sabato 17 dicembre 2022

La prima narrazione del Natale


Il primo a narrare il Natale di Gesù è stato l’apostolo Paolo. Ne scrive attorno all’anno 55, ben prima di Luca e Matteo, che composero i loro vangeli dopo il 70. Nella lettera ai Galati leggiamo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (4, 4-5). Nella sua narrazione non ci sono né angeli, né stelle, né pastori, e neppure indicazioni di luoghi o circostanze storiche.

In che anno ci troviamo? In quale regione della terra? A queste domande risponderà l’evangelista Luca. A Paolo interessa una precisa coordinata storica: è giunta la pienezza (in greco: “il riempimento”) del tempo. È il tempo di Dio, quello da lui preparato da tutti i secoli. I tempi precedenti era quelli dell’attesa, ora inizia il tempo nuovo, definitivo, il tempo della salvezza. La pienezza del tempo indica il cuore della storia umana: Gesù è il centro della storia, tutto il creato trova in lui il suo senso e la sua più profonda unità.

La Chiesa, afferma il Concilio Vaticano II, «crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana… Al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Gaudium et spes, 11)

Secondo l’originale greco quel «nato da donna» dovrebbe essere tradotto con «divenuto da donna». Questa parola a noi richiama il prologo del Vangelo di Giovanni dove, all’essere del Figlio, si contrappore il divenire di tutte le cose, anche il divenire della sua nascita nella storia, l’assunzione della natura umana: il Figlio di Dio diviene figlio dell’uomo, perché generato da una donna. Gesù nasce da vero uomo, come ogni uomo, nel concepimento, nel parto, ed ha bisogno di cure, di attenzioni, di tenerezza, di amore. Ha una madre, anche se Paolo non è interessato al suo nome e alla sua storia. All’Apostolo preme mettere in luce la piena umanità del Figlio di Dio. Generato dal Padre da tutta l’eternità e per tutta l’eternità, è generato nel tempo da una donna, assumendo la carne, ossia un corpo in tutta la fragilità umana. Dio, scrive ancora Paolo, ha mandato «il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8, 3), ed entra in un mondo e in una storia segnati dal male, dal dolore, dalle miserie umane, dalla precarietà dell’esistenza e dall’incertezza del presente. Il libro di Giobbe aveva parlato proprio della precarietà dell’uomo nato da donna: «L’uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma» (14, 1-2).

Gesù è carne della nostra carne, uomo come noi, ha fame, ha sete, si stanca, prova paura e angoscia, così come sa godere delle gioie effimere che la creazione e la convivenza umana gli offrono: la contemplazione della natura, la festa, l’amicizia… Dio, in lui, potrà amare con il cuore. Potrà conoscere anche la morte.

Paolo non dice in quale luogo è nato il Figlio di Dio, ma ci fa conoscere che è «nato sotto la Legge»: è un ebreo, sottoposto alla legislazione mosaica. Se il Figlio di Dio per nascere uomo ha bisogno di una donna, ha bisogno anche di un padre “legale”, che gli permetta di nascere sotto una legge. Ancora una volta all’apostolo non interessa il nome del padre, interessa che permetta a Gesù di inserisci nella linea dinastica del popolo ebraico: «nato dal seme di Davide secondo la carne», come afferma nella lettera ai Romani 1, 3.

Infine Paolo indica la finalità del Natale di Gesù: “perché noi ricevessimo l’adozione a figli”. Lo ripetiamo nel Credo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo».

 

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