“Dio ha assunto in pieno la nostra umanità ed è stato
povero per far risorgere la carne, salvarne l'immagine primitiva e restaurare
così l'uomo perché diventiamo una cosa sola con Cristo. Egli si è comunicato
interamente a noi.
Tutto ciò che egli è, è diventato completamente
nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo lui. Per lui portiamo in noi l'immagine di
Dio dal quale e per il quale siamo stati creati. La fisionomia e l'impronta che
ci caratterizza è quella di Dio. Perciò solo lui può riconoscerci per quel che
siamo.
Conseguentemente passano in seconda linea le
differenze e le distinzioni fisiche e sociali, che pur certamente esistono fra
gli uomini. Per questo si può dire che non c'è più né maschio né femmina, né
barbaro né scita, né schiavo né libero (cfr. Col 3, 11)”.
Queste
straordinarie parole di san Gregorio Nazianzeno che oggi la liturgia ha
messo nelle nostre mani nell’ufficio delle letture, mi riportano al discorso sui
Dalit di cui ho parlato l’altro ieri sul blog e che hanno fatto riflettere la
nostra assidua lettrice (vedi commenti).
Sì, anche tra noi vi sono i ceti
sociali, anche noi abbiamo i nostri Dalit, ad esempio gli zingari. I Dalit non
possono entrare nel tempio: chi ha mai visto uno zingaro in chiesa? La
differenze ci sono, di istruzione, educazione, censo, quoziente intellettivo, salute…
Ma è più vero che Cristo si è comunicato “completamente” a tutti, ha dato tutto
a tutti e perciò “passano in seconda linea le
differenze e le distinzioni fisiche e sociali, che pur certamente esistono fra
gli uomini”. Dio, dice ancora Gregorio, “può riconoscerci per quel che siamo”.
Dovremmo anche noi riconoscerci per quel che siamo.
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