giovedì 18 agosto 2016

Terra Santa / 3 – Viaggio a Gerusalemme


La seconda volta sono tornato in Terra Santa per guidare un pellegrinaggio. La terza con tutta la mia famiglia: 42 persone, un evento che ci ha segnati per la vita. La quarta per un simposio ebraico-cristiano dal titolo Walking Together in Jerusalem. Eravamo ospiti alla Judaean Guest House, dal 22 al 26 febbraio 2009. Ebrei di diversi parti del mondo si incontravano con Cristiani di differenti denominazioni non soltanto per riflettere insieme sul significato che ha per entrambi la Città santa, ma anche per camminare insieme a Gerusalemme, come diceva il titolo del Simposio, per guardarla con un unico sguardo, per pregare insieme quei Salmi che la cantano «città ben costruita, in cui tutto è unità» e chiedere, sempre con i Salmi, «Sia pace a chi ti ama, sia pace all’interno delle tue mura, tranquillità nelle tue case!».

In quella occasione scrissi:

“L’anno prossimo a Gerusalemme”. Questo l’augurio che ogni anno, per secoli, gli ebrei si sono rivolti al termine della celebrazione della Pasqua. Era il sogno che li ha sostenuti nella diaspora, aiutandoli a superare quel senso di isolamento e di diffidenza, quando non di persecuzione, che spesso ha accompagnato la loro storia tormentata.
Non so se anche oggi si ripete quell’antico augurio. Gli ebrei, da qualsiasi parte del mondo, possono andare a Gerusalemme quanto vogliono, anzi l’hanno eletta a capitale dello stato di Israele. Città santa per le tre religioni monoteiste, Gerusalemme vive il travaglio di una convivenza multietnica e multireligiosa che sembra impossibile. Lo testimonia il muro innalzato intorno alla città per difenderla dai Palestinesi, che poi si snoda lungo attorno allo stato di Israele. E pensare che sulla croce, come spiega l’apostolo Paolo, Gesù aveva distrutto il “muro di separazione” fra gli ebrei e gli altri popoli… Attorno alla tomba di Rachele il muro è più alto che altrove. Una donna palestinese, a cui esprimo il mio sconcerto per non poter accedere alla tomba, mi risponde mestamente: “Rachele si nasconde per non mostrarsi ancora in pianto per i suoi figli… Anche questo muro crollerà, come è crollato quello di Berlino”.

Io ho già visto cadere questo muro! Per quattro giorni ho camminato per Gerusalemme assieme ad un gruppo di ebrei. Eravamo quaranta cristiani (di varie confessioni e nazionalità, arabi compresi) e quaranta ebrei (di varie tradizioni, provenienti da mezzo mondo) uniti nella volontà di un dialogo nella verità e nella fraternità. Il tema del simposio, “Gerusalemme, città chiamata all’unità nella diversità”, ci aiuta a riflettere sulla diversità come fonte di reciproco arricchimento, come espressione dell’infinita ricchezza di Dio sperimentabile in mille modi. Ma non sono tanto le conferenze o le testimonianze di dialogo ad avvicinarci tra di noi e a farci riconoscere fratelli, quanto piuttosto alcuni gesti concreti, come il “camminare insieme a Gerusalemme”, fisicamente, oltre che simbolicamente.
Dall’alto della rocca di Sion contempliamo insieme il monte degli ulivi, la città di Davide con la piscina di Siloe, la valle del Cedron, il basamento del tempio… e sgorgano spontanee le parole dei Salmi: “Gerusalemme è città ben costruita, in cui tutto è unità”, “Là siamo nati tutti noi”... Tutto parla delle nostre comuni radici, e Gerusalemme ci appare la madre comune e noi ci sentiamo fratelli. Ancora più ci sentiamo tali nel luogo che per noi è il cenacolo e per loro la tomba di David. Ed eccoci alla “scaletta” da dove Gesù, il giovedì santo, è sceso pregando per l’unità e da dove è risalito, prigioniero delle guardie, per pagare l’unità con la vita. Una rabbina argentina canta, in ebraico, il salmo 23: “Il Signore è il mio pastore”, poi ripreso in arabo da cristiani di Haifa.

Come camminare insieme a Gerusalemme senza che l’unico Signore sia la nostra guida comune? A nome di tutti, ad alta voce, chiedo quell’unità tra di noi che Gesù lì aveva chiesto al Padre, e un patto d’amore viene stipulato tra noi cristiani ed ebrei. Giunti al Muro Occidentale, il “muro del pianto” preghiamo lo stesso Dio dei nostri Padri e delle nostre Madri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Sara, di Rebecca e di Rachele, ma anche il Dio di Maria, di Gesù… Tengo la mano sulle pietre del basamento del tempio, ancora calde dei raggi del sole ormai tramontato. Prego a voce alta perché l’unico tempio vivo che ormai formiamo tra di noi si dilati sul mondo intero, là dove stiamo per disperderci, per portare ovunque la presenza di Dio costruita insieme. Ora mi è più facile riflettere sulla città santa. 

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