Non aspettavano quest’altra sorpresa. Celso avrebbe voluto scendere a Bessalì, nella foresta, tra i Mundani, dove ha compiuto una grande opera di evangelizzazione, ma la nostra macchina non consente di affrontare la pista che porta da quelle parti. In compenso saliamo a Nkongle, anche se, sempre a causa della macchina, dobbiamo fare un lungo giro: tre ore di viaggio per queste strade impossibili.
Ero salito lassù nel 1987, quando ancora non c’era la
chiesa. Lo ricordo come uno dei giorni più belli del mio primo viaggio in
Africa: mi venne il mal d’Africa!
Oggi siamo tornati per rivedere un po’ della gente di allora,
soprattutto il vecchio catechista, ma anche tante altre persone. Adesso la
missione è diventa parrocchia. La chiesa costruita da p. Celso – la prima in
blocchi di cemento – è divenuta troppo piccola perché i cristiani si sono
moltiplicati e presto sarà costruita una nuova chiesa.
Dopo esserci fermati nella casa del parroco siamo andati
alla chiesa. Ed ecco la sorpresa: Tante persone allineati lungo la strada per
rendere omaggio al loro vecchio missionario. Dopo la poesia e l’offerta
floreale si snoda la processione con i canti. Messa solennissima, di quelle
che, con i discorsi, dura quasi tre ore, ma tutti sono contenti e a proprio
agio, partecipando in maniera molto attiva.
Terminata la messa, la Mafua ci ha investito delle insegne
dei capi: da non credere. È stata una festa che non avrei mai immaginato:
l’abito finemente ricamato, il bastone lavorato in maniera artistica, il
copricapo, la collana, il bracciale, lo scettro… Una autentica investitura.
A proposito della mia prima visita, ho con me la pagina che scrissi allora, 1° gennaio 1987:
Me lo sentivo che stava arrivando. I primi sintomi li ho
avvertiti, quasi impercettibili, in Zaire, in foresta, con sopra un cielo d’un
blu intenso ovattato di nubi bianchissime. In Senegal si sono fatti più
evidenti quando la sera, in piena savana, i baobab si stagliavano, in un
silenzio estatico, sull’orizzonte infuocato. Oggi, quassù a Nkongle, a 2500
metri, è esploso con tutta la sua virulenza. Il mal d’Africa, malattia dolce e
terribile. Ne avevo sentito parlare ma non avrei mai creduto che ne sarei rimasto
infettato. A nulla sono valsi i vaccini che mi hanno iniettato prima di
partire.
Possibile che sia stata la sardina che ho mangiato a pranzo?
Una sardina e un pezzo di pane: il pranzo di capodanno. È vero che uno dei capi
ha portato una bottiglia di Johnny Walker con due dita di whisky, ma non me n’è
toccata neppure una goccia. Eppure è stato il pranzo più gustoso che abbia mai
consumato, saziato dalla vista degli uomini in festa che ridono a squarciagola
con le bocche sdentate; dall’odore acidulo, indefinibile, che pervade la
capanna e fa pizzicare le narici; dall’intrusione timida dei bambini nudi e da
quella discreta di donne servizievoli avvolte in abiti sgargianti che colorano
il monocromatismo del terriccio che tutto impregna.
Da dove mi è arrivata questa sottile eccitazione che ha
cominciato a circolarmi per le vene, capace di combinarsi così bene con il
senso di pace che mi pervade? È questo il mal d’Africa? Senso di nostalgia e di
compiutezza, ebbrezza di sogno ed esigenza di verità, fascino dell’immenso e
gusto dell’essenziale.
Mentre salivo a Nkongle, ritto sul pianale del camioncino,
gli alberi dei rami lungo la pista mi frustavano il volto. Si aprivano sprazzi
di cielo in alto e squarci di dirupi in basso, con l’orizzonte che si allargava
gradatamente a spazi sconfinati. Mi assaliva un senso di onnipotenza e di
libertà. Era il mal d’Africa? L’attraversamento dei rari minuscoli villaggi si
tramutava di un coinvolgimento di popolo. L’anima si riempiva di un senso di
compassione, insieme al desiderio di condivisione. Mal d’Africa anche questo?
Il pranzo spartano è terminato. È il momento
dell’ufficialità.
Prende la parola uno dei notabili del villaggio: “Tu vieni
da un Paese ricco, vero? Perché non dici alla tua gente che abbiamo bisogno di
un dispensario e della maternità? Le nostre donne devono camminare a piedi per
ore ed ore per andare a partorire in un luogo sicuro”.
Vorrei rimanere qui, per sempre. (…)
Il vecchio Toyota sgangherato riparte. Da queste altezze di
paradiso scendiamo verso Fonjumetaw. Le mani di un intero popolo si agitano a
festa in un unico saluto, avvolte dal rosso infuocato del tramonto.
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