domenica 31 maggio 2020

Leonello Ciardi: un mite


Quindici anni fa mio babbo Leonello ci lasciava per il Cielo, proprio nel giorno della Visitazione di Maria.

La beatitudine che mi sembra caratterizzi il profilo spirituale del babbo Leonello è: “Beati i miti”.
Mite perché sapeva stare al gioco di noi piccolini che ci nascondevamo sotto la tavola al suo rientro a casa dal lavoro. Ci piaceva sentirlo allarmato dalla nostra scomparsa, forse mangiati dal lupo, e ci piaceva soprattutto saltargli alle gambe per farci sentire vivi e gioire della sua gioia nell’averci ritrovati.
Mite perché ha affrontato le traversie della vita senza mai un lamento, anzi con fede profonda e senso di gratitudine. La prima grande prova, che rimane nella nostra memoria come un evento epico, sono state quelle tre lunghe ore in mare a seguito dell’affondamento della nave su cui viaggiava. Quelle ore di «lotta per la vita furono lunghe – scriveva da Bastia il 21 maggio 1943 –, saliva un groppo alla gola, tremito, crampi, raffreddore, proprio non si respirava più. Restavano ancora pochi minuti, invocavo la Madonna di Montenero, vedevo in faccia la morte, pensavo a casa. Quando finalmente arrivarono i soccorsi: una motobarca italiana … quando la vidi mi venne spontaneo: “Questi sono angeli!”».
Mite nel modo con cui ha saputo affrontare la prova estrema, quella della morte, come mite agnello, senza un lamento.
È vero, si muore come si vive.

Aveva 57 anni quando già si preparava alla vecchiaia, «gli anni più faticosi - scriveva -: occhi stanchi, menti vuote, i nipoti che ci fanno chiasso, non si può più leggere un libro, delle domeniche si perde la Messa per ragioni di salute». Già da allora si esercitava a raccogliere e conservare nel cuore «una frase in una predica, un ricordo in una gita, un pensiero in un libro. C’è sempre qualcosa che si ricorda in modo particolare ed allora teniamolo in mente, ricordiamolo spesso (ad es. Loppiano, Greccio, ecc.)». E ancora: «Studiamo la strategia della preghiera, ci servirà in modo particolare negli ultimi anni di nostra vita. Anche la vecchiaia la dobbiamo preparare, è importante, è una fase della vita come ogni altra età. È l’ultima fatica, ci porta direttamente al cospetto di Dio».


Una mitezza evangelica la sua, che non aveva il sapore né della rassegnazione né della codardia, e che non lo ha esonerato dall’impegno civile, politico ed ecclesiale.
Determinato e fermo nelle idealità e nei propositi ci ha lasciato una intensa testimonianza di amore e dedizione sincera alla famiglia e alla Chiesa diocesana, di rettitudine morale e di sensibilità spirituale esemplari, capaci di aiutare anche noi a vivere con serietà l’impegno civile e cristiano. “Fatti e non parole” potrebbe essere il suo motto.
Ricordo solo il suo impegno ecclesiale, nelle sue tappe principali.
È stato prima terziario francescano. Vestì l’abito di San Francesco il 20 dicembre 1935 e il 16 gennaio 1938 fece la professione. Quando arrivava con la moto nel chiostro di S. Domenico il Direttore del Terz’Ordine si metteva le mani nei capelli ed esclamava: La pace è finita! Fedele alle adunanze ne redigeva i verbali. Ma soprattutto si è impregnato gradatamente e ha vissuto con coerenza l’ideale di san Francesco.
È stato un convinto membro dell’Azione cattolica, ricoprendo varie cariche diocesane. Mi ricordo quando il Vescovo Pietro Fiordelli, incontrandolo cinque anni prima della morte, lo abbracciò dicendogli e dicendoci con foga: “Ecco uno dei miei giovani d’azione cattolica, uno dei miei sostegni”. Era l’ultimo incontro qua in terra. Ora si sono nuovamente incontrati in Cielo.
È stato un amico dei Missionari Oblati di Maria Immacolata dei quali apprezzava l’apertura e lo stile di vita fraterno. Una delle poche parole che è stato capace di pronunciare in questo ultimo periodo è stata l’esclamazione di gioia quando ha sentito che entravano in casa due missionari: “Gli Oblati!”.
Ascoltando gli aggiornamenti sulla vita del Movimento dei focolari, lui che tante volte era stato a Loppiano e aveva partecipato alle Mariapoli e agli incontri di Castelgandolfo, diceva: “Vorrei essere un focolarino”.
È stato un uomo di fede dunque, capace di gioire di tutto ciò che avvertiva di bello e di nuovo nella vita della Chiesa.

