domenica 26 ottobre 2014

La parete del cuore di Jacopo da Lentini

 Leggendo la deliziosa pagina mensile che Paola Mastrocola scrive sul Domenicale, ho scoperto che anche a lei la parola “parete” della celeberrima poesia di Jacopo da Lentini richiama il sostantivo piuttosto che il verbo.
In quella poesia la parola “parete”, significa sembrate, siete. Mastrocola confessa candidamente che a lei viene invece da pensare alla “parete” nel senso di muro. Lo stesso per me.
Il poeta si sente avvinto (ma da poeta par suo utilizza il verbo “distringere”) dall’amore per la sua donna e come un pittore ne dipinge il ritratto nel proprio cuore così da poterla vedere sempre, anche quando è lontana.
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn’ora.
In cor par ch’eo vi porti,
pinta come parete,
e non pare di fore.
Eccola l’amata, dipinta sulla “parete” della propria stanza interiore, una stanza segreta, nella quale l’immagine affrescata rimane nascosta all’esterno: è l’intimo segreto del poeta.
Riprendendo in mano il mio tema su “La stanza segreta”, per uno dei prossimi giovedì a sant’Eustachio, trovo questa immagine particolarmente calzante. Nell’interiorità, lentamente, si accende una luce e si può riscoprirvi un’immagine affrescata, l’immagine di Dio. A differenza di Japoco Lentini con il ritratto dell’amata, non siamo stati noi a dipingere questa immagine. Vi è stata impressa fin dall’inizio. Non siamo stati creati a sua immagine e somiglianza? C’è. Non sempre la scorgiamo perché forse manca la luce sofficiente o perché siamo distratti, attratti da tante altre immagini esteriori, senza il tempo per guardare dentro con calma.
Eugenio de Mazenod fa invece come Lentini, come un «pittore che copia il modello». Cosa fa un pittore? «Mette il modello nella sua luce migliore, lo guarda attentamente, lo fissa, cerca di imprimere l’immagine nel suo spirito, traccia poi sul foglio o sulla tela qualche linea che confronta con l’originale, le corregge se non sono esattamente conformi, altrimenti continua». Eugenio fa lo stesso con Cristo l’«amabile modello al quale debbo e voglio con la sua grazia conformarmi». Inizia così a guardarlo e ritrarlo sulla parete della sua stanza segreta nelle diverse prospettive: «come mio Redentore, mio Capo, mio Re, mio Maestro e mio Giudice». Non lo sa, ma muovendosi in questo modo, non fa altro che portare alla luce l’immagine che già è in lui. C’è.
Non un’immagine affrescata, un foto bella ma immobile e fissa, senza vita.
C’è. Ed è una presenza viva.
Siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio.
Gesù è l’immagine del Dio invisibile (cf. Col 1, 15).
In lui ritroviamo la nostra immagine, l’identità più profonda: Dio, la roccia da cui siamo stati intagliati.


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