lunedì 11 maggio 2020

Coronavirus: Un tempo propizio che Dio ci dona / 4


Provo a immaginare qualche pista per la missione non tanto per questo momento, quando si fa quel che si può, ma per dopo la pandemia, perché non torni “tutto come prima”.

 

L'importanza delle relazioni tra di noi


Questo tempo di segregazione ci aiuta ad andare in profondità nelle relazioni tra di noi e con tante persone che si rivolgono a noi per un consiglio, una preghiera, semplicemente per uno sfogo…
Mai come in questi giorni, davanti a tanta incertezza, al crollo di tante espressioni di vita, si cercano voci che possono dare risposte e sicurezza. Si sente il bisogno di una luce nel buio che avvolge il futuro, il bisogno di senso nel disorientamento generale. Per questo le parole e i gesti di papa Francesco hanno tanto successo e sono seguitissimi: sono una testimonianza e una speranza.

Le attività sono venute meno. Cosa rimane? I rapporti. L’essenziale sono i rapporti. Dobbiamo approfittare di questo tempo per crescere nei rapporti, nel prendersi cura delle persone vicine e lontane. Hanno chiuso gli edifici del culto, ma la Chiesa è il risultato dei nostri rapporti. Ce ne ricorderemo una volta passata la pandemia?

Dopo mesi di separazione e di diffidenza verso l’altro, che spesso è considerato come un possibile portatore di contagio, non sarà facile tornare ad avere relazioni fraterne e generose.
Eppure la nostra vocazione è creare rapporti sempre più informati dalla carità sia all’interno della famiglia che negli ambienti nei quali viviamo e operiamo. Indelebili le parole di Paolo VI in occasione della sua visita alla parrocchia di S. Maria Consolatrice, quando tracciava un percorso pastorale semplice ed esigente: «Sono uniti i fedeli nell’amore, nella carità di Cristo? Di certo questa è una parrocchia vitale; qui c’è la vera Chiesa; giacché è rigoglioso, allora, il fenomeno divino-umano che perpetua la presenza di Cristo fra noi. Sono i fedeli insieme unicamente perché iscritti nel libro dell’anagrafe o sul registro dei battesimi? sono aggregati solo perché si trovano, la domenica, ad ascoltare la Messa, senza conoscersi, facendo magari di gomito gli uni contro gli altri? Se così è, la Chiesa non risulta, in quel caso, compaginata; il cemento, che di tutti deve formare la reale, organica unità, non è ancora operante...
Ricordate la parola solenne di Cristo. Vi riconosceranno veramente per miei discepoli, autentici seguaci e fedeli, se vi amerete gli uni gli altri; se ci sarà questo calore di affetti, di sentimenti; se vibrerà la simpatia voluta più che vissuta, creata da noi, più che spontanea, con quella larghezza di cuore e quella capacità di generare il Cristo in mezzo a noi, derivanti, appunto, dal sentirci uniti in Lui e per Lui».

La dimensione sociale della fede rimane essenziale. La preghiera personale o in famiglia, che abbiamo imparato in questo periodo deve allargarsi alla liturgia comunitaria. Guai se non tornassimo all’Eucaristia insieme. Forse dovremo trovare modalità nuove.
Il 25 marzo il Papa ha fatto una liturgia insolita. Ha saputo creare qualcosa di nuovo. Pur essendo solo davanti a una piazza san Pietro vuota, ci ha fatto sentire tutti un unico popolo di Dio. Ci ha fatto dire: “Siamo tutti qui”. Non dovremmo anche noi inventare una liturgia nuova, più partecipativa?

Una nuova coscienza planetaria


Lo sguardo deve allargarsi ulteriormente, oltre alla stessa comunità ecclesiale.
La Chiesa non vive per se stessa, né da sola. È chiamata a vivere in comunione con le altre Chiese, con le persone di altre religioni, con la società civile… L’esperienza della fragilità, che la pandemia ci fa vivere, mostra quanto è assurdità la tentazione dell’autosufficienza dettata dalla tecnica e dalla scienza, quanto è artificiale il mondo del benessere che abbiamo creato.
Prendiamo coscienza del limite, della nostra piccolezza. Soprattutto prendiamo coscienza che l’umanità può superare questi o tanti altri problemi soltanto se cammina insieme.
Perché tutto non torni come prima occorre non pensare più soltanto a noi stessi –come individui, come popoli, come nazioni, come culture..., ma anche come Istituti religiosi, come Chiese, come religioni –, ma farci carico dei problemi degli altri. Siamo in un orizzonte globalizzato, dove tutti dipendiamo da tutti, e qualsiasi evento in qualsiasi angolo del mondo ha ripercussioni in luoghi che, pur lontani o remoti, sono pur sempre strettamente collegati tra loro.
Accorgersi finalmente che siamo tutti delle creature dipendenti, che muoiono allo stesso modo nel primo come nel terzo mondo, forse ci aiuta a capire l’unità fondamentale del genere umano.
Sapremo tenere conto di questa lezione nella nostra vita e nella nostra missione? Ne uscirà una Chiesa più aperta, in sincero dialogo, consapevole che non può vivere se non in comunione con tutta l’umanità?

1 commento:

  1. Bravo Fabio. Por todas las entradas sobre el coronavirus como tiempo propicio que Dios nos da, nos ofrece. Necesitamos mucho reflexiones como esta. Mi miedo es que pase este tiempo dejando pasar la gran oportunidad que Dios nos da para valorar lo que tiene valor... aquí en el Sáhara algunas cosas ya las veíamos antes, mucho antes, pero ahora con más urgencia. Mi miedo es que todo vuelva a esa "normalidad" ajena a lo real que Dios nos presenta. Mi miedo es que como Iglesia no nos demos cuenta... Si lo pienso para la sociedad humana y para la Iglesia lo pienso también para nuestra querida congregación: ojalá podamos descubrir en toda su belleza lo que Dios está escribiendo en este momento histórico. Seguro que tú animarás a los nuestros de la Generalizia a "pensar con el corazón" sobre lo que está pasando. Iba a escribir algo sobre ello pero lo dejo en tus manos. Un abrazo y adelante.

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