Il Palazzo Pretorio di Prato, antico edificio dove si amministrava la giustizia,
appena restaurato, riapre con una mostra prestigiosa: “Da Donatello a Lippi.
Officina pratese”.
L’arte del primo Rinascimento ha avuto nella città di Prato un fecondo
ambiente di sperimentazione. Proprio perché ancora non era “città”, ma soltanto
“terra”, e quindi luogo di periferia e nello stesso tempo nel contado di
Firenze, poteva permettersi il lusso di lasciare ai giovani artisti la
possibilità e l’ardire dell’innovazione.
Il quadro che più mi ha attratto è un Lippi: la morte di san Bernardo.
I volti dei monaci in pianto che attorniano il santo sono di una bellezza
struggente, un autentico capolavoro. Contrastano, fra l’altro, con il sorriso
pieno di pace di Bernardo che sembra già gustare la gioia del Paradiso. Ricordo
quando la grande tavola – ora al Museo dell’Opera del Duomo – era ancora in
cattedrale. Allora – ero appena un ragazzo – mi sembrava un po’ lugubre, forse
perché collocata in luogo scuro e perché il restauro non aveva rimesso in luce
i colori vivi e i dettagli dei volti.
Le guide non lo notano, ma le opere dei pittori del 1400 che hanno
dipinto a Prato e che sono state fatte affluire da musei di mezzo mondo dove
ora sono custodite, sono tutte di soggetto religioso. Eppure i committenti non erano
soltanto le chiese e i monasteri, ma anche privati cittadini che desideravano
avere in casa un’immagine sacra per loro devozione.
Me ne sono reso conto soltanto dopo essere uscito dalla mostra. Lì ero
troppo preso dal fascino di tanta arte per poter riflettere diversamente.
Davanti ai quadri esposti, l’elegante architettura Trecentesca di
Palazzo Pretorio sembra rimanere in ombra, così come gli affreschi sulle pareti
delle grandi sali di giustizia o degli appartamenti dei magistrati. Eppure
anche nel palazzo – come nelle tavole esposte –, tra gli stemmi di famiglie
nobili ed altri dipinti simbolici, non mancano affreschi che riproducono
crocifissioni e annunciazioni, santi e madonne.
In quei secoli nei quali alla bellezza aveva riservato uno spazio
d’eccellenza, il sacro si intrecciava indissolubilmente con il sociale. Anche
chi veniva condotto in giudizio, reo o innocente, amava vedersi circondato da
immagini che assicuravano la premurosa presenza del Cielo nella città
dell’uomo.
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