mercoledì 15 giugno 2022

La Regola benedettina in 10 punti



Dopo Francesco a Greccio e Fontecolombo, oggi Benedetto a Subiaco. Un altro luogo “carismatico”, che custodisce le intuizioni della Regola benedettina. Mentre mi lascio avvolgere dall’architettura e dagli affreschi, ripasso i 10 punti nei quali 20 anni fa pretesi di sintetizzare la grande Regola:

1. Una vita evangelica

Tutta la Regola è posta all’insegna dell’ascolto: «Ascolta, figlio…» (RB Prologo 1). L’invito orienta primariamente verso l’abate, ma egli è solo l’intermediario di un ascolto più profondo: quello della Parola di Dio, del Signore che parla: «Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi…» (RB Prologo 9). «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama?» (RB Prologo 19). (Il silenzio è la condizione per l’ascolto…: RB  7).

Si tratta di diventare discepoli della Parola, ascoltandola, accogliendola, mettendola in pratica (RB Prologo 1). «Il Signore aspetta che noi ogni giorno rispondiamo con i fatti ai suoi santi ammonimenti» (RB Prologo 35). Benedetto invita a non scostarsi mai dal magistero di Dio, ma piuttosto di perseverare nel suo insegnamento (cfr RB Prologo 50).

Cristo diventa così il centro del progetto monastico. Il monaco non deve avere «assolutamente nulla più caro di Cristo» (RB 5,2). La Regola si chiude con l’ammonimento: «I monaci… nulla assolutamente antepongano al Cristo» (RB 72, 11).

2. Una vita in cammino

Il monaco è colui che accoglie incondizionatamente l’invito del Signore ed è pronto a seguirlo. Di qui l’idea di un cammino da intraprendere senza indugi e senza mezzi termini, con grande serietà e radicalità. L’intera vita monastica è sotto l’immagine del viaggio: «Procediamo sulle sue vie, sotto la guida del Vangelo» (RB Prologo 21).

Il monastero benedettino diventa un’esigente scuola per porsi al servizio di Dio, un luogo di formazione al cammino verso Dio. Uno dei tratti caratteristici per il discernimento della sua vocazione è «se egli cerca veramente Dio» (RB 58, 7). Ha come obiettivo quello di condurre ognuna delle persone verso la vita eterna. La vocazione monastica si inserisce così nel grande discorso del ritorno di tutta l’umanità a Dio dopo l’allontanamento prodotto dal peccato.

3. Una scuola con un maestro e una Regola

Naturalmente anche questa come ogni altra scuola ha un suo maestro, ed è costituita sotto il suo magistero e la sua guida: l’abate. Come in ogni altra scuola anche la «schola Dominici servitii» possiede anche un proprio testo: la Regola, che ha un valore enorme e a cui anche l’abate soggiace. La comunità benedettina è quindi costituita dall’obbedienza all’abate e alla regola.

4. L’abate, presenza di Cristo Maestro

L’importanza del ruolo dell’abate risiede nel fatto che è visto come la presenza stessa del Cristo in mezzo ai suoi discepoli. L’abate occupa il posto di Cristo, come dice espressamente la Regola, fin dal secondo capitolo: «Per fede sappiamo che nel monastero tiene le veci di Cristo; poiché viene chiamato con il suo stesso nome, secondo la parola dell’Apostolo: Voi avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba, Padre» (RB 2,3). Al termine della Regola si riafferma ugualmente tale visione di fede: «L’abate, che fa le veci di Cristo, sia chiamato “signore e abate”, non perché egli se ne arroghi il titolo, ma per onore ed amore di Cristo» (RB 63,13). Ritroviamo così il prototipo del gruppo dei Dodici attorno a Gesù.

La Regola addita comunque la presenza di Cristo non soltanto nell’abate, ma anche in tutti i fratelli del monastero, negli ospiti («Tutti gli ospiti  che giungono al monastero siano accolti come il Cristo in persona, poiché un giorno egli ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato»: RB 53,1), negli infermi («Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona, poiché egli stesso dice: Ero malato e mi avete visitato»: RB 36,1-2) …

5. La vita in comune

La centralità dell’abate e la gerarchizzazione del monastero non escludono i rapporti orizzontali tra i monaci. Piuttosto li ordina. Nella Regola appare per 25 volte la parola congregatio, ossia i monaci sono persone che vogliono compiere un cammino insieme e per questo si sono radunati attorno ad un abate. Benedetto scrive la sua Regola per i cenobiti, per «coloro che vivono insieme» (RB 1,2). La scuola è una società di fratelli: il termine appare un centinaio di volte contro le 36 del termine monaco.

La Regola sembra fare intravedere una evoluzione della concezione di comunità. All’inizio la comunità è vista piuttosto in funzione della formazione dell’individuo, seguendo l’eredità dell’esperienza del deserto. Alla fine i capitoli 67-72 testimoniano una differente concezione della comunità, con tratti maggiormente orizzontali. Si può quindi supporre una evoluzione dell’esperienza di san Benedetto, che lo ha portato a poco a poco a scoprire il valore intrinseco della comunità.


6. Le relazioni improntate dalla carità fraterna

Pur nella gerarchizzazione dei compiti possiamo notare la profonda coscienza di uguaglianza tra tutti i membri del monastero. «L’abate non faccia distinzione di persone in monastero. Non ami uno più dell’altro (...). Non anteponga mai il nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione di schiavo (...). E se, per esigenza di giustizia, l’abate decide di promuovere un fratello, egli lo faccia prescindendo dalla considerazione della classe sociale cui il monaco apparteneva. Per il resto, ciascuno tenga il proprio posto, perché schiavi o liberi tutti siamo uno in Cristo (...). Infatti presso Dio non c’è parzialità. (...) Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate» (RB 2,16.22). Tra tutti deve esserci una gara nello stimarsi a vicenda (cfr RB 63,17).

