mercoledì 22 marzo 2023

Giovanni Santolini: L'identità oblata

Un frutto maturo della sua comprensione della missione lo troviamo espresso in una conferenza tenuta nel 1989 a Ottawa, in Canada, in occasione di un convegno dedicato a “La missione oblata attraverso la comunità apostolica”. Alla conclusione della sua presentazione scrive: «Siamo uniti nel nome di Gesù Cristo; quindi uniti nella carità, nel Vangelo, nell’amore reciproco. Di conseguenza, uniti per nessun altro motivo, per nessun’altra ragione che Lui. È Lui la sola ragione della nostra unità, Lui, Gesù, il solo motivo del nostro essere comunitario, e non l’apostolato, il ministero, la missione stessa, o non importa quale altre azioni possiamo fare, tutte conseguenze… La comunità è dunque missionaria perché è il segno della presenza di Gesù: “Voi ne sarete testimoni” (Lc 24, 38). Essere testimoni della presenza di Cristo è continuare la sua missione. È tutto qui… Bisogna supporre lo sforzo personale di una conversione continua che conduce alla perfezione: una perfezione acquisita non in senso individualista, ma dell’amore reciproco, che ci consente di giungere fino in fondo, grazie alla presenza di Gesù che dobbiamo alimentare. È Lui il perfetto ed è in Lui che dobbiamo trovare la perfezione e dunque l’unità della nostra vita e delle nostre vite».

Forse una delle sintesi più belle, espressa in maniera narrativa, è forse quella annotata in un breve scritto senza data, intitolato: Meditazione. L’identità oblata. Entra idealmente in dialogo con il Fondatore degli Oblati, sant’Eugenio de Mazenod, ponendogli alcune domande. Tra l’altro gli chiede: “Chi è l’uomo apostolico?”. E fa rispondere a sant’Eugenio: «Qualcuno che si lascia toccare il cuore di fronte alla situazione della Chiesa e del mondo e ascolta il grido dei poveri che chiedono aiuto e salvezza. L’uomo apostolico è colui che è stato afferrato da Cristo e si sente impegnato nella sua missione, responsabile con Cristo della salvezza degli uomini. È affare suo, è responsabilità sua e come san Paolo può dire: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16)».

In questo dialogo lo sguardo non si ferma al passato, ma si proietta sul momento che Giovanni sta vivendo, alla ricerca di un cammino da percorrere. «Se tu, padre de Mazenod, tornassi oggi nella Provincia dello Zaire, cosa ti aspetteresti da noi?». E di nuovo da voce a sant’Eugenio: «La mia risposta non è legata al passato o ad uno sguardo fuori dal nostro contesto attuale, ma alla consapevolezza di chi siamo e di cosa la Chiesa si aspetta da noi come uomini che vivono il carisma in questo nostro contesto storico». L’ottica per la lettura dell’oggi è data dall’identità dell’uomo apostolico, come proposto dal Fondatore: «un uomo che si lascia toccare di fronte alla situazione della Chiesa e del mondo e ascolta il grido dei poveri che chiedono aiuto e salvezza; che è stato preso da Cristo e che si sente impegnato nella sua missione, responsabile, con Cristo, in qualche modo, della salvezza degli uomini. È affare suo, è sua responsabilità e come san Paolo può dire: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16)».

Il progetto che Giovanni ha davanti a sé è chiaro e fa dire al suo Fondatore che gli Oblati sono «uomini che hanno una vera consistenza umana, che camminano le orme degli Apostoli seguendo Cristo, che tendono alla santità, in una vocazione totalitaria, senza mezze misure, che lavorano seriamente per costruire la santità personale e comunitaria, nella libertà interiore da denaro, famiglia, potere, proprie idee; nella libertà esteriore dalle strutture, dal giudizio sull’ambiente, pronte a lasciare tutto per la missione, per rispondere alle urgenze della Chiesa. Per loro è importante la comunità, lo spirito di corpo. L’Oblato non è mai solo, lavora sempre in nome del corpo, della congregazione. La comunità è il luogo di santificazione assieme gli altri. Così gli Oblati sono uomini di desiderio, di audacia, per portare a buon fine le imprese».

Il dialogo con sant’Eugenio continua: «Come ci vede in questo nostro posto nella Chiesa?». La risposta, ancora una volta, palesa la visione di Giovanni: «Vi vedo come una “truppa d’élite” al servizio della Chiesa, capaci di ascoltare gli appelli dei poveri oggi».

Poi l’appello rivolto ai giovani che Giovanni ha davanti: «Siamo in grado di ascoltare questo grido della Chiesa abbandonata e di trovare una risposta adeguata a questo grido? Qual è questo grido? Non chiudete le orecchie a queste grida perché altrimenti ci chiudiamo alla nostra identità oblata, non potremo più riconoscerci. Soltanto rispondendo a questi appelli, potremo essere autentici testimoni di Gesù Cristo tra i poveri, non solo con le parole e con i fatti, con l’autenticità religiosa del nostro essere: annunciare ciò che stiamo vivendo. “Non possiamo non proclamare ciò che abbiamo visto e udito” (At 4,20)».

Questa pagina dà un’idea non soltanto della sua idea missionaria, ma di come la condivideva con i giovani in formazione. E continua ad essere un appello a lasciarci coinvolgere e a prendere in mano la sua eredità, così che la missione continui, “di generazione in generazione”.

 

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