mercoledì 31 marzo 2021

Ho desiderato ardentemente…

Quando venne l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 14-15).

Letteralmente: “con desiderio ho desiderato”, “ho ardentemente desiderato”.

Anche noi, come gli apostoli, ci siamo appena seduti per l’ultima cena. Vogliamo rivivere il Giovedì Santo. Lasciamo che Gesù ripeta il suo ardente desiderio di stare con noi, con ognuno di noi. Chissà se crediamo davvero a queste sue parole, a questo suo desiderio.

La prima cosa che ci è chiesta, entrando nella sala superiore, è credere all’amore di Dio che si manifesta nel Figlio suo, e lasciarci avvolgere da esso: siamo desiderati, cercati, raggiunti, amati. Un Dio che ci invita a pranzo, a stare con lui, perché da sempre ha tanto desiderato mangiare con noi!

Vorremmo dire, come nella prima lettera di Giovanni: “Sì, Gesù, noi crediamo all’amore, al tuo amore per me, all’amore per il fratello che è seduto accanto a me. Crediamo che hai aspettato da un’eternità questo momento per stare con noi, per mangiare con noi”.

Gesù ha vissuto per questo momento, l’ha atteso con trepidazione. Aspettava con impazienza che si accendesse il fuoco che era venuto a portare sulla terra fredda e buia: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!». Bramava con ansia che giungesse il momento: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!» (Gv 12, 49-50). La sua Pasqua gli sta davanti e lo aspetta. L’“ora” è arrivata. Può finalmente confidarlo ai suoi: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione».

Nell’omelia del giovedì santo del 21 aprile 2011, dopo aver ricordato il desiderio di Gesù di stare con i suoi, Benedetto XVI domandava: «Gesù ha desiderio di noi, ci attende. E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro?».

In questo Giovedì Santo, prendendo posto a tavola nel cenacolo, possiamo chiederci quali sono i sentimenti che ci animano, che guidano la nostra vita. Possiamo condividere i desideri di Gesù e desiderarli ardentemente con lui e come lui portarli a compimento?

martedì 30 marzo 2021

L’altro mi fa da specchio

 


Mi accorgo di essere senza mascherina
solo quando incontro una persona con la mascherina.
L’altro mi fa da specchio…

lunedì 29 marzo 2021

Perché mi hai abbandonato? / 3


Dopo la “prima” parola di adesione piena alla chiamata di Dio – “Ti seguirò ovunque andrai” –, anche per il discepolo giunge il momento di quest’“ultima” parola: “Perché mi hai abbandonato?”.

È il perché silenzioso di Maria, ai piedi della croce, quando le è chiesto di sacrificare il figlio, nel distacco più amaro. All’inizio con slancio aveva detto il suo “eccomi” gioioso. Ora non ha più parole neppure lei. Semplicemente “stabat”, in silenzio.

È il perché, spesso gridato, come lo gridò Gesù, nella vita quotidiana del discepolo, quando giungono momenti in cui sembra che Dio si sia allontanato, si sia ritirato, rendendosi irraggiungibile, indifferente alla supplica. Dov’è Dio quando muore un figlio giovane, quando si è vittime innocenti di ingiustizie e violenze, quando esplodono le guerre? O più semplicemente, perché non risponde quando abbiamo bisogno di aiuto nella vita d’ogni giorno e lo preghiamo per il lavoro, per la salute, per l’armonia in famiglia? Dove trovare Dio, quando se n’è andato e ci ha lasciati soli?

È la chiamata a seguire il Maestro fino all’ultimo. Anche quando il progetto di Dio sembra entrare in conflitto con i nostri progetti, anche quando vorremmo qualcosa di diverso, scegliere altri modi di vivere.

Gesù ha condiviso ogni nostro “perché” e in ogni nostro “perché” possiamo udire l’eco del suo grande “perché”. Nella notte, nell’assurdo, nell’incomprensione, nel fallimento… in ogni abbandono, crediamo che egli c’è, sia che lo sentiamo sia che non lo sentiamo.

In quel grido sula croce la missione di Gesù appare in tutta la sua straordinaria grandezza: riconcilia cielo e terra, apre la via e trasmette la forza e la capacità di essere fedeli, come lui, nel compimento della missione che il Padre ha affidato a ciascuno di noi. Ha provato la solitudine perché non fossimo più soli. Ha vissuto l’abbandono perché noi mai fossimo abbandonati. È morto perché noi non morissimo: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me… non morrà in eterno» (Gv 11, 25-26).

Chi sarà dunque contro di noi? Dio, «che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi?». «Chi ci condannerà? Cristo Gesù, che è morto… per noi?» (Rm 9, 32.34).

domenica 28 marzo 2021

Perché mi hai abbandonato? / 2


“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: l’ultima parola richiama la prima parola pronunciata da Gesù nell’atto di diventare uomo:

«entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: "Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà"» (Eb 10, 5-7).

Entrando nel mondo egli affida la sua vita nelle mani del Padre, in completa disponibilità, per compiere la grande missione: la redenzione del mondo, portare la Trinità in terra e la terra nella Trinità, l’ut omnes.

In quella prima parola si avverte la gioia e lo slancio dell’obbedienza al Padre: “Eccomi, manda me!”. La sua opera sarà tutta una risposta al mandato ricevuto: lo sentiamo proclamare parole di sapienza, lo vediamo compiere miracoli, lo sentiamo vicino ai poveri e ai peccatori…

La parola di Gesù che viene nel mondo è la stessa con cui anche Maria di Nazaret inizia la sua avventura: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1, 38). Lo stesso entusiasmo (letteralmente, il Dio dentro!) nello scoprirsi scelta dal Signore, il medesimo slancio nel dichiararsi pienamente disponibile. C’è tutta la generosità della giovinezza.

È la stessa parola che apre il cammino di ogni battezzato dietro a Gesù, nella gioiosa proclamazione: «Ti seguirò dovunque andrai» (Lc 9, 57), pronto ad una donazione totale e a una piena condivisione di vita e di destino: «Andiamo anche noi a morire con lui…» (Gv 11, 16). 

Gesù sapeva che la realizzazione del progetto sarebbe tanta onerosa, aveva profetizzato il rifiuto, la passione, la morte. Eppure all’ultimo momento, quando si tratta di porre il gesto finale che dà compimento all’opera, rimane col fiato sospeso, sembra sul punto di gettare la spugna: «Allontana da me questo calice – dove “calice” sta proprio per “volontà di Dio” –… Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14, 36.38).

Lo slancio iniziale, per Gesù, come per Maria, per il discepolo, è generosissimo, senza il minimo ripensamento: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”; “avvenga per me secondo la tua parola”; “ti seguirò ovunque andrai”… Ora giunge il tempo di “forti grida e lacrime”, di imparare l’obbedienza (= l’attuazione del progetto affidato) attraverso il patire (cf. Eb 5, 7-8).

Davanti al profilarsi di un esito inatteso (previsto, ma non in maniera così drammatica e attuale), Gesù «cominciò ad avere paura e smarrimento» (Mc 14, 33): ekthamneístai: impietrito e sconcertato, come quando qualcosa di terribile accade improvviso davanti agli occhi; è la paura: ademoneín: grande ansietà, angoscia davanti a qualcosa di spaventoso. Lo confessa con sincerità: «Sono triste da morire» (Mc 14, 34). Fino a sudare con gocce dense come sangue, in un’agonia (= la lotta estrema) che lo conduce alla morte. C’è bisogno che un angelo dal cielo venga a rincuorarlo (cf. Lc 22, 43-44)!

Eppure Gesù continua il suo cammino e rimane coerente con il progetto, anche se sembra assurdo: «però non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu» (Mc 14, 36); «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39); «non la mia volontà, ma la tua sia fatta» (Lc 22, 42); «Che posso dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12, 27).

Egli procede, fermo nella parola data, la prima parola: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”. La compie veramente, nonostante tutto.

La prima e l’ultima parola coincidono. Tutta la sua vita è sottesa tra un proposito di obbedienza e il pieno adempimento. Il punto più alto del compimento è in quel grido, che sembra porsi all’antitesi di quella che era la missione: rivelare Dio e mettere in comunione con lui, creare l’unità della famiglia umana. L’annuncio della buona novella sembra contraddetto dal grido sulla croce (Dio non risponde: sembra piuttosto una cattiva novella), la comunione dall’estremo abbandono, la luce dalla tenebra, l’unità dalla divisione e dalla solitudine.

Sulla croce Gesù si fa pienamente solidale con l’umanità, ne assume la fragilità e la finitezza, la sofferenza e la morte, fino al peccato nella realtà più sconcertante della perdita di Dio.

L’incarnazione raggiunge il punto più basso (il più alto?): veramente in quel grido Gesù appare un uomo come tutti, anzi meno di uomo, fino a condividere con tutti solitudine, infermità, oscurità. È entrato negli angoli più oscuri della nostra vita perché in ogni angoscia e dolore potessimo trovarlo presente, accanto a noi, fino a prendere su di sé ogni negativo e lasciarsi, al suo posto, la sua divina presenza.

Lasciamo la parola a una persona, Chiara Lubich, che in quel grido di Gesù sulla croce ha trovato il cuore del suo carisma dell’unità:

«Gesù che grida l’abbandono è la figura del muto: non sa più parlare.
È la figura del cieco: non vede, del sordo: non sente.
È lo stanco che si lamenta.
Rasenta la disperazione.
È l’affamato d’unione con Dio.
È figura dell’illuso, del tradito, appare fallito.
È pauroso, timido, disorientato.
Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché un Dio che chiede aiuto!…
È il solo, il derelitto… Appare inutile, scartato, scioccato…».

E rivolgendosi direttamente a lui:

«Perché avessimo la Luce, ti venne meno la vista.
Perché avessimo l’unione, provasti la separazione dal Padre.
Perché possedessimo la sapienza, ti facesti “ignoranza”.
Perché ci rivestissimo dell’innocenza, ti facesti “peccato”.
Perché Dio fosse in noi, lo provasti lontano da Te».

«Ecco, io vengo per fare la tua volontà… Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Ebrei 10, 9-10)

Quell’offerta, ha spiegato Benedetto XVI ai parroci e ai sacerdoti della diocesi di Roma, 11 febbraio 2010, fa capire «che le lacrime di Cristo, l’angoscia del Monte degli Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua sofferenza non sono una cosa accanto alla sua grande missione. Proprio in questo modo Egli offre il sacrificio, fa il sacerdote… questa è la realizzazione del suo sacerdozio, così porta l’umanità a Dio, così si fa mediatore, così si fa sacerdote».

Sono ben altre, lo abbiamo sentito, le ultime parole che Luca mette in bocca a Gesù, parole di sereno affidamento: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Per Giovanni Gesù termina la vita con un solenne: «È compiuto». Nessuno dei due accenna al dramma testimoniato da Marco e