martedì 4 febbraio 2025

Anche gli Oblati scrivono

Ogni tanto presento alla comunità le ultime novità librarie riguardanti gli Oblati. Questa sera, dopo aver ricordato alcune delle numerose riviste che appaiono nelle varie nazioni, o mostrato gli ultimi libri che ho ricevuto. Ricordiamo la definizione che dava degli Oblati un vecchio dizionario francese: “Una specie di Gesuiti di campagna”. Comunque. nonostante tutto, anche gli Oblati scrivono (forse non abbastanza, perché hanno altre cose da fare…).

Fra gli altri oggi ho mostrato un libro scritto in onore di p. Oswald Firth, dello Sri Lanka, che ha tanto lavorato per promuovere gli studi nel suo Paese e nel mondo intero. Un altro oblato dello Sri Lanka ha pubblicato la seconda edizione di un manuale di psicologia per la formazione integrale della persona. C’è poi l’interessante storia dei Rosarianti- siamo sempre nello Sri Lanka – una congregazione monastica, maschile e femminile, fondata da un Oblato.

Ma c’è anche l’Italia, con un libro scritto da Alessandro Betta, che non è Oblato, ma che racconta la storia del nostro p. Aldo D’Ottavio, operario e sindacalista. Nel 1974, viene assunto alla Fiat-Lancia di Chivasso, dove diventa delegato sindacale per la Fim-Cisl. Si mette davvero “nei panni dell’altro”. Per l'azienda è un elemento scomodo, al punto da manipolare alcune sue parole in difesa dei lavoratori, trasformandole in un'accusa di fiancheggiamento del terrorismo. Siamo nel periodo tragico degli “anni di piombo” e delle Brigate Rosse. Quando fu licenziato tutti i 700 operai della verniciatura fecero 32 ore di sciopero e due ore di manifestazione con mille persone, fuori dai cancelli, uscite dal posto di lavoro. Si era davvero messo nei passi degli operari, operaio lui stesso, e la gente lo sentiva uno di loro. Il libro ripercorre le tappe del processo e la fedeltà a una scelta di condivisione con la gente.

lunedì 3 febbraio 2025

Sono il sogno di Dio

 

Al direttore della rivista Citta Nuova è arrivato questo messaggio: «Stamane era una giornata un po’ triste ed avevo mal di schiena. Mi è arrivata città nuova di febbraio e dopo pranzo l’ho sfogliata leggendo qualcosa. Più mi avventuravo in essa e più ritrovavo la voglia di vivere e di amare. Mi ha cambiato l’anima e mi ha spinto a guardare la giornata con occhi nuovi e con desiderio di vivere bene il presente. Mi ha spalancato il cielo la meditazione di Fabio Ciardi».

Ecco allora la mia “meditazione”:

Che ci sto a fare a questo mondo? Ci sarà qualcuno che pensa veramente a me, che mi vuol bene, col quale posso stabilire un rapporto autentico, personale, che dia senso alla mia vita? Domande metafisiche eppure ogni tanto ci assillano. Non andrò certamente a cercare risposte in una edizione critica, erudita, per gli addetti ai lavori, come quella pubblicata un paio d’anni fa del libro “Meditazioni” di Chiara Lubich. E invece sì! Vi scopro un brano di poche righe che mi spalanca un orizzonte infinito. Nelle precedenti edizioni si presentava come un pensiero un po’ vago, astratto. Si tratta in realtà di un bigliettino scritto a mano che, passando alla pubblicazione, era stato edulcorato, in una scrittura che oggi diremmo politically correct. Rileggerlo nella sua forma originaria è un tuffo al cuore.

«Ed io, Focherello, m’accorgo sempre più che “passeranno i Cieli e la terra…”, ma il disegno di Dio non passa. Ciò che solo pienamente ci soddisfa è sempre rivedervi là dove Dio ab aeterno ci ha sognati. E lì rimaniamo per tutta l’eternità”. Chiara di G.A.».

Dal punto di vista letterario balza subito una variante: là dove l’edizione a stampa metteva un prosaico banale «rivedersi sempre», il manoscritto dice di «sempre rivederci»: più duro dal punto di vista letterario e più asciutto.

Ma vi sono varianti di ben altro spessore. Così, al posto di «Dio ab aeterno ci ha pensati», troviamo: «Dio ab aeterno ci ha sognati».

Spesso spiego che ognuno di noi è stato pensato da Dio, da sempre, nel momento stesso in cui egli pensa il Figlio suo. Egli “dice” la nostra parola, il nostro verbo, in nostro essere, nell’atto di pronunciare la Parola, il Verbo, il Figlio suo e in lui ci rende suoi figli, chiamati all’esistenza con la vocazione ad essere in lui dio come lui è Dio. È straordinario sapersi pensati da Dio! Come, lui che ha creato le galassie, davanti alle quali sono meno di un pulviscolo, pensa a me! Ma chi sono io per essere oggetto del suo pensiero? La cosa mi incanta! Tuttavia, quando ne parlo, spesso avverto una reazione da parte di chi mi ascolta, quasi urtato dal fatto che Dio, agendo così, avrebbe già fatto tutto, condizionandoci, privandoci della libertà di diventare quello che vogliamo essere. Questo mi meraviglia, perché a me sembra così bello – oltre che così vero – sapere che Dio mi ha da sempre pensato e amato, come un bambino che, prima ancora di nascere, è già pensato e amato dalla mamma la quale, così facendo, non lo condiziona, o meglio, lo pone in maniera più adeguata nella condizione di diventare veramente sé stesso.

Eppure, sapersi oggetto del “sogno” di Dio – come si legge nella stesura originaria del biglietto – suona diverso dal sapersi “pensato” da lui. A me sembra una gran bella differenza! Sapere che non soltanto sono stato “pensato”, ma “sognato” da Dio: sono oggetto di un desiderio piuttosto che di una determinazione inappellabile. Sono il sogno di Dio! Poi mi lascia libero, che ne faccia quello che voglio della mia vita. Ma intanto lui continua a sognare. Non sarà libero di sognare per me un’esistenza straordinariamente bella?

