15 dicembre. Basta uscire dalle grandi arterie della città per trovarsi in una giungla di strade congestionate, in un dedalo di vicoli affollati. I negozi sono senza vetrine né porte, completamente aperte sulla strada. Basta poco per aprire un’attività: una pentola e avvii una mensa, un filo steso con appesi alcuni vestiti ed hai una boutique, due sgabelli, uno specchio e un rasoio ed ecco un salone di bellezza… Dietro si innalzano i condomini pavesati di panni stesi, con i terrazzi stipati all’inverosimile, serrati ermeticamente da inferriate. I marciapiedi sono occupati da tende di incerati neri e blu, addossati ai muri di recinzione delle case, che fanno da casa, negozio, luogo di ritrovo. Tra un negozio e l’altro si aprono stanze-templi, con le statue delle più differenti divinità; accanto la bancarella con incenso e fiori… Il divino è così diffuso che si può venerare anche una delle pietre che emergono dal selciato o un albero lungo la strada, segnati con tinte forti ed avvolti da festoni. Da una donna seduta sul marciapiede si può comprare un fascetto di erba e offrirla alla mucca legata all’albero.
Visito un tempio indù. I devoti entrano ed escono in un flusso costante, venerando per pochi minuti le differenti divinità. Rimango incantato dalla scenetta di due bambine. Avranno rispettivamente sette e cinque anni. Entrano di corsa, scalze come tutti, e passano veloci da una statua all’altra, le toccano, si portano le mani alla fronte e al petto così che la benedizione passi nella mente e nel cuore, poi scappano via. Sono venute da sole per venerare e ricevere la forza degli dei.
Poco distante un piccolo tempio jainista. Nel cortile un gruppo di donne attornia due monache che stanno per partire. Mi avvicino e uno dei custodi del tempio fa da interprete; la gente abitualmente non parla inglese, ma una delle 18 lingue ufficiali dell’India, a volte solo una delle molte altre lingue minoritarie. La monaca più anziana è su una sedia a rotelle. La più giovane, con in mano il bastone di viaggio, mi spiega che, dopo essere state nel tempio per quattro mesi, adesso partono, salutate dalle donne devote che in questo periodo le hanno circondate di affetto e assistite. Hanno lasciato casa e famiglia e si sono fatte pellegrine. Nubili, non possiedono se non quanto hanno indosso. Vanno da un tempio all’altro, vivono della questua di casa in casa, accettando solo il minimo per mangiare. Nella stagione delle piogge si fermano in un tempio perché nel fango potrebbero calpestare qualche forma di vita. Ora riprendono in viaggio stando bene attente a non schiacciare neppure una formica, tanto è estrema la loro forma della non violenza. Ambedue sprizzano gioia.
Dopo averle vita partire, entro sotto il loggiato del tempio dove un devoto sta facendo scorrere i grani di una lunga corona, continuando a ripetere: Ti saluto… e il nome di uno degli dei. All’interno alcune donne con la mascherina sulla bocca, per evitare che possa entrare qualche moscherino e quindi di ucciderlo, onorano le diverse divinità: offrono l’incenso, agitano un ventaglio, accendono le lanterne, disegnano per terra, con chicchi di grano, una svastica… La guida mi parla della loro vita, di come tra di loro jainisti non ci sono caste, ma rispetto vicendevole, assoluta non violenza, di come cercano di aiutare tutti… Una giovane donna, sentendomi parlare in inglese, mi spiega i genti rituali che ha appena fatto. Le chiedo in particolare il significato dello specchio e di un piccolo ventaglio d’argento che le ho visto usare: “Faccio rispecchiare l’immagine di una delle statue, in modo che sia vicina a me; una volta che è sullo specchio le do un po’ refrigerio con il ventaglio, quindi mi porto lo specchio sul petto, attenta che continui a riflettere la divinità, così che essa possa riposare sul mio cuore…”. Quanta gente ci precederà nel regno dei cieli!
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