venerdì 13 maggio 2022

La santità in tre tappe / 3

 


La santità antieroica

Vi è una terza tappa nella comprensione della santità in p. Giovanni Santolini. Forse la più bella, la più profonda, e insieme la più semplice. Perché l’idea di santità si è venuto semplificando nella sua vita. Ed è la “rinuncia” alla santità.

È sceso lentamente dal piedistallo di quella santità che si era immaginato di raggiungere quando era ancora ragazzo ed ha progressivamente guadagnato l’ultimo posto. Lentamente p. Giovanni non pensa più alla sua santità. È tutto preso dagli altri, dalla formazione dei giovani, dalla creazione di strutture che favoriscano la missione, dall’aiuto concreto ai poveri… Non ha più tempo per se stesso, non pensa più a se stesso.

Occorrerebbe qui richiamare gli infiniti aspetti della sua vita di donazione che lo portano davvero dalla ricerca di sé, della propria santità, alla ricerca dell’altro, alla santità dell’altro.

Pur avendo posti di responsabilità, era diventato sempre più semplice, sempre più nulla: “un anti-eroe”. Per questo una morte come quella a cui è andato incontro, banale, senza gloria, era forse quella che più gli si addiceva.

Le ultime sue lettere testimoniano il cammino interiore che Dio gli stava facendo percorrere per chiamarlo presto a Sé. «Oggi – scriveva ad esempio il 3 febbraio 1997 - avverto forte la realtà di essere “un vuoto pieno di luce”, nel senso che nessuno dovrebbe vedermi. Che attraverso questo vuoto possa passare tutta la luce e l’amore di Dio».

Parlando delle sei suore italiane morte durante l’epidemia di ebola nello Zaire, spiegava che erano diventate “eroine per abitudine”. Questa definizione rispecchia bene la sua stessa esperienza. «Le conoscevo quasi tutte personalmente – raccontava ad un gruppo di giovani –. Sono delle martiri? Certo! Hanno fatto qualcosa di speciale nella loro vita? Forse no, nel senso che hanno sempre fatto quello che c’era da fare. Erano infermiere. Se domandavano loro un piacere, non si tiravano indietro. Un vero martire è uno che si è abituato a dare la vita giorno dopo giorno al punto che per lui questo diventa un’abitudine, non ci fa più caso. Non è che fa niente di speciale. Non è che uno fa l’eroe. Sei talmente abituato a dare la vita che, a un certo momento, può anche capitare che hai la fortuna di darla davvero. Hai talmente l’abitudine di amare che diventi “eroe per abitudine”. Basta cominciare.

Se ti dicono: “Ci sono da lavare i piatti”. Bene, laviamo i piatti. “Guarda c’è da fare questo”. E lo fai... Poi, un giorno, Dio ti darà la grazia di fare cose che non avresti mai pensato di avere il coraggio di fare! In fondo essere missionari, o comunque vivere il vangelo lì dove sei, non significa altro che prendere l’abitudine di dare la vita».

Il sabato prima della Domenica delle palme – il giorno prima della sua morte – tiene il ritiro presso le suore Adoratrice del SS. Sacramento. Suor Fausta ricorda l’omelia, che aveva come tema la santità nella vita di comunità. In essa è rispecchiato tutto il cammino di Giovanni: «Nella comunità non si può diventare santi da soli; o ci si fa santi assieme o niente; è inutile che noi facciamo passi da giganti se poi lasciamo indietro i nostri confratelli o le nostre consorelle». «A questo punto – continua suor Fausta –, conoscendo alcuni casi, lo abbiamo interrotto chiedendogli come si possa camminare insieme, aspettando un/a confratello/consorella, che ha comportamenti simili a quelli descritti da Paolo ai Galati: “fornicazione, impurità, ubriachezze, orge…”, anziché manifestare in comunità “il frutto dello Spirito: amore, pace, bontà...” (Gal 5). E lui, con una semplicità di chi capiva bene le nostre allusioni, ci disse: «Non è sufficiente che io vada in chiesa a pregare per le miserie del mio confratello o della mia consorella, io divento santo quando, ad esempio, vado al bar e carico la mia consorella sulle mie spalle e la porto a casa; non solo, se voglio davvero diventare santo mi addosso e accetto le ingiurie che gli altri fanno al mio confratello/consorella come se fossi io al suo posto».

Giovanni continua l’omelia con chiari riferimenti alla sua vita personale: «Io divento santo in comunità quando in ogni cosa dico “tocca a me fare questo o quello”. Ad esempio, in questi giorni ha piovuto tantissimo e la pioggia ha portato giù tanta sabbia al punto che ha bloccato tutte le porte: se io dicessi tocca agli studenti togliere la sabbia non a me, cosa succederebbe? Se invece io dico “tocca a me” e lo faccio senza neanche immaginare che possa toccare ad un altro… E se qualcuno ti vede fare questo, può darsi che ti aiuti, ma tu non devi aspettarti nulla, tu devi continuare a dire tocca a me fare questo o quello. Fino a quando tutti arriveranno a dire tocca a noi fare questo o quello, allora in comunità ci sarà una gara dove non troveremo più né scope né badili». «Ecco – conclude suor Fausta –, questo era p. Giovanni: viveva i concetti teologici più alti, nella semplicità della vita».

Non posso non terminare se non con le parole con cui termina la biografia che ho scritto su p, Giovanni. Sono le sue ultime parole, che mi ha scritto proprio la sera prima di morire: «Ora, non essendo “niente”, posso essere tutto pieno d’amore per continuare a lavorare per l’opera di Dio che ci ha affidato in unità con voi, come già stiano facendo…  Sempre uno».

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