Il rinnovamento liturgico è stato per lui come un grande respiro così come tutto il messaggio del Concilio Vaticano II.
Nel 1964, in un suo scritto, già si sente quell’aria nuova: «La S. Pasqua di Resurrezione è prossima. Che giorni di Santi ricordi!… Costante e fedelmente ci fa rivivere nel tempo tutta la Passione e morte di N.S.G.C. sempre fresca come allora, dopo 20 secoli.
Resurrezione, che è vittoria della vita sulla morte, della grazia sul peccato, di Dio sul demonio, premio eterno a tante rinunzie ed opere buone, Speranza che ha dato forza a tanti apostoli e martiri.
Quanto è bella la nostra Religione!
Quante tappe così belle durante l’anno, che la Chiesa Madre amorosa ci mette sulla via dell’eternità. Ci facciano meditare veramente e ci siano oasi di ristoro, onde ripartire più buoni, più zelanti, con più amore ai nostri doveri.
Che tutti noi si sia una cosa sola nell’imitazione di Gesù, per quanto ci è possibile, nella vita e nella resurrezione».
Nel suo volume dei documenti conciliari uno di questi è quasi interamente sottolineato, il documento sui laici: finalmente vedeva riconosciuto il suo statuto di laico all’interno della Chiesa, anche se in pratica continuava a soffrire nel percepirne, di fatto, una certa emarginazione.
È stato un uomo di fede, ma senza aver mai condiviso atteggiamenti ipocriti o bigotti. Anzi, perché uomo di Chiesa, ha sofferto della divisione e delle piccinerie che avvertiva in essa. Nel 1969 scriveva: «Vedrei bene cambiare molto del passato per eliminare ogni rivalità tra vari ordini e diocesi, sia nel campo laico che in quello religioso. Dovrebbe essere la stessa cosa o dell’A.C., o del Terz’Ordine, o degli Scout, ecc., pur di lavorare bene, allo stesso fine e in armonia con l’autorità, cioè con tanta più carità e amore! Gesù disse a S. Francesco: “Va, restaura la mia Chiesa”, ma poi capì che era quella spirituale; cioè non vale niente costruire chiese ed opere parrocchiali se non sappiamo costruire la Comunità Parrocchiale nella carità e nell’amore, con tutte le sue infinite applicazioni…».
A volte, come Gesù, avrebbe voluto prendere le funi e cacciare i mercanti dal tempio, ma più si rendeva conto delle debolezze dei membri della Chiesa più cresceva la sua fiducia nella Chiesa. Davanti al negativo non è mai arretrato, anzi ha continuato ad amare e servire la Chiesa, come scriveva nel bollettino della nostra parrocchia: «Vogliamo amare la Chiesa e lavorare per Essa, oggi che maggiormente ha bisogno di figli buoni, obbedienti ed uniti per realizzare la nostra Comunità». Aveva infatti il senso del mistero della Chiesa: «Individualmente – scriveva – siamo servi inutile, ma nella Comunione dei Santi anche la piccola azione o un pensiero d’amore può avere grande valore».

Vorrei infine ricordare il babbo Leonello come uomo di preghiera.
Ogni giorno andava a pregare nella chiesa di sant’Agostino dove c’è l’adorazione eucaristica permanente. «Si cerca tanto la fuga dai rumori, la casa in montana, una tregua alla vita dinamica – diceva al Consiglio pastorale della parrocchia di san Paolo nel 1972. Andiamo qualche volta in Chiesa, per es. a S. Agostino nel trionfo dell’Eucaristia, dai PP. Cappuccini nella pace e umiltà francescana. In Chiesa ci dobbiamo star volentieri, dobbiamo trovarci un relax davanti a Lui. Egli ha detto: “Venite a me, vi ristorerò”».
Ogni giorno, come ogni buon cristiano, recitava con fedeltà le preghiere del mattino e della sera, l’angelus e il rosario.
Ma soprattutto pregava in maniera spontanea, un po’ originale.
Il 6 dicembre 1968, allora io avevo vent’anni, mi scriveva ad esempio: «Mi dici di pregare un po’ per te; sta sicuro che lo faccio come nel passato. Di solito mi piace raccomandarti alla Madonna, che ti guardi come suo figlio a codesta età: ne avrai fino a 33 anni e poi si cambierà preghiera».
La sua era una preghiera semplice, di uomo mite.
È proprio questo il titolo che diede ad una sua meditazione del 1976: “La preghiera semplice”.  Termino leggendone alcune righe soltanto.
«La strategia della preghiera consiste, secondo me, nell’educare il cuore e la mente.
Prima di pregare impariamo ad amare ed amare tanto fortemente.
L’amore convalida la preghiera, la vivifica, la precede, l’amore la porta a Dio, fa pensare a quel che si dice, a quel che si vuole, ne fa una forza, la concretizza, bussa, è attenzione, non ci distrae, cerca il motivo della preghiera, si gustano le parole più belle.
Per esempio il pensiero dice “Padre nostro che sei nei cieli”, ed il cuore pensa a Dio, agli Angeli, al Paradiso, alla Creazione.
L’amore condivide, gioisce della bellezza di Dio.
Il pensiero cerca Dio con la preghiera, il cuore la gusta.
La preghiera è bella quando è semplice, spontanea».
E qui riporta una serie sterminata di brevi e intense invocazioni che usava rivolgere a Dio, una più bella delle altre.
«Tante di queste giaculatorie – continua nel suo scritto – sono flash, istantanee, fulmini per il cielo, parafulmini per la terra. È una preghiera sempre nuova, inventata dal cuore, gratuita, senza libri. Nessuna ce la ruberà, né le chiese chiuse, né le guerre, né le rivoluzioni, né le prigioni. Anche nel dolore quando la disperazione sembrerà avere il sopravvento sapremo fare queste brevi preghiere e ci saranno di grande utilità.
È questione di allenamento e saremo sempre giovani di spirito in ogni età della vita. Come gli Angeli col loro Sanctus in Paradiso sono la delizia di Dio, così noi con le nostre invocazioni saremo in terra la delizia di Dio».

Termino con una di quelle preghiere semplici che era solito ripetere e che ha lasciato scritta:
«Cristo nostro Pasqua, Vita e Risurrezione nostra;
Gesù sono nudo come Te sulla Croce, perdona i nostri peccati;
“Oggi sarai meco in Paradiso”;
Oh! il Paradiso!;
Prendimi, Signore;
Grazie Signore;
Vedrò Maria, La Madonna, Vergine bella più bella di tutte;
Sarà Santo come tanti altri;
Andrò in Paradiso, di Lassù pregherò per i miei famigliari».

1 commento: