mercoledì 24 ottobre 2018

I libri raccontano: il mio inseparabile dizionario d’italiano




Mi accompagna, fedele, da più di cinquant’anni. Ormai non lo apro quasi più. Accanto a lui c’è il più moderno Zingarelli e poi ci sono i dizionari on line. Il mio vecchio Migliorini appartiene ad altri tempi.
Giulio Cappuccini aveva pubblicato il Vocabolario della lingua italiana nel 1916. La sua opera fu poi ripresa e più volte riedita da Bruno Migliorini, rimaneggiata al punto da prendere ormai il nome di quest’ultimo. La mia edizione, la prima firmata Migliorini, è del 1965.

Prima o poi ritroverò la foto pubblicata da “Il lavoro”, nella cronaca di Firenze dei primi di luglio del 1968, che mi ritrae con il Vocabolario sotto braccio, all’uscita dall’esame di italiano per la maturità classica. Ho comunque più della foto, ho il Vocabolario, che mi racconta quei momenti di trepidazione e insieme di gioia, di grande speranza in un futuro che si apriva ricco di promesse e d’infiniti orizzonti. Era pressoché inutile portarselo dietro per la prova scritta d’italiano, ma era indispensabile, la sua mole e la sua compattezza infondevano sicurezza, era come posare i piedi su una roccia.


Le pagine un po’ ondulate e i lievi segni color marrone adagiati tra le pieghe raccontano di un paio d’anni prima, quando fu sommerso dall’acqua dell’Arno, giunta fino in via Cavour, dove il libro, appena edito, faceva bella mostra nella vetrina della libreria Marzocco.
Quel 4 novembre 1966 pioveva a non finire, ma in via Barbacane, che da Firenze si arrampica su verso san Domenico di Fiesole, non potevo immaginare che un’autentica alluvione stava inondando la città.
La mattina seguente ero in piazza Duomo, infangata da non dire. Entrai nel negozio dell’apostolato liturgico e cominciai a spalare il fango assieme alle suore Pie Discepole, tutte giovanissime, come me. Nei cassettoni i lini erano piegati intatti, impregnati di una melma finissima. Pavimento, pareti, arredi, i nostri vestiti, tutto aveva l’identico uniforme colore del limo. Qualcuno si presentava alla porta divelta con un calice, una pisside o un altro oggetto di metallo portati dall’acqua chissà dove, indovinando che provenivano da quel negozio.
Il giorno successivo era difficile entrare in città, ormai tutta un cantiere, ma la nostra macchina aveva come autista il glorioso fratel Giuseppe che, con sulla tuta blu, portava la scritta OMI, che dichiarava essere l’acronimo di Officine Meccaniche Italiane, un lasciapassare sicuro. Scesi in un negozio di piazza san Lorenzo, uno di quei seminterrati, anzi completamente interrati, che chiamavamo gli sdruccioli. Doveva essere un negozio di dischi e articoli affini, ridotto a un ammasso indecifrabile. L’acqua era misteriosamente sparita attraverso le pareti e rimaneva mota e poltiglia informe dalla quale cercavamo di estrarre ciò che era possibile salvare. Mi è rimasta viva nella mente l’immagine della coppia dei proprietari, lui ormai attempato, lei giovanissima; l’immagine dei loro volti e soprattutto del sorriso rassegnato che li mostrava legati da un amore che nessuna alluvione avrebbe mai affogato.

Fu nel ritorno a casa, a piedi, che passai per via Cavour dove altri amici stavano lavorando nella libreria Marzocco, e mi diedero il Migliorini, in condizioni ancora buone. Soltanto la copertina era andata. Bastò farlo rilegare nuovamente e divenne il mio inseparabile Vocabolario d’italiano, fedele compagno d’una vita.

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