Passeggiata in centro città. I palazzi di vetro e di metallo si slanciano eleganti, freddi, anonimi verso il cielo limpido, impassibile al loro gratta-cielo!
Una città fantasma. Non si vede anima viva. Soltanto i semafori sono animati dal tranquillo regolare susseguirsi dei tre colori (mi dispiace, anche a Dallas ce ne sono soltanto tre). Tutti questi immensi edifici, che si riflettono l’uno nell’altro, sono uffici. Oggi è festa, nessuno è al lavoro, nessuno abita qui. Silenzio.
Silenziosa anche la mandria di mucche al guado, che tre cow boy conducono verso il nord: imponente scultura che rievoca i tempi d’un Texas che non c’è più.
Affogata tra i grattacieli la cattedrale. In questa isola la vita: centinaia di latinoamericani in festa, che cantano, giocano, mangiano in una sinfonia di colori (tutti e sette, questa volta!). Sembra di essere in Messico. Si parla soltanto spagnolo. I bambini sono mascherati per la festa di Halloween.
Due passi più in là di nuovo il vuoto, il silenzio, la città che non è. Un sassofonista nero suona in mezzo alla strada, senza nessuno ad ascoltare le sue note disperate. Devo uscire dall’orbita dei grattacieli per incontrare qualche bar, un ristorante, qualche timido passante, intimidito dalla città deserta.
Un gruppetto sparuto di giovani neri si molleggia all’angolo della strada: “Una foto insieme?”. Si lasciano convincere dal mio capello alla cow boy e dalla camicia texana.
All’uscita della città il luogo dove Kennedy venne assassinato. Un venditore ambulante di souvenir e cinque turisti nostalgici.
Mi allontano dal centro mentre gli ultimi raggi del sole illuminano l’elegante siluette della città che brilla d’un azzurro metallico. Mi immergo di nuovo nella grande estesissima anonima Dallas, dispersa nel verde. A casa ritrovo il calore della famiglia e quella presenza di Gesù che vale di più di una grande città come Dallas, che pure dovrò tornare a vedere nei giorni della sua vitalità frenetica, per scoprirne l’anima.
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