sabato 28 marzo 2015

Perché Gesù non scende dalla croce?


Quante volte, davanti a una situazione difficile, a un dramma personale e familiare, a un qualsiasi male sociale, ci aspettiamo una soluzione positiva, che invece non viene. Si prega, si spera in un miracolo, e non accade niente. La malvagità e l’ingiustizia sembrano avere il sopravvento. Ai cattivi va sempre tutto bene, mentre i buoni rimangono nella sofferenza.
Anche a Gesù è capitato così. Fino all’ultimo qualcuno ha atte­so un intervento divino, un gesto straordinario, qualcosa che avrebbe risolto positivamente il dramma così assurdo che si sta­va consumando sul Calvario. Invece niente: lo hanno inchioda­to, ha gridato e nessuno è venuto in tuo aiuto, nessun miracolo, è morto. E di quale atroce morte. E quanto strazian­te quel grido senza risposta alcuna.
«Non scendi dalla croce? – ti dicono uomini crudeli – Allora non ti crediamo». Ciò che per essi è causa di incredulità, per il centurione diventa invece motivo di fede: «Davvero quest’uo­mo era Figlio di Dio!». È l’ambivalenza davanti alla sua morte. Può essere letta come un fallimento, una maledizione, un’ingiu­stizia, l’assenza di Dio che lascia andare le cose per il loro verso, senza intervenire. Oppure come il più alto atto d’amore.


Anche a noi il dolore e le contrarietà possono apparire ambiva­lenti. Quante volte si arriva a perdere la fiducia in Dio, a non credere, perché lascia che le cose vadano come non vorremmo. Anche noi, nei modi più vari, chiediamo di appianare quella contesa, di recuperare quella perso­na cara che si sta perdendo, di porre termine a un’ingiustizia, di guarire chi sta morendo… Perché non fa nulla, perché non interviene, se è l’Onnipotente? “Perché non scendi dalla croce?” E forse perdiamo la fede.
Oppure possiamo reagire come il centurione: credere che Dio è lì, misteriosamente ma realmente presente in quel dolore. Sulla croce si è fatto malattia, ingiustizia, sofferenza, tradimento, peccato…, tutte realtà no­stre che, in quanto Dio, non gli appartenevano e di cui si è co­munque appropriato, prendendole su di sé  per toglierle a noi. È stato il più alto gesto d’amore. Non si è visto nulla in quel momento, soltanto silenzio e morte, ma il suo gesto d’amore era già risurrezione.
Ogni realtà negativa, da quando Gesù l’ha presa su di te, si rivela sacramento della sua presenza: vi è entrato, l’ha assunta, si è identificato con essa. Lo crediamo, anche quando non vediamo il miracolo. Sappiamo che Dio è lì presente. Non amiamo il dolore, ma Dio che si è fatto dolore, pre­sente in ogni dolore. Si associa a sé per vivere con lui ogni tratto negativo, in noi e attorno a noi, con l’amore che tutto redime, primizia di risurrezione.


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