La seconda parola di Gesù in croce, secondo il Vangelo di Luca, è di una dolcezza e di una intensità commoventi. Crocifisso in mezzo a due ladroni, si è fatto solidale con i malfattori, è annoverato fra i peccatori, anch’egli un delinquente (cf. Isaia 53, 12): «crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra» (Luca 23, 33).
Secondo
gli altri evangelisti Pilato sulla sua croce ha fatto apporre la scritta “Re
dei giudei”, in tre lingue, un modo per deriderlo davanti al mondo intero. Prima
ancora, nel pretorio i soldati avevano intrecciato una corona di spine, gliel’aveva
posta sul capo, lo avevano schernito: “Salve, re dei giudei”. Giovanni riporta
un serrato dialogo con Pilato sulla regalità, nel quale Gesù si proclama re.
Luca
è molto più sobrio. Riporta le parole di derisione dei capi: «Salvi se stesso,
se è lui il Cristo di Dio, l’eletto», ingiuria ripetuta dai soldati. Parla
anche della scritta sulla croce, ma non ha bisogno che qualcuno lo dichiari re,
se pure per burla. Gli basta riportare le parole del ladrone: «Gesù, ricordati
di me quando entrerai nel tuo regno» (23, 42). In tutto il Vangelo non c’è più
alto riconoscimento della regalità di Cristo.
Come
poteva riconoscere in quell’uomo flagellato, coronato di spine, sfigurato,
beffeggiato, un re? Che razza di Messia poteva essere se non era capace neppure
di salvare se stesso? Cosa aveva di regale Gesù, in quel momento? Eppure il
brigante lo tratta davvero da re. Forse per il suo comportamento: l’aveva
appena visto prendersi cura della folla e dei soldati, scusarli, chiedere per
loro il perdono. Soltanto a un re era consentito concedere la grazia a un
condannato a morte: il “buon ladrone” la chiede, a riprova che vede in lui il
re.
La
risposta di Gesù è immediata: «In verità ti dico, oggi con me sarai in
paradiso».
Oggi: nessuna dilazione, lo porterà in paradiso subito. Quanta premura!
Con
me:
poteva promettere compagnia migliore?
In
paradiso:
poteva esserci ricompensa più grande? Non per i crimini commessi, ma per la
fede nella sua regalità e la fiducia nella sua misericordia.
“Paradiso”
è una parola persiana, indica un giardino recintato. Quando un re persiano
desiderava riservare un onore speciale a uno dei suoi sudditi, lo introduceva
nel suo giardino così che potesse camminare accanto a sé.
Gesù
promette al ladro pentito il posto d’onore: lo farà suo compagno nei giardini
del cielo.
Ladro
per tutta la vita, dirà sant’Agostino, quell’uomo crocifisso con Gesù fu ladro
fino in fondo e rubò il paradiso! No, non l’ha rubato, gli è stato donato: tutto
è grazia!
Papa Francesco, in una sua udienza del mercoledì (ottobre 2017), ha ricordato che Gesù promette il paradiso «a un “povero diavolo” che sul legno della croce ha avuto il coraggio di rivolgergli la più umile delle richieste: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Non aveva opere di bene da far valere, non aveva niente, ma si affida a Gesù, che riconosce come innocente, buono, così diverso da lui (v. 41). È stata sufficiente quella parola di umile pentimento, per toccare il cuore di Gesù…
Il
paradiso non è un luogo da favola, e nemmeno un giardino incantato. Il paradiso
è l’abbraccio con Dio, Amore infinito, e ci entriamo grazie a Gesù, che è morto
in croce per noi. Dove c’è Gesù, c’è la misericordia e la felicità; senza di Lui
c’è il freddo e la tenebra. Nell’ora della morte, il cristiano ripete a Gesù:
“Ricordati di me”. E se anche non ci fosse più nessuno che si ricorda di noi,
Gesù è lì, accanto a noi. Vuole portarci nel posto più bello che esiste… Chi ha
conosciuto Gesù, non teme più nulla».
Ogni volta che ci sentiamo peccatore, ossia sempre, possiamo guardare con fiducia l’uomo che pende dalla croce e dirgli: «Ricordati di me, quando sarai nel tuo regno».
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