccolte di canti nelle più diverse lingue, per coinvolgere nella preghiera i nuovi cristiani. Tra i tanti possiamo ricordare Alfred Chambeuil che pubblicò in lingua montagnese (1853), Jean-Régis Déléage in maskégon (1860), Nicolas Burtin in mohawk (1873), Mons. Jules-C. Cénez in sisuto (1898), Constant Chounavel in tamil (1896) e in singalese (1911), Joseph Hippolyte e Swaminader Gnanaprakasar ancora in tamil (1902 e 1903), Henri Jacobi in nama o hottentot (1908), Léon Carrière in otchipwé (1910), Jean Guidard in algonchino (1914-1916), e potremmo continuare con una lista infinita.

Nel campo della musica la storia delle missioni oblate conosce dei veri e propri musicisti. P. Pierre Nicolas (1812-1903) “principe dell’armonia”, come lo chiamava Mons. Léonard Berteaud, vescovo di Tulle, promosse un rinnovamento musicale nell’ambito pastorale, pubblicando una Raccolta di Cantici ritmati (Paris, 1885). Simon Scharsch (1860-1928) ha pubblicato molte composizioni sacre, tra cui possiamo ricordare Jesu dulcis amor meus e Jesu dulcis memoria. L’Università di Ottawa, retta dagli Oblati, in risposta al Motu proprio di Pio X e alla Costituzione Divini cultus di Pio XI, nel 1831 istituì una “Scuola di musica religiosa”.

Wilfried Joye, Oblato
L’attenzione per una evangelizzazione capace di colpire i sensi fisici, oltre quelli dell’anima, è attestata dall’uso di altre “arti”. Ne è un esempio Mons Grouard, buon decoratore e artigiano, che in Canada si improvvisa anche pittore, senza pretese, per amore della sua gente: “Come riposo, ho iniziato a dipingere un quadro di Nostro Signore deposto dalla Croce. Non oserei parlare di questo lavoro, peraltro priva di qualsiasi valore artistico, se non avessi visto i frutti di edificazione che si sono già verificati. Dopo aver finito la mia pittura, un vecchio meticcio, commosso, improvvisamente è caduto in ginocchio davanti all'immagine di Nostro Signore e ha cominciato a recitare con devozione tutte le preghiere che sapeva. Questo apprezzamento per me valeva di più di un premio a una mostra d’arte”. Anche P. Petitot, oltre a glottologo, antropologo, geografo, si presenta come decoratore e sculture. Intaglia altari portatili e dipinge immagini sacre nelle cappelle degli eschimesi motivando così: “Più che tra le nazioni civilizzate, in queste terre di missione l’uomo ha bisogno di qualcosa che parla al suo cuore, nella sua immaginazione, attraverso gli occhi”. Per questo sceglie gli ornamenti liturgici più preziosi, le musiche più belle. Occorre infatti “parlare allo spirito e al cuore di queste persone semplici della foresta, portare il cielo sulla terra per loro e far loro gustare quella gioia e quella bellezza che il loro cuore duro e la loro povera immaginazione non hanno mai conosciuto”.

Le stesse motivazioni apostoliche animano p. Chounavel, versato nell’arte oratoria, musicista, pittore. Al termine della missione a Trincomalee, nello Sri Lanka, dipinge lo stendardo della confraternita maschile di san Giovanni Battista con l’immagine del Precursore. Dipinge inoltre le stazioni della via crucis e altri grandi quadri.


Joseph Tsupa Sueho, Oblato 

Occorrerebbe menzionare gli Oblati che hanno lavorato per valorizzare e salvaguardare l’arte indigena. Un esempio per tutti: a P. Charles Arnaud, dopo cinquant’anni di lavoro missionario tra gli autoctoni del nord est canadese, si deve l’allestimento del museo di storia naturale nell’Università cattolica di Ottawa, a p. Louis Doazan quello della cultura contadina in Corsica.

Se dal passato dovessimo venire al periodo più recente e al presente troveremmo un non minor numero di Oblati dediti a musica, pittura, scultura, architettura, cinema. Vi sono artisti con una notorietà a livello mondiale, Frans Claerhout e Wilfried Joye in Sud Africa, Joseph Tsupa Sueho in Giappone. Ma anche scrittori e poeti come James Flavin negli USA, René Fumoleau in Canada, Andrzej Madej in Tuskmenistan…

L’evangelizzazione non può fare a meno dell’arte. Nel messaggio che Paolo VI consegnò agli artisti in Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965 alla chiusura del Concilio, si legge: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione». Il 7 maggio 1964 li aveva convocati nella Cappella Sistina e aveva lanciato loro la grande sfida: «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità».

È una sfida che anche i missionari hanno raccolto.

 

 

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