Questo bigliettino, che quando fu pubblicato sembrava disincarnato, una meditazione fuori del tempo e dello spazio, si rivela scritto a Igino Giordani, chiamato familiarmente “Focherello”: «Ed io, Focherello, m’accorgo sempre più che “passeranno i Cieli e la terra…” ma il disegno di Dio non passa». Focherello? Gli aveva dato un “nome nuovo”, “Foco”, che traduceva la sua anima infuocata d’amore. Ma Igino Giordani è una persona di peso, un parlamentare, membro della Costituente, un grande scrittore… E lei, Chiara Lubich, lo chiama con un vezzeggiativo che tradisce un rapporto amichevole e dolce. D’altra parte Chiara Lubich era solita chiamare con questi nomi affettuosi. (Ma nell’edizione critica “Focherello” è stato di nuovo depennato, troppo compromettente!). Eppure, nonostante o proprio grazia a questa intimità, Chiara guarda a Igino Giordani nella sua realtà più vera, in quel disegno che Dio ha su di lui e che non passerà mai, perché lo costituisce in tutta la sua dignità e, se egli è fedele nell’attualo, lo soddisferà, lo appagherà pienamente; ed è la “sola cosa” che può appagarlo, mentre tutto il resto lascia dei vuoti, non porta alla pienezza.

Poche righe per svelare la bellezza di un rapporto profondo con Dio e di un rapporto profondo con l’altro. È questo che dà pienezza al vivere!

domenica 2 febbraio 2025

L'impronta di Dio

Ho avuto la gradita sorpresa di ricevere la foto della collana che Tito portava sempre con sé. Non sapevo che l’avesse lasciata nella casa di Vallada e fosse passata a Donata, che assieme alla foto mi ha scritto: «In questi anni ho sempre tenuto questa collana di p. Tito come una cosa preziosa. Mi sono spesso chiesta il suo significato e guardandola ho pensato all'impronta che ognuno di noi può lasciare sulla terra. Quando i miei nipoti mi hanno chiesto: “Nonna dove hai preso questa collana?”. Ho risposto: “L'ho avuta da un ragazzo buono che veniva dal Laos e che quando è tornato nel suo paese ed è diventato prete ha sempre testimoniato, anche quando l'hanno messo in prigione, che Gesù ci vuole tanto bene sempre e non ci lascia ma si soli”. Lo ricordo semplice, sorridente e mi trasmetteva serenità. In questi anni ogni tanto chiedevo notizie sulla sua vita…».

Quel ciondolo è d’argilla, con sopra un’impronta smaltata. È l’impronta che Dio ha impresso sulla nostra fragilità umana e che ci rende preziosi…

sabato 1 febbraio 2025

L'oblazione con Paolo VI

Il 2 febbraio 1974 era un sabato. Nella Basilica di san Pietro si rinnovava la millenaria cerimonia dell’offerta dei ceri al papa, a ricordo della presentazione al tempio di Gesù “luce che illumina i popoli”. Io ero lì, in qualità di “lettore”, a proclamare la parola di Dio davanti a Paolo VI e a tutta l’assemblea, composta in maggior parte di suore.

L’anno precedente infatti il papa aveva invitato alla festa liturgica della “Candelora” “le religiose, le nostre suore, le vergini e le vedove, consacrate al Signore, dimoranti a Roma e facenti parte della nostra comunità. Perché abbiamo voluto che in questa assemblea le religiose «romane» abbiano oggi un posto distinto? Oh! per molti motivi!”, che poi enumerò elevando un canto alla vita consacrata.

Così il 2 febbraio 1974 era ormai già dedicato alla vita consacrata, prima ancora che Giovanni Paolo II, nel 1996, istituisse per quel giorno la festa della vita consacrata.

Ero accanto a Paolo VI quando, parlando di “oblazione”, affermava:

“Si rinnova oggi per noi la gioia di un incontro spirituale con la grande famiglia delle religiose di Roma nel giorno della Presentazione del Signore… Perché? Ma il perché lo sapete… siete consacrate al bene di tutta la Chiesa! Questa la vostra definizione, questo il vostro vanto, questo il vostro sacrificio quotidiano, questo il vostro traguardo, questa la vostra corona; non altro, non altro motivo vi ha tratte a donare la vostra vita a Cristo Gesù, per le mani di Maria, se non questo: servire, servire le anime, servire la Chiesa, tutta la Chiesa. … la vostra vocazione è qui, è tutta qui, in questa oblazione totale alla Chiesa… Questa realtà vogliamo proporre davanti alla comunità ecclesiale di Roma, e, oltre essa, a tutta la Chiesa, che deve trovare in voi religiose l’esempio vivo di un’esistenza consacrata a Dio senza cedimenti e senza rimpianti, con fervore lietamente rinnovantesi ogni mattina. … Cristo, che avanza nel tempio del Padre, portato sulle braccia di Maria - accolto dall’amore veggente, mosso dallo Spirito Santo, di anime grandi e umili come il vecchio Simeone e Anna la profetessa - è il modello, il tipo, l’ispiratore di ogni consacrazione.
Lui vi attira potentemente e dolcemente a conformarvi alla oblazione costante che richiede la vostra vocazione, Lui vi sostiene, Lui vi conforta, Lui vi incoraggia, Lui vi stimola, Lui, se necessario, vi rimprovera”.

venerdì 31 gennaio 2025

Lasciamoci guidare dallo Spirito

Dove va la vita consacrata? L’ho chiesto a una trentina di religiosi e religiose della Famiglia Paolina alla quale questa settimana ho dato un corso intensivo sulla vita consacrata. Un bel gruppo proveniente da tutto il mondo che dedica alcuni mesi a rivedere con profondità la propria vocazione. Per parte mia ho risposto così alla domanda:

Nella sinagoga di Nazaret Gesù rivela la sua missione: lo Spirito Santo è su di lui e lo manda a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi… (cf. Lc 1, 18). È l’annuncio dell’Anno santo!

Il vento della Pentecoste sospinge gli apostoli fuori del cenacolo e li fa incontrare con tremila persone alle quali rivolgono l’annuncio della Pasqua (cf. Atti 2, 6-26). È la “Chiesa in uscita”!

Da quel giorno di Pentecoste lo Spirito Santo si pone alla guida della Chiesa. Gli Atti, “vangelo dello Spirito”, ci mostrano gli apostoli intenti a svolgere la loro missione pieni di Spirito Santo (cf. 4, 8; 9, 17). Egli è con loro: fa ripetere i gesti di Gesù e conferma le loro opere (cf. 10, 44; 11, 15)… È la Chiesa missionaria!

