“Scrutino ed investighino pure i sapienti le altezze dei
cieli, l'estensione della terra e la profondità dei mari! Disputino pure su
ogni cosa, considerino tutto quanto, sia che apprendano o che insegnino. Ma
cosa troveranno in questa vana occupazione se non pena, dolore e afflizione
dell'animo? [...] Quell'uomo che non chiude occhio né giorno né notte non può
trovare il senso di nessuna opera di Dio e per quanto si affatichi a ricercare
ancor meno lo scoprirà” (De contemptu mundo, 1, XII, 1-2).
Come sono lontane queste parole da ciò che vedo qui in mezzo
all’Appennino pistoiese, in mezzo a una natura così bella.
Qualche anno dopo averle scritte, Innocento III incontrò san
Francesco d’Assisi che portava un soffio di aria nuova, una visione positiva
del mondo e dell’uomo. Allora il suo scritto gli sarà sembrato datato,
appartenente a un’epoca lontana lontana. Stava per nascere il Cantico delle
creature. Quest’anno sono 800 anni da quanto san Francesco lo scrisse. 10 anni
fa papa Francesco l’ha rilanciato: si canta ancora!
Sappiamo la circostanza in cui lo scrisse: dopo aver
ricevuto le stigmate, quando le malattie lo assalivano da ogni lato, quando vi
era dissidio tra autorità religiose e civili… Non è il canto di un ecologista
alla moda, ma quello di una persona fatta una cosa sola con Cristo Crocifisso,
ormai capace di guardare il mondo dalla ferita di Cristo, nella cui piaga ha preso
dimora. Da lì ha lo sguardo di Cristo che vede nuove non soltanto tutte le cose,
ma anche tutte le persone: nel suo Cantico c’è anche il perdono, dimensione
umana dell’esistenza, che trascende le creature della natura. C’è la piena
riconciliazione, anche con la morte, porta della vita. È un inno di speranza, il
ritorno all’Eden di un uomo fatto nuovo dalla croce, un nuovo Adamo che ha un
solo desiderio: fare tutto e tutti nuovi.
Guarderò così cose e persone che mi circondano.
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