7. L’obbedienza, il silenzio e l’umiltà

Al cuore della proposta spirituale della Regola c’è l’obbedienza, il silenzio e l’umiltà. L’obbedienza è la via maestra del ritorno a Dio, il modo per rinunciare alla propria volontà, per compiere soltanto il volere di Dio e per servire Cristo Signore (cfr RB Prologo 2-3.6). La Regola si mostra convinta «che unicamente per questa via dell’obbedienza [i monaci] andranno a Dio» (RB 71,2). «Appena un superiore ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono sopportare alcun indugio nel compierla. (…) Uomini di simile tempra interrompono dunque all’istante le loro occupazioni; si staccano dalla loro propria volontà, subito pronti… con un’obbedienza che  mette le ali ai piedi. (…) L’ordine dato dal maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi, con una simultaneità sorprendente» (RB 5,4.7-9). È sottomissione all’altro, non soltanto all’abate, fino all’obbedienza reciproca tra tutti i monaci, in conformità all’esempio di Cristo, come frutto ed espressione del vicendevole amore: «L’obbedienza è un bene così grande che i fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di scambiarsela tra di loro» (RB 71,1). L’obbedienza in questo caso diventa sinonimo di rapporto di mutua sottomissione.

Il cammino spirituale è descritto come progressione nella via dell’umiltà, suddivisa in dodici gradi. Essa porta a non agire più «per timore dell’inferno ma per amore del Cristo e per l’abitudine al bene e la dolcezza che deriva dalla pratica delle virtù» (RB 8,69).

8. L’amore nell’itinerario spirituale del monaco

La Regola mette l’amore come ultimo dei gradini dell’umiltà e al culmine dell’ascesi spirituale (cfr RB 7). Esso, nello stesso tempo, è anche il primo degli strumenti per ogni opera buona: «Prima di tutto, amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. E amare il prossimo come se stessi» (RB 44, 1-2). Soltanto dopo avere enunciato il duplice comandamento vengono enumerati gli altri innumerevoli precetti, quasi espressione dell’amore e condizione per vivere l’amore.

Nell’ultima parte della Regola la carità acquista sempre maggior rilievo, fino a informare l’intero «ordine della comunità». La Regola, che era iniziata con la figura dell’abate, posta in rilievo in tutta la sua centralità, recupera qui l’elemento di rapporto interpersonale animato dalla carità. Ciò che dà senso a tutto il capitolo riguardante l’ordine della comunità è infatti la parola di Paolo: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (RB 63,17).

Lo stesso amore deve guidare non solo i rapporti tra coloro che hanno ruoli differenti, ma anche quelli tra i diversi gruppi d’età: «I giovani abbiano venerazione per i loro anziani; gli anziani amino con predilezione i giovani» (RB 63,10).

Giungiamo così al capitolo 72 della Regola. È stato affermato che si dovrebbe partire proprio da questo capitolo per rileggere l’intera Regola nella linea della comunione e della carità (E. Manning, L'importance du chapitre 72 de la Règle de S. Benoît, «Regulae Benedicti Studia» 5 (1977) 285-288). In effetti la Regola, al suo termine, raggiunge il punto più intenso della progressiva scoperta della carità come norma delle relazioni intracomunitarie tra i monaci: «Essi, dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda; sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda, nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (RB 72,4-11). Tutti insieme, pariter: i monaci camminano uniti nella comunione tra di loro e nell’amore di Cristo che tutti guida e porta alla vita eterna.

9. Ora et labora

Il primato va all’opus Dei a cui il monaco deve dedicarsi «con amore» (RB 58,7). La vita liturgica, la preghiera, la lectio divina sono descritte con una cura tutta particolare e nei minimi dettagli.

Ma vi è quell’equilibro che caratterizza tutta la legislazione benedettina che porta i fratelli in certi tempi a «dedicarsi al lavoro manuale e in altre ore alla lectio divina» (RB 48,1). È quello che la traduzione successiva ha condensato nella formula: ora et labora, ove il lavoro si inserisce nella collaborazione dell’uomo all’azione di Dio nella creazione.

Molto ricca, al riguardo, risulta l’articolazione dei vari compiti per il buon andamento della vita monastica, sia nella struttura di governo (abate, decani, priori…), sia nella distribuzione degli impegni concreti: cellario, cuochi, lettori, artigiani, portinai…).

Il monastero diventa una cittadella laboriosa e produttiva che tanto influsso avrà nella civilizzazione dei popoli: «Per quanto è possibile, il monastero sia strutturato in modo da avere nel suo ambito tutto quanto è necessario, ossia l’acqua, il mulino, l’orto e le attrezzature per esercitare i vari mestieri» (RB 66, 6).

10. In sintonia con la tradizione della Chiesa

Grande innovatore, Benedetto ha saputo porsi in ascolto di tutta la tradizione precedente. Al termine della sua Regola scrive: «Per chi vuole affrettarsi verso la perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri che, messi in pratica, conducono al culmine della santità». Dopo aver rimandato alla Scrittura quale «norma rettissima per la vita dell’uomo», addita esplicitamente i grandi filoni a cui si è ispirato nel proprio insegnamento: «le “Conferenze” dei padri, le “Istituzioni”, le loro “Vite”, la stessa Regola del nostro santo padre Basilio» (RB 73,2-5). Non si tratta solo di fonti per Benedetto, ma anche indicazioni per un cammino “oltre la Regola” che è si rivolge a “principianti”.

 

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