I fondatori e le fondatrici continuano, come i primi discepoli del Vangelo, ad essere dei “guidati” dallo Spirito, fino a creare opere di Chiesa, sempre aperti alla conduzione creativa dello Spirito e ai nuovi appelli. È la Chiesa carismatica.

Anche noi come Gesù, come gli apostoli, come i nostro santi. Siamo stati chiamati a “stare” con il Signore e insieme ad essere mandati tra le folle per essere i suoi testimoni, per annunciare il Vangelo del Regno e per fare del bene a tutti, sapendo che egli è con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo (cf. Mt 28, 20). Con lui tra noi, lasciamoci guidare dallo Spirito…

giovedì 30 gennaio 2025

San Paolo raccontato ai giovani

E cosa ho raccontato domenica ai giovani su san Paolo?

Nell’inno della lettera ai Romani, canta la sua profonda comprensione dell’amore di Dio, manifestato in Gesù: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno... Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?» (Rom 8, 28–39).

Niente può separarci dall’amore che Dio ha per noi perché tutto è amore, e niente può separarci dal nostro amore per Dio perché in tutto vediamo il suo amore e tutto diventa risposta d’amore.

Questo inno all’Amore di Dio è frutto della profonda e personale esperienza di Paolo. Nei lunghi anni di servizio a Cristo niente è riuscito a separarlo da Dio. In 2Cor 11, 23–27 racconta le molte tribolazioni alle quali è dovuto andare incontro. Come mai niente gli è stato di ostacolo, anzi gli è diventato strada di salvezza? Come mai in tutto ha scoperto l’amore di Dio? Perché tutto concorra al bene occorre amare Dio, infatti “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, per coloro cioè che hanno fatto l’esperienza di Dio. E Paolo è proprio uno di quelli che hanno fatto l’esperienza di Dio, che “amano Dio”. Tutto gli è stato manifestazione d’amore perché amava.

L’amore di Dio si è manifestato a Paolo in Cristo Gesù un giorno, sulla via di Damasco: «E io gli dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti» (At 26, 15). È Dio Amore che si rivela nel Figlio: «...colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio» (Gal 1,15–16). Davanti a chi lo contesta, può rivendicare di averlo visto: «Non sono forse un Apostolo? Non ho veduto Gesù, il Signore nostro?» (1Cor 9, 1).

Cosa avvenne in quell’incontro di Damasco? Mentre Paolo perdeva la vista, scrive San Massimo di Torino, «acquistava occhi nuovi per fissare meglio Cristo». Appena fissato Cristo, questi diventa il suo Signore e la gloria di Paolo, d’ora in poi, sarà solo quella di essere “servo del nostro Signore Gesù Cristo”. Tutto il resto perde valore: Lui è la Vita. Il resto diventa opaco, si eclissa lentamente all’orizzonte, appare periferico davanti alla centralità di Cristo: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7–11).

Davanti alla conoscenza di Cristo, tutto è diventato un non senso: la sapienza di questo mondo, la vita passata con tutta la ricchezza e la gloria della legge e della veneranda tradizione. Davanti a sé ha solo Cristo e Cristo Crocifisso: «Non conosco che Cristo e Cristo Crocifisso» (1Cor 2, 2).

È la conoscenza biblica, cioè quel profondo rapporto di comunione che gli fa dire: «per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21), che gli fa concepire la vita come un con–vivere, con–morire, con–risuscitare, con–sedere nei cieli in Cristo. È quell’assimilazione profonda a Cristo che gli permette di ripetere più volte: «siate miei imitatori» (1Cor 11, 1).

Paolo diventa così il “cantore di Cristo”: «Il glorioso Paolo apostolo – come scrive Santa Teresa d’Avila – non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù, perché l’aveva ben fisso nel cuore».

Conosciuto Cristo, ha ormai una sola brama, quella che anche gli altri possano conoscere e sperimentare l’amore di Cristo. Questo il fine del proprio apostolato, questo l’oggetto della sua preghiera: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 14–19).

mercoledì 29 gennaio 2025

L'apostolo Paolo con i giovani

È sempre bello stare con i giovani… e con i santi! Sabato sono stato a san Pietro con 40 ragazzi. 

Domenica a san Paolo fuori le mura con 30 giovani... proprio con san Paolo, cittadino romano dalla nascita (io lo sono solo da 52 anni), a cui Gesù dice: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma» (Atti 23, 10).

Così racconto della sua venuta a Roma passando per Malta, Reggio Calabria, Pozzuoli, via Appia… Ma quando li ho cotti per bene con i racconti posso andare alla sua anima.

Poi mi hanno scritto:

grazie per aver preparato i nostri cuori a un'esperienza così bella, ci hai aiutato a percorrere insieme questa tappa dell'anno santo, con profondità e ironia.

Ci è piaciuta molto l'atmosfera che sei riuscito a creare, suscitando in noi la voglia di visitare insieme altri luoghi romani importanti per i primi cristiani e il desiderio di approfondire il significato di essere pellegrini in cammino verso la meta del Paradiso.





martedì 28 gennaio 2025

Ricordando p. Tito


Mi giunge ancora qualche messaggio su p. Tito.

Ora abbiamo un altro santo in Paradiso.

Abbiamo avuto la grazia di avere un santo per amico. Speriamo di rispondere a questo.

Per me è già Santo!! L' avevo conosciuto anch’io quando era in Italia. Mi ricordo bene quando era ripartito l'abbiamo accompagnato con la preghiera. È di grande esempio per tutti. Abbiamo un Angelo in più in cielo.

Grazie per questa bellissima esperienza nel Laos. Mi appassiona. L'ho letta due volte. Che bella persona Tito… Ieri l'ho ricordato a messa e gli ho chiesto di pregare per la Pace. 

Quanta profondità e generosità!!! Ringrazio il Signore di averlo conosciuto, anche  se quello è stato tanti anni fa. Ma la sua presenza mi resta nella memoria e nel cuore.


lunedì 27 gennaio 2025

Ancora con p. Tito nel cuore

Nel mio diario rileggo la visita nel Laos, a Vientiane, il 27 giugno 1991:

Alle 7.00, partenza per Udon Thani. Viaggio in aereo con il Nunzio. Ho un visto di cortesia per il Laos, come segretario del Nunzio. Mons. Alberto Tricarico è una persona amabilissima. Appena mi ero recato da lui per vedere se era possibile andare nel Laos aveva cominciato ad interessarsi alla cosa. Così in una settimana è stato possibile fare tutto: ottenere il visto e i vari permessi per la polizia e la dogana.



