Lo Spirito fa la sua parte e manterrà presente e viva la vita consacrata. E la nostra? La nostra parte è lasciarsi guidare dallo Spirito, come lo sono stati i nostri fondatori e fondatrici. Nell’itinerario di fondazione essi procedevano per intuizione, andando avanti tanto quanto vedevano, o meglio, quanto lo Spirito dava loro di comprendere. Si sono mossi alla sua luce e hanno attuato con prontezza quanto vedono. Proprio per questo sapevano che il progetto che si apriva loro davanti non era umano e quindi si lasciavano guidare con docilità, pronti a cambiare rotta se egli glielo faceva capire. Non si ostinavano ad essere fedeli a quello che avevano capito fino a quel momento. Volevano essere fedeli alla conduzione di Dio, anche quando sembrava contraddittoria. Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, descrive così questa esperienza comune: «Ecco un semi-cieco, che è guidato; e col procedere viene di tanto in tanto illuminato, perché sempre possa avanzare: Dio è la luce». I nostri fondatori e fondatrici si sono lasciati guidare dallo Spirito nell’avventura evangelica. Noi, come loro!
Non si tratta di
abdicare alla nostra volontà, quanto piuttosto di porre interamente forze,
cuore, mente, tutte le proprie capacità a completa disposizione dell’azione
creativa dello Spirito, in modo che possa compiere liberamente la sua opera. I
nostri progetti, a confronto con i suoi, si rivelano meschini, angusti, poveri
di senso. Mentre invece se ci abbandoniamo nelle sue mani, alla sua divina
volontà, che vuole fare di ciascuno di noi un capolavoro, ci realizzeremo in
pienezza. Soltanto grazie a questo atto, che per certi aspetti è un’autentica
morte a noi stessi, può rivelarsi – quale atto di risurrezione e vita nuova –
la bellezza e la novità del progetto di Dio su ciascuno di noi, infinitamente
più ricco e sorprendente di quello che potremmo sognare. Bisogna ben possedere
la propria vita per poterla donare. E donare la propria vita a Dio è il massimo
atto di libertà, intelligenza e maturità umana. È legge evangelica: «chi vuole
salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa
mia, la troverà (Mt 16, 25). La docilità allo Spirito non è debolezza. È
coraggio! Il coraggio di fidarsi di Dio, di credere che le sue vie non sono le
nostre vie. Il coraggio di abbandonarsi alla avventura sempre nuova e
imprevedibile della sequela di Cristo. Il coraggio di credere al Vangelo. Il
coraggio di mettere tutta la vita interamente nelle mani di Dio. L’imperativo è dunque “ascoltare” la voce interiore dello
Spirito.
Mi fa impressione vedere tanti religiosi e religiose con
le cuffiette del cellulare incollate alle orecchie, connessi costantemente a
internet. Se
dedicassimo all’ascolto dello Spirito almeno lo stesso tempo che dedichiamo
all’ascolto di internet… Nella conclusione di un libro dedicato alla vita
consacrata è forse inopportuno scendere così in basso, ma viene da chiederci
chi è il nostro influencer, di chi siamo followers, chi manipola le nostre
coscienze, chi guida realmente la nostra vita, con chi siamo costantemente
connessi... Occorrerebbe un discorso ben più serio e articolato sull’uso dei
mezzi di comunicazione, un’opportunità unica, ma che può portare a un uso
intensivo e ossessivo fino a generare dipendenze. Nello stesso tempo
occorrerebbe parlare del “raccoglimento” – «tutta la vita dell’Oblato è un
costante raccoglimento», leggiamo nella Regola degli Oblati di Maria
Immacolata…
Perché allora non
concludere con la grande Regola benedettina che per secoli ha guidato la vita
consacrata occidentale? Essa è posta all’insegna dell’ascolto: «Ascolta,
figlio…» (Prologo 1). L’invito orienta primariamente verso l’abate, ma egli è
solo l’intermediario di un ascolto più profondo: quello della Parola di Dio,
del Signore che parla: «Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a
noi…» (Prologo 9): «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli
carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama?» (Prologo 19).
Dalla prima persona
singolare si passa a quella plurale, all’intera comunità che insieme si pone
all’ascolto dello Spirito. Allora la sua voce si fa più udibile e il
discernimento più luminoso. Si tratta di diventare discepoli della parola
“insieme”, ascoltandola – e il silenzio è la condizione per l’ascolto –,
accogliendola, mettendola in pratica, condividendone le esperienze di vita che
essa suscita. «Il Signore aspetta che noi ogni giorno rispondiamo con i fatti
ai suoi santi ammonimenti» (Prologo 35). Benedetto invita a non scostarsi mai
dal magistero di Dio, ma piuttosto a perseverare nel suo insegnamento,
aiutandoci reciprocamente (cf. Prologo 50).
Cristo diventa così
il centro del progetto del monaco e di ogni forma di vita consacrata: non
possiamo avere «assolutamente nulla più caro di Cristo» (5, 2). La Regola si
chiude con il celebre ammonimento: «nulla assolutamente antepongano al Cristo»
(72, 11).
Il monaco è colui che
accoglie incondizionatamente l’invito del Signore ed è pronto a seguirlo. Di
qui l’idea di un cammino da intraprendere insieme senza indugi e senza mezzi
termini, con grande serietà e radicalità, come lo esige Gesù dai suoi seguaci.
L’intera vita monastica, come ogni altra forma di vita consacrata, è sotto
l’immagine del viaggio: «Procediamo sulle sue vie, sotto la guida del Vangelo»
(Prologo 21). Solo allora lo Spirito è libero di compiere l’opera sua, di “soffiare
dove vuole” (Gv 3, 8) e di condurre per vie che solo Lui conosce. A noi la
piena docilità.
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