giovedì 1 maggio 2025

Mal d'Africa

Non aspettavano quest’altra sorpresa. Celso avrebbe voluto scendere a Bessalì, nella foresta, tra i Mundani, dove ha compiuto una grande opera di evangelizzazione, ma la nostra macchina non consente di affrontare la pista che porta da quelle parti. In compenso saliamo a Nkongle, anche se, sempre a causa della macchina, dobbiamo fare un lungo giro: tre ore di viaggio per queste strade impossibili.


Ero salito lassù nel 1987, quando ancora non c’era la chiesa. Lo ricordo come uno dei giorni più belli del mio primo viaggio in Africa: mi venne il mal d’Africa!

Oggi siamo tornati per rivedere un po’ della gente di allora, soprattutto il vecchio catechista, ma anche tante altre persone. Adesso la missione è diventa parrocchia. La chiesa costruita da p. Celso – la prima in blocchi di cemento – è divenuta troppo piccola perché i cristiani si sono moltiplicati e presto sarà costruita una nuova chiesa.


Dopo esserci fermati nella casa del parroco siamo andati alla chiesa. Ed ecco la sorpresa: Tante persone allineati lungo la strada per rendere omaggio al loro vecchio missionario. Dopo la poesia e l’offerta floreale si snoda la processione con i canti. Messa solennissima, di quelle che, con i discorsi, dura quasi tre ore, ma tutti sono contenti e a proprio agio, partecipando in maniera molto attiva.


Terminata la messa, la Mafua ci ha investito delle insegne dei capi: da non credere. È stata una festa che non avrei mai immaginato: l’abito finemente ricamato, il bastone lavorato in maniera artistica, il copricapo, la collana, il bracciale, lo scettro… Una autentica investitura.



A proposito della mia prima visita, ho con me la pagina che scrissi allora, 1° gennaio 1987:

Me lo sentivo che stava arrivando. I primi sintomi li ho avvertiti, quasi impercettibili, in Zaire, in foresta, con sopra un cielo d’un blu intenso ovattato di nubi bianchissime. In Senegal si sono fatti più evidenti quando la sera, in piena savana, i baobab si stagliavano, in un silenzio estatico, sull’orizzonte infuocato. Oggi, quassù a Nkongle, a 2500 metri, è esploso con tutta la sua virulenza. Il mal d’Africa, malattia dolce e terribile. Ne avevo sentito parlare ma non avrei mai creduto che ne sarei rimasto infettato. A nulla sono valsi i vaccini che mi hanno iniettato prima di partire.

Possibile che sia stata la sardina che ho mangiato a pranzo? Una sardina e un pezzo di pane: il pranzo di capodanno. È vero che uno dei capi ha portato una bottiglia di Johnny Walker con due dita di whisky, ma non me n’è toccata neppure una goccia. Eppure è stato il pranzo più gustoso che abbia mai consumato, saziato dalla vista degli uomini in festa che ridono a squarciagola con le bocche sdentate; dall’odore acidulo, indefinibile, che pervade la capanna e fa pizzicare le narici; dall’intrusione timida dei bambini nudi e da quella discreta di donne servizievoli avvolte in abiti sgargianti che colorano il monocromatismo del terriccio che tutto impregna.

Da dove mi è arrivata questa sottile eccitazione che ha cominciato a circolarmi per le vene, capace di combinarsi così bene con il senso di pace che mi pervade? È questo il mal d’Africa? Senso di nostalgia e di compiutezza, ebbrezza di sogno ed esigenza di verità, fascino dell’immenso e gusto dell’essenziale.

Mentre salivo a Nkongle, ritto sul pianale del camioncino, gli alberi dei rami lungo la pista mi frustavano il volto. Si aprivano sprazzi di cielo in alto e squarci di dirupi in basso, con l’orizzonte che si allargava gradatamente a spazi sconfinati. Mi assaliva un senso di onnipotenza e di libertà. Era il mal d’Africa? L’attraversamento dei rari minuscoli villaggi si tramutava di un coinvolgimento di popolo. L’anima si riempiva di un senso di compassione, insieme al desiderio di condivisione. Mal d’Africa anche questo?

Il pranzo spartano è terminato. È il momento dell’ufficialità.



Prende la parola uno dei notabili del villaggio: “Tu vieni da un Paese ricco, vero? Perché non dici alla tua gente che abbiamo bisogno di un dispensario e della maternità? Le nostre donne devono camminare a piedi per ore ed ore per andare a partorire in un luogo sicuro”.

Non avevo mai condiviso la gioia della maternità come quando, ieri, a Fonjumetaw, ho sentito le nenie e i canti delle donne in festa. Attratto dalle loro grida gioiose ero uscito lungo la pista che sale dal dispensario e avevo visto una mamma col bambino, venuto alla luce poche ore prima, accompagnata in corteo dalle donne del suo villaggio di provenienza. Mi sono sentito coinvolto, africano anch’io, pienamente partecipe dell’evento. Il mal d’Africa aveva sempre più presa. (...)

Vorrei rimanere qui, per sempre. (…)

Il vecchio Toyota sgangherato riparte. Da queste altezze di paradiso scendiamo verso Fonjumetaw. Le mani di un intero popolo si agitano a festa in un unico saluto, avvolte dal rosso infuocato del tramonto.




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