A Udon ci attende l'autista con la macchina della Nunziatura. A Nong Khai, villaggio di frontiera sul Mekong, l'autista sbriga tutte le formalità. Noi restiamo in macchina. Finalmente ci imbarchiamo sul traghetto. Sono le 10.30 quando raggiungiamo il Laos. Il porto, con gli uffici di dogana, polizia e frontiera, è costituito da poche baracche. Poi di nuovo in macchina verso Vientiane. Quando arriviamo alla città stento a credere che questa sia una città. Più volte domando al Nunzio se davvero siamo arrivati a Vientiane. Non mi sarei mai immaginato che la capitale del Laos fosse così misera, senza proprio l'aspetto di città. L'autista mi dice che vede tanti progressi rispetto all'anno scorso: qualche casa nuova, parecchie macchine che circolano per le strade.







Arriviamo finalmente alla casa del vescovo. Mons. Khamsé‚ ci accoglie a braccia aperte, con una esplosione di gioia. Spuntano le suore, nei loro dimessi vestiti azzurri, anche loro sorridenti. Salutiamo il parroco della cattedrale (che nomi grossi, per realtà così umili), un ometto semplice, vedovo, che fino a non pochi anni fa era un catechista e che Mons. Khamsé‚ ha ordinato sacerdote perché possa almeno assicurare la messa.


Dalla grossa macchina della nunziatura spuntano fuori mille pacchi, poi i due vescovi si ritirano, perché hanno molte cose da vedere assieme e il tempo è prezioso.

Mi introducono in una stanzetta che sembra un museo di antichità: una vecchia carta geografica del Laos, vecchi libri su poveri e vecchi scaffali appoggiati a vecchi muri, vecchie poltrone... tutto dice povertà, pur dignitosa. Il compound è tuttavia carino e tutto raccolto dalle mura che lo proteggono. Dietro la chiesa la piccola casa del vescovo costruita da poco. Sul cortile interno si affacciano la casa delle suore, la casa per il clero, tutta nuova, e la vecchia casa con uffici, alcune salette, la stanza da pranzo.

Dalla finestra intravedo Tito. Gli alberi mi impediscono di vederlo bene, ma lo riconosco subito da come cammina. Esco fuori di corsa e ci abbracciamo. Sembra un sogno poterlo rivedere dopo tanti anni. Mi sembra che stia bene, anche fisicamente. Non mi sembra per niente cambiato. Solo che ora è senza l'occhio destro.

Il tempo è poco. Gli consegno tutto quanto ho portato per lui. Gli racconto di noi Oblati, dei compagni, di tutte le novità che ci sono in Italia. Poi comincia lui a raccontarmi di sé, degli anni di prigionia e del lavoro che sta svolgendo adesso nei villaggi, dove la gente, sempre più numerosa, chiede di diventare cristiana. I nove anni di prigione, di lavoro e di servizio militare forzati, apparentemente, mi dice, sono stati anni come vuoti ed è invece lì che tutto ha messo radice. Ma è già l'ora di andare a dire la messa. Salgo nella stanza di Tito, molto semplice, per depositare le cose che ho portato. Vedo sul suo tavolo un numero di "Unità e carismi": sta traducendo in laotiano un articolo di Jesus Castellano! Scendiamo e celebriamo in quella che è la più antica chiesa di Vientiane, costruita per i vietnamiti. Oggi è l'unica chiesa aperta. Un bellissimo crocifisso, fatto arrivare dal Vietnam, domina in tutta la sua maestosità. È naturale offrire l'Eucaristia per la Chiesa del Laos e per tutti coloro che hanno dato la vita per questa Chiesa.

Poi a pranzo. Un pranzo in grande stile per festeggiare gli ospiti d'onore! Rimaniamo seduti per due ore, parlando della Chiesa nel mondo, della situazione del Laos, dei sogni per il futuro. La pressione del governo è ancora piuttosto forte. Si è tuttavia allentata in quest'ultimo anno, rispetto al passato. Il vescovo sta facendo richiesta per un nuovo passaporto; il precedente, secondo la versione ufficiale della polizia, è stato smarrito, per questo non potevano dargli il permesso di uscire per andare al Sinodo dei Vescovi a Roma. Pensa di andare un anno nelle Filippine per un reciclage di cui sente proprio il bisogno. Anche Tito chiederà presto il passaporto per lo stesso motivo. Il Nunzio è particolarmente contento; anche lui sente che i due hanno bisogno di un periodo fuori per potersi rifare un po'. Mons. Khamsé‚ mi dice che presto si augura che gli Oblati possano tornare nella sua diocesi. Per il lavoro pastorale spererebbe di avere Oblati dell'Asia. Ma avrà bisogno anche di quelli dell'Europa, specialmente per la formazione dei seminaristi, delle suore e dei quadri diocesani.

Sono le due del pomeriggio. Dobbiamo già ripartire, anche perché chiudono l'accesso al Mekong molto presto. Saluto Tito. Siamo stati assieme troppo poco tempo. Ma siamo ambedue contenti. Almeno l'ho visto, ho visto dove abita, so che sta bene, che è su come sempre!

Il vescovo va avanti con la sua macchina e ci fa girare per Vientiane così da mostrarci tutti gli edifici che una volta erano della Chiesa e degli Oblati. L'antica cattedrale è la sede dei pompieri, l'episcopio è ora ministero per l'igiene, e così via. Ora dobbiamo congedarci anche da Mons. Khamsé. Per me è stata una rivelazione. Non lo conoscevo. Non immaginavo che fosse così pieno di vita, così aperto, così Oblato!

Attraversiamo di nuovo il Mekong. Entriamo nuovamente nel villaggio di Nong Kai per le ulteriori pratiche, e, avendo ancora negli occhi Vientiane, mi sembra di entrare in una grande città, in una capitale! Ed ora quasi 200 km in macchina per raggiungere Khom Kaen, l'altro aeroporto da cui passerà un aereo per Bangkok. Per strada ci fermiamo a Udon, per salutare il vescovo, George Yod Phimphisan, un redentorista. Ci accoglie con molta affabilità. Poi di nuovo in viaggio. Non mi stanco di guardare attorno: la campagna, le risaie, i bufali d'acqua, i contadini che arano con l'aratro trainato dal bufalo. Fra l'altro è un pomeriggio bellissimo.

E intanto il colloquio con il Nunzio continua ininterrotto. Nella mattinata non ha smesso un istante di parlarmi della situazione della Chiesa nel Sud est asiatico, soprattutto, naturalmente, nella Thailandia e nel Laos. Ora al ritorno, invece, mi assale di domande sul Movimento dei Focolari, di cui ha una stima enorme, anche perché ne riceve un aiuto molto consistente e concreto.

Sono ormai le indici di sera quando l'aereo arriva a Bangkok. È stato un attimo, troppo breve questo viaggio in Laos. Appena il tempo per mettervi piede e riabbracciare i nostri. Ma è già tantissimo. È una grazia insperata, ottenuta anche per le preghiere di tanti.

domenica 26 gennaio 2025

Tito Banchong, “Schiavo di Gesù”

È arrivata la notizia: «Mons. Tito Banchong Thopanhong, per noi tutti p. Tito, è deceduto a Vientiane il 25 gennaio, all'età di 78 anni, consumato da una lunga malattia, dovuta anche agli stenti sofferti da ormai 50 anni».

Il 19 novembre scorso sul blog segnalavo il libro appena uscito su di lui:

https://fabiociardi.blogspot.com/2024/11/padre-tito-anche-in-prigione-posso-amare.html

Il 5 ottobre 2015, sempre sul blog, riportavo una sua intervista, con delle belle foto della sua partenza dall’Italia nel 1975 (la foto che qui pubblico è della visita che potei fargli al Laos nel 1991):

https://fabiociardi.blogspot.com/2015/10/padre-tito-morire-per-la-propria-gente.html

Quando scomparve, nel 1976, per i sette lunghi anni di prigionia di lui non si seppe più niente. All’indomani della sua scomparsi raccolsi subito alcuni stralci delle lettere dalla Thailandia e dal Laos che ci aveva inviato poco dopo la partenza da Roma. Avevamo l'impressione che fosse già stato ucciso. Non ho mai avuto modo di far conoscere quel breve scritto. Ecco l’occasione! 

«Sono già pronto per Gesù, per essere il sue martire, se sarò degno e se Lui mi vuole. Ormai credo che il tempo sia già tanto vicino». Così termina una delle lettere di Tito.

«Come Gesù, sono stati attenti a non arrestarlo durante la festa per paura del popolo, ma in un’imboscata». È l’inizio del racconto giunto dal Laos sulla scomparsa di Tito. «Il giorno di Pasqua e durante tutti i giorni delle feste pasquali, la chiesa è stata sorvegliata attentamente da militari armati. Gli spostamenti dei padri erano stati seguiti... e durante le funzioni hanno accerchiato le case dei padri... Gli abitanti del villaggio sono dovuti intervenire... Dopo le feste, per prendere un po’ di riposo, i padri sono andati a pescare... Al ritorno li attendeva un’imboscata... Tito è stato arrestato». È il 14 aprile. «I villaggi reagiscono compatti... Sono tutti a Paksane per ottenere spiegazioni e la liberazione di Tito... Per calmarli sono state tirate fuori tutte le menzogne: è partito per Vientiane, sono-stati gli uomini della resistenza a portarlo via (proprio cerne nel Vangelo), ecc. Per finire hanno riunito tutti in assemblea di rieducazione ed ecco cosa hanno detto: Tito veniva dall’Australia (devono essersi confusi con l’Italia) dove aveva studiato per organizzare la resistenza, aveva a sua disposizione aerei ed elicotteri per la resistenza ed era il capo della resistenza nella regione di Paksane. La gente evidentemente non è stupida. Hanno chiesto di vedere e di verificare con lui. “Se è vero occorre un processo; c’è giustizia o no adesso? Vivo o morto vogliamo vederlo”. Non c’è stata risposta se non che l’ordine veniva dal comitato centrale».

Giunge in seguito un’altra lettera: «Nessuna notizia di Banchong. La gente della regione ha ricevuto la proibizione di parlarne o di farne ricerche sotto pena di prigione e di rappresaglie...».

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Tito è il nome che Banchong Topagnong ha ricevuto a 8-9 anni, quando è stato battezzato, assieme con la sua famiglia, nel villaggio Hmong (Meo) di Kiukiatan, nel Nord Laos. In quello stesso villaggio più tardi ha vissuto P. Mario Borzaga per quasi due anni. Allora Tito era già un ragazzo di 12-15 anni e ha sempre conservato un prezioso ricordo di quel padre che ha profondamente inciso nella sua vita.

Entrato in seminario vi rimase per poco tempo, abituato alla libertà della foresta non si adattava facilmente alla vita di seminario. Pu proprio il ricordo di P. Borzaga a farlo tornare in seminario, assieme alla coscienza, lentamente maturata, che diventando sacerdote avrebbe potuto dare un apporto essenziale alla sua gente perché in questo modo, come diceva lui stesso, “il mio aiuto avrebbe raggiunto le radici della vita”. Così nel 1969 entra nel seminario maggiore a Phong-Pen, in Cambogia. Ma presto il seminario venne chiuso e Tito torna a Vientiane da dove, nel 1970, Mons. Staccioli lo manda a studiare teologia in Italia. È ormai tardi per iscriverlo al collegio di Propaganda Fide. Va allora a San Giorgio, con gli scolastici, e poi nel 1973 a Vermicino.

Intanto la situazione del Laos si fa ogni giorno più critica, e quando gli Oblati vengono espulsi, Tito ha già preso la sua decisione: “Ho scelto la Chiesa del Laos e sento che Dio mi vuole là e non altrove”. “Anche se dovrò fare il prete per un solo giorno, io ritorno al Laos”. Il 13 settembre 1975 parte da Fiumicino: “Forse ci rivedremo solo in Paradiso”. Le ragioni profonde della sua scelta le ripeterà di nuovo appena giunto in Thailandia, dopo aver incontrato i profughi della sua terra e la sua stessa famiglia nel campo dei rifugiati, come ci scrive: «È sempre una nuova scelta per me. Là dove c’è la croce da abbracciare ritorno volentieri. Solo che sarà difficile... Vedo un gregge senza pastore. Lì, proprio lì, rinnovo il mio sì alla Croce. Nessuno (dei miei familiari e amici) voleva che tornassi nel Laos, ma so che questa croce nuda mi attende li...». «Ho deciso di ritornare nel Laos, non c’è nessuno per 1’apostolato... Ritorno affinché tutti noi siamo più forti, ritorno per aiutare i credenti. Ritornando ho scelto Dio solo; è Lui che mi fa ritornare ed è per questo che io ritorno».

È duro lasciare i propri familiari e tutti gli amici del villaggio nel campo dei profughi. Gli sembra quasi di tradirli, perché hanno posto in lui tutta la loro speranza: «Ho potuto andare a trovare i miei a Pua, una sessantina di km da Han. Li ho riscelto il mio SI’, Era doloroso. Tutti venivano addosso a me, i miei piangevano. Non volevano che rientrassi nel Laos. Non potevo dire nessuna parola. Sembrava che tutto crollava attorno. Sentivo fortissima la parola “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La mia forza era ridotta a nulla. Dopo una notte ‘bianca’ mi sono ripreso. Così ripetevo il mio ‘si’ a Gesù Abbandonato e ho ripreso la forza di lasciare i miei nel pianto». Tito infatti conosce un solo modo per aiutare la propria gente: «La nostra gente sarà salvata se facciamo come Cristo stesso, cioè consacrandoci alla volontà di Dio».

Tre giorni dopo, dal Laos (Vientiane), scrive ancora: «Sono contento di poter portare la mia croce dietro a Lui... Il mio ritorno è una forza per il clero locale, perché credeva che non tornassi più; invece sono tornato, pur sapendo che devo soffrire... Dicono che sono pazzo, perché la gente cerca di uscire, invece io cerco di entrare. Certo che chi segue Lui, agli occhi del mondo è sempre un pazzo».

E pensando all’ordinazione ormai prossima: «Sono contento di poter offrirmi al Signore, pur sapendo che il peggio mi aspetta. Sono contento di essere utile all’umanità. La mia forza è la fede e l’amore del Signore. Non posso più contare sulla forza e sull’amicizia umana. Così ogni momento della mia vita devo rinnovare il mio “sì” al Signore. Riscelgo continuamente Lui, mi ha chiesto tutto, così ho lasciato tutto per essere degno di Lui. Fare la sua volontà non è tanto facile, anzi è una pazzia, ma se sappiamo accettarla Egli ci riempie di gioia e di pace».

Pochi giorni dopo il suo arrivo a Vientiane, viene ordinato sacerdote da Mons. Nan Tha, il 28 settembre. Il giorno dopo scrive: «Ormai non ho più paura perché sono del Signore... Sono pronto a tutto. Sono contentissimo. Nessuno può separarmi da Lui... Ogni giorno scopro sempre più che Lui è con me. Ho Lui. Com’è belle, vero? Mi chiede tutto, gli do tutto».

Il 5 ottobre parte per Luang Prabang. Poco prima della partenza scrive: «Sono contentissimo perché sono già sposato. Ormai nessuno può togliermi la mia “Bellezza”. Devo affrontare tanti dolori, ma vivo in un’atmosfera di gio­ia perché so che- la mia Bellezza mi vuole cosi. Farò di tutto per poter stare accanto a Lei. Conto sulla vostra unità, mi sento tanto unito a voi. Posso continuare la mia vocazione solo se la mia unità e la vostra sono veramente una».

A Luang Prabang Tito non può svolgere nessun ministero, non può visitare le famiglie cristiane: «È mille volte più difficile di come avevo immaginato». Finalmente, dopo aver chiesto permessi su permessi ottiene di poter celebrare una Messa con i cristiani, «ma è stata una messa dolorosissima per tutti quanti. Durante la santa Messa c’era una decina di soldati con le armi che stavano vicino all’altare. Non potevamo dire nessuna parola come volevamo. Dopo le letture volevo fare l’omelia, ma non potevo: dentro di me volevo esprimere tante cose per incoraggiare i cristiani, ma non potevo dirle. Mi sono seduto un momento in silenzio e mi sono messo a piangere come un bambino; gli altri mi hanno visto e hanno cominciato a piangere pure loro. Quando gli altri mi hanno visto piangere, ho cercato di farmi coraggio, mi sono alzato ed ho ripreso la celebrazione. Durante la Messa, gli occhi negli occhi, ci dicevamo: Coraggio, Gesù porterà i nostri dolori».

La situazione è incerta. «Non so nemmeno quanti giorni possiamo rimanere a Luang Prabang. Dicono che devono cacciarci al più presto possibile. Cerchiamo di riempire la Sua Volonté ogni giorno. Umanamente non si capisce più niente. Dobbiamo essere Lui vivente». Riesce a visitare qualche villaggio per trovare i cristiani e i catecumeni: «La mia presenza è un grande conforto per loro».             .

Il 5 novembre arriva l’ordine di lasciare la provincia di Luang Prabang. Poco prima della partenza scrive: «Giusto un mese che ero a Luang Prabang. Cercavo di mettermi in contatto con i cristiani. Ero tanto contento. Può darsi che non era volontà di Dio. Egli mi ha tolto questa poca gioia che gustavo... Cerchiamo di fare la volontà di Dio. Adesso ho tanta paura per i cristiani... Non posso stare vicino a loro ma il Signore li guiderà».

L’accusa con la quale viene cacciato dalla provincia di Luang Prabang, la stessa che si ripeterà poco dopo a Vientiane, riempie Tito di gioia: «“Gli schiavi di Gesù sono inutili per il paese; gli imitatori di Gesù non sono degni di vivere nella società libera; chi è schiavo di Gesù deve convertirai al più presto alla libertà...”. Quanto sono contento! quando sento risuonare in me “schiavo di Gesù”. Credo che sia l’unica bella parola che il cristiano aspetta, per essere un po’ simile al suo Signore sulla croce».

A Vientiane la situazione è ugualmente difficile e Tito mostra di esse­re perfettamente cosciente del pericolo che incombe sulla sua stessa persona: «C’è tanta difficoltà, ma il Signore mi dà sempre la pace. La situazione diventa peggiore, certamente ci rivedremo lassù». Le difficoltà e il perico­lo non lo bloccano: «Il coraggio non mi manca mai, sono sempre sereno e pronto a tutto per fare la volontà di Gesù, perché Lui è con me».

Sia per tenerlo più al sicuro, sia perché possa curare i numerosi cristiani del luogo, il Vescovo lo manda a Paksane. «L’apostolato secondo il vecchio metodo è impossibile... Senza volere divento parroco di cinque villaggi... Adesso cerco di farmi conoscere dai cristiani. Pian piano devo prendere in mano la formazione dei seminaristi. La mia croce diventa sempre più pesan­te, Sono contento perché il Signore mi dà sempre la sua forza e la sua gioia. Tante volte c’è da piangere... Cerco di essere la “Luce”, come ha detto il Vangelo; siccome non posso fare quello che volevo, cerco di esserlo. Ogni giorno bisogna rinnovare il proprio Sì e ricominciare da capo. Non trovo così duro questo Sì e questo ricominciare da capo. Il loro valore è profondissimo. È una cosa che non riesco a spiegare con le parole».

A Paksane ha maggiore libertà, può visitare i villaggi, può come ripete spesso, “fare il vagabondo”: «Ora riprendo il mio vagabondare, La quaresima richiede la mia presenza di qua e di là. So amare, devo amare fino all’ultimo soffio della mia vita, Cerco di farmi debole con i deboli, anche se mi Costa tantissimo. A Lui è costata la vita, perché non posso farlo anch’io, vero?»,

La responsabilità della cura dei cristiani si fa sempre più pesante. Deve “saltare di qua e di là” con la sua moto. «La vostra preghiera mi è utilissima - scrive agli scolastici - perché qui tante volte non riesco a pregare, sia per la stanchezza, sia perché occupato dalla gente fino a tarda sera. Ogni responsabilità mi cade addosso. Non so più dove mettere la mano. Il mio vivere è il suo dolore e il suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».

Alla durezza del lavoro si aggiunge il male agli occhi. Tito era stato operato agli occhi due volte, in Italia. «Io adesso sto bene, solo che mi fanno male un po’ gli occhi. Forse lo chiede il Signore, non lo so. Voglio andarmi a curare però non so se è possibile. Ogni volta che faccio un giretto con la mia moto mi fanno molto male e mi lacrimano. Ho pensato di trovare un momento libero per andare a trovare le medicine, ma non c’è nessuno che mi sostituisce. Non sembra un grande lavoro: faccio una piccola cosa, poi un’altra e già è finita la giornata... (Altri hanno bisogno di aiuto), ma sono solo e non posso far nulla per loro. Quando penso a questo mi sento male perché sembra che li lascio abbandonati. Però cerco ad ogni modo di fare solo la volontà di Dio. Se non ci fosse Dio che mi conforta non ce la farei a vivere una vita così difficile”.

È il momento del buio. «La Pasqua del Signore ha durato poco, secondo la liturgia, ma la mia è sempre presente. Ci sono tante cose che non capisco niente, ma metto la mia fiducia nel Signore. Almeno Lui lo sa; il destino che il Signore mi riserva è oscuro, me lo rivela ogni giorno della mia vita. Per loro sono tornato nel Laos, adesso per loro rimango fine alla fine... Mi sento sempre più abbandonato, come il Suo grido, ma nello stesso tempo Lo sento con me, Non so se potrò darvi mie notizie. L’importante è che ci troviamo in Lui». Tito sembra presagire la sua fine, ma rimane sereno: «Non per vantarmi, ma dicono che sono il più calmo... So che dopo il dolore nascerà l’Amore, la gioia». E la sua calma ridà fiducia ai cristiani e agli stessi sacerdoti. «Banchong, scrive il Vescovo, è sempre in pieno dono di sé, generosissimo».

Porse per questo il Vescovo gli affida la preparazione al sacerdozio di tre giovani. «Sento di essere il concime per questi tre piccoli semi, ma non so fino a quando potrò stare ancora con loro». Questa scuola è però contro la legge e diventa l’occasione per minacce da parte delle autorità. Tito è spiato, ma ormai è nella gioia: «Sono nelle mani di Dio. Il Signore mi rivela il suo Amore. Sto sempre nella Pace, così ciò che cercavo e cerco l’ho trovato».

È l’ultima lettera di Tito, “schiavo di Gesù”, ormai amico di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”.



sabato 25 gennaio 2025

Il nostro è un tempo di crisi?

È un tempo di crisi quello che stiamo vivendo? È comunque il nostro tempo, quello nel quale siamo stati collocati dall’amore di Dio. Non c’è spazio per nostalgie, rimpianti o per sognare un mondo che non c’è. Allora questo nostro tempo è per noi il più bello, quello che vogliamo vivere con riconoscenza e passione. Dio ci ama qui e ora. 

(Da Ci aspetta in Galilea. Il cammino esigente della vita consacrata oggi)

venerdì 24 gennaio 2025

209 anni fa

«La minestra è affumicata».
«Però è buona, è la prima volta che cucino».
«Anch’io non ho mai cucinato»
«A casa si mangiava meglio».
«Ma qui è tutta un’altra cosa. Non ci posso credere. Siamo davvero insieme».
«A proposito, perché non hai messo le posate d’argento?».
«Mi prendi anche in giro?».
«Questa notte dormiremo per la prima volta sotto lo stesso tetto».
«Non siamo una bella comunità?».
«La più bella che esista al mondo!»
«In tutta Aix non ci sono sacerdoti migliori di noi».
«Anche in fatto di umiltà siamo i primi».
Scoppiarono a ridere tutti e tre. La tavola traballò. Era soltanto un tavolaccio appoggiato su due vecchi barili.
«Adesso si è fatto tardi, preghiamo e andiamo a riposare. Io dormirò nel corridoio d’entrata e voi due in quest’unica stanza. Terremo la candela sulla porta, che dia luce ad ambedue i vani. Vero che non potremo mai dimenticare questo 25 gennaio 1816?».

Così nacquero i Missionari Oblati... 209 anni fa: auguri!

giovedì 23 gennaio 2025

Ricordando Francis George

A 13 anni fu colpito dalla poliomielite. In ospedale il padre di un'altra ragazzina, anche lei con la polio, gli disse: "Non provare mai pena per te stesso". E lui cominciò ad essere attento alle sofferenze degli altri. 

Avrebbe voluto diventare prete, ma in seminario gli dissero che poteva andare a studiare, ma non sarebbe potuto diventare prete per la sua menomazione. I domenicani lo stesso. Un giorno un Oblato andò a casa sua e si intrattenne con tutta la famiglia. Poi gli disse: "Se attraversi la stanza da solo, noi ti prendiamo". Francis aveva ancora le stampelle. In lacrime, riuscì ad alzarsi e attraversò la stanza. "Vieni con noi!".

Gli Oblati non soltanto lo accolsero, ma più tardi lo elessero Vicario generale (1974-1986). Ho un bel ricordo di lui, quando era a Roma.

Vescovo nel 1990, nel 1997 fu nominato ottavo arcivescovo di Chicago, la più grande diocesi degli Stati Uniti, che non aveva voluto accoglierlo come prete. Era il primo arcivescovo nativo della città, e cardinale nel 1998.

Oggi il prof Michael Heinlein, autore di una sua biografia, Glorifying Christ, ci ha parlato di lui, a 10 anni della sua morte, avvenuta il 17 aprile 2015, all'età di 78 anni, dopo una lunga lotta contro il cancro.

Parlando ai giovani della sua diocesi alla fine della vita disse loro: "La sola cosa che porti con te quando muori è quello che hai donato".

Sulla nostra rivista oblata aveva scritto: «Essere vescovo rientra nel carisma della vocazione oblata. Il Fondatore è diventato vescovo dopo aver fondato la Congregazione, dopo aver ricevuto la grazia della sua vocazione di Oblato di Maria Immacolata. Diceva che gli apostoli sono i nostri primi padri e che i vescovi sono i successori del Collegio Apostolico. 

Quando leggo ora gli scritti del Fondatore, trovo un cambiamento nel mio interesse. Per anni, gli scritti che mi hanno particolarmente interessato sono state le sue lettere del periodo della fondazione della Congregazione e quelle quando era missionario. Ora guardo più ai testi scritti successivamente, con tutti i dettagli a volte noiosi delle sue lettere e dei suoi diari, perché in questi dettagli vedo l'anima di un pastore di una chiesa locale, di un vescovo». 




mercoledì 22 gennaio 2025

Responsabili gli uni degli altri

Antoni Bochm, il nostro vicario generale, ci ha scritto una lettera in occasione del 209° anniversario della nascita della nostra congregazione quando, il 25 gennaio 1816, Sant'Eugenio si stabilì nell'ex convento carmelitano di Aix-en-Provence. Padre Tempier era già lì da qualche giorno. All'inizio erano in tre; gli altri li avrebbero raggiunti a metà febbraio.

P. Antoni, nello spirito del Giubileo, ci aiuta a riflettere sulla nostra comunione e su come essa ci rende pellegrini, portando e dando speranza agli altri. Sottolinea soprattutto il senso di corresponsabilità. Riprendo qualche frase soltanto:

«Sant'Eugenio di Mazenod non ha voluto che la comunità degli Oblati fosse una squadra, un gruppo di persone con la stessa missione e gli stessi ideali, ma ha voluto che fossimo una famiglia, la famiglia più unita del mondo. Sappiamo bene che in una famiglia i legami tra le persone che la compongono sono forti, che queste persone sono responsabili l'una dell'altra, che si prendono cura l'una dell'altra; c'è l'amore come unica regola, che guida la vita della famiglia. Nella famiglia si riceve molto, ma si deve anche contribuire alla famiglia. Nella famiglia, i membri si conoscono bene, vedono gli altri membri e riconoscono facilmente se vivono nella gioia o nella tristezza e nella sofferenza; offrono sempre il loro aiuto nei momenti di bisogno. Le nostre comunità sono invitate a riflettere l'immagine di una buona famiglia.

La responsabilità dovrebbe essere una delle caratteristiche principali di tutti gli Oblati e dei membri della famiglia oblata. Non ci sarà una buona vita comunitaria se non c'è la responsabilità di tutti per tutti e per tutto ciò che costituisce la vita comunitaria. Dobbiamo essere responsabili del lavoro della comunità, della vita spirituale della comunità, del contributo alla comunità: responsabili delle cose grandi della comunità così come delle cose più piccole, che possono sembrare poco importanti ma che in realtà sono ugualmente importanti e fanno parte della vita della comunità, come pulire, mettere le cose al posto giusto, comunicare, e così via.

Come Oblati e come famiglia oblata, potremmo essere un esempio di come prenderci cura gli uni degli altri, di come offrire le nostre vite agli altri con amore e devozione, non vivendo in rivalità e subordinando l'altro, ma piuttosto dando e servendo l'altro, come Gesù che non è venuto per essere servito ma per servire».

martedì 21 gennaio 2025

Ciò che attira l'amore di Dio

Questa mattina ho scritto un ultimo pensiero che ho inserito nel libro sulla vita consacrata che ho appena concluso:

Come la depressione atmosferica attira la pioggia, anche il “vuoto” che possiamo sperimentare attira l’amore misericordioso di Dio, che si fa vicino, e condivide la nostre carenze e debolezze per immettervi la pienezza della sua vita.

Con l’apostolo Paolo ognuno di noi può proclamare la sua stessa fede: «Cristo mi ha amato e da dato se stesso per me» (Gal 2, 20). Mi ha amato proprio perché sono insignificante, più ancora infedele e peccatore. È più grande e più vero il suo amore della mia debolezza.

Tale proclamazione di fede l’apostolo Paolo la pone anche sulla bocca di tutta la sua comunità, della Chiesa intera: «Cristo vi ha amato e ha dato la sua vita per noi» (Ef 5, 1).

Questo plurale può ripeterlo l’intera vita consacrata nella sua dimensione ecclesiale. Proprio perché debole, povera, inadeguata, è oggetto dell’amore di Dio manifestato in Cristo Gesù. Sapersi amati così come si è, perché si è così, infonde gioia, pace, sicurezza.

lunedì 20 gennaio 2025

L'acqua dalla rupe

 

Mi hanno regalato la biografia di Silvano Cola, la prima parte. L’introduzione si apre con una sua frase. Mi basterebbe questa:

Pare che Dio a ciascuno di noi dica con Aronne e Mosè: Può forse uscire acqua da questa rupe? Noi siamo la rupe, quel cuore di pietra che Dio vuol trasformare in cuore di carne. A ciascuno di noi Dio dice: Pensi che da questa rupe possa uscire acqua, cioè Gesù? E noi dobbiamo rispondere: Io sono certo che dalla rupe sgorgherà acqua.