giovedì 12 gennaio 2017

Non per proselitismo, ma per attrazione

«L’unità non si fa perché ci mettiamo d’accordo tra noi, ma perché camminiamo seguendo Gesù. E camminando, per opera di Colui che seguiamo, possiamo scoprirci uniti. È il camminare dietro Gesù che unisce. Convertirsi significa lasciare che il Signore viva e operi in noi… l’unità non la creiamo noi. Ci accorgiamo che è lo Spirito che spinge e ci porta avanti. Se tu sei docile allo Spirito, sarà Lui a dirti il passo che puoi fare, il resto lo fa Lui. Non si può andare dietro a Cristo se non ti porta, se non ti spinge lo Spirito con la sua forza. Per questo è lo Spirito l’artefice dell’unità tra i cristiani.
Ecco perché dico che l’unità si fa in cammino, perché l’unità è una grazia che si deve chiedere, e anche perché ripeto che ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso. La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma «per attrazione», come ha scritto Benedetto XVI. Il proselitismo tra cristiani quindi è in se stesso un peccato grave. La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi».

È da due mesi che ho sul comodino il numero dell’Avvenire con l’intervista a Papa Francesco. Finalmente ho trovato il tempo per leggerla. Mi è piaciuto tantissimo per la schiettezza, la semplicità, la profondità con cui affronta le tematiche. Mi hanno colpito in particolare queste parole sul dialogo ecumenico, forse perché venendo dall’India mi pare abbiano un’assonanza con il dialogo interreligioso. So bene che siamo su piani molto diversi, ma la dinamica di fondo è la stessa.
Le persone di altre religioni non sanno che stanno camminando verso Cristo, ma noi lo sappiamo e sappiamo che a spingerli verso di lui è lo stesso Spirito che opera in noi.
Anche nel rapporto con loro non saremo noi a creare l’unità.
Anche nei loro confronti nessun proselitismo ma “attrazione”. I peggiori terroristi, diceva un amico indù, sono i missionari che fanno stragi di fedi e culture. Aveva davanti pagine di storia dell’imperialismo britannico.

«Personalmente – scriveva padre Marcello Zago – non cerco mai di parlare di me stesso, della mia religione o di fare dei paragoni con la nostra fede e la nostra pratica: non prendo l'iniziativa a questo riguardo, ma resto aperto. Spesso, dopo un dialogo lungo e soprattutto profondo, è l'interlocuto­re buddhista che mi pone delle domande sulla mia fede, la mia vita, le mie motivazioni. In questo rispondo semplicemente, cercando di adat­tare la formulazione: non argomentazione ma piuttosto testimonianza di ciò che è il Cristo per me, qual è il senso della mia vita/ ciò che è la religione per me e ciò che dovrebbe essere per tutti. Non ho mai parlato tanto del Cristo da quando mi sono dato al dialogo. Questa esperienza è comune a tutti coloro che hanno intrapreso un vero dialogo esperienziale o dottrinale o collaborativo o esistenziale».
Sì, è anche la mia piccola esperienza.


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