lunedì 7 gennaio 2019

Quando i missionari erano pionieri


P. Raimondo de Coccola
P. Raimondo con i suoi cani da slitta
Aveva soltanto il senso dell’avventura, un grande desiderio di evangelizzare terre lontane e la macchina fotografica. Fu così che l’Oblato Raimondo de Coccola nel 1937 fondò la sua prima missione tra gli Inuit, e per 12 anni percorse migliaia di chilometri sulla slitta trainata dai cani, disegnando le mappe, creando molte altre missioni e documentando la vita e le lingue dei popoli con i quali entrava in contatto.
Era nato in Corsica nel 1912 e nel 1936 era partito per il Meckenzie in Canada. Lo zio Nicola de Coccola lo aveva già preceduto come missionario in Canada.
Grazie al suo lavoro l'Arcidiocesi di Vancouver possiede ha un prezioso archivio con oltre 400 fotografie e altri materiali che immortalano la vita degli Inuit a metà del 1900.
Le straordinarie fotografie sono state ritrovate giusto in tempo per la settimana degli archivi dell'Arcidiocesi, che si è svolta poco tempo fa dal 18 al 24 novembre. Così gli Oblati fanno rivivere la loro straordinaria avventura missionaria.


Una delle sue tante foto


Il Nuovo Testamento in Inuktitut
"Non c’è niente di simile nella nostra collezione", ha dichiarato Jennifer Sargent, l’archivista dell'Arcidiocesi di Vancouver. "Le sue fotografie sono bellissime. Aveva un occhio artistico".
A causa della malattia, nel 1949 p. de Coccola dovette abbandonare il campo di lavoro missionario e continuò a lavorare come prete a Vancouver per 28 anni. È morto nel 1985.
Oltre a centinaia di fotografie, la collezione de Coccola comprende vari manufatti: due dei suoi compassi, mappe su cui aveva disegnato o scritto, lettere, documenti, arte Inuit e persino un Nuovo Testamento scritto in Inuktitut.


P. Raimondo ha pubblicato anche due libri sulle sue avventure: Ayorama The incredibile EskimoL’esposizione di Vancouver è l’occasione per riprendere quest'ultimo libro nel quale, a 76 anni, ha raccontato i suoi viaggi e la sua permanenza tra un popolo il cui stile di vita è sempre stato segnato dalle dure condizioni climatiche.
“Mi manca l’immensità delle terre e, naturalmente, la gente...  – raccontava in occasione della pubblicazione del libro –. A volte, mentre percorrevo le piste di neve, recitavo il rosario, ma spesso dovevo concentrarmi sul viaggio per arrivare sano e salvo. Pian piano avevo acquistato l’istinto di sopravvivenza dell’eschimese. Sentivo che Dio mi aveva portato in quelle terre e che era stato lui ad avermi messo in quelle situazioni difficili, ero quindi sicuro della sua vicinanza e protezione. C’era un deciso senso di pace in quei viaggi, e questo mi ha tirato fuori da ogni pericolo.
Costantemente minacciato dal freddo, dall’oscurità e dalla ricerca di cibo, la sopravvivenza è diventata rapidamente parte integrante della vita di ogni giorno. Bisognava affidarsi agli Inuit. Mi insegnarono i loro metodi di caccia e pesca. La condivisione di esperienze quotidiane è stata fondamentale ed ha facilitato anche la condivisione della spiritualità.
Allora la regione centrale dell’Artico ospitava circa 450 Inuit. Come gli altri missionari, che hanno trascorso giorni e notti con loro per anni, imparando la loro lingua, il loro modo di vivere, credo di essere arrivato ​​a conoscere la loro mentalità, le loro povertà, il terrore per le situazioni spesso drammatiche nelle quali vivono, la paura degli spiriti cattivi.

Con questo libro ho voluto far conoscere chi sono davvero gli eschimesi, il loro carattere, i loro pensieri più intimi, la vita quotidiana, le sofferenze e la lotta per la sopravvivenza. Dovremmo essere fieri di loro, che sono riusciti a sopravvivere in questi climi, per secoli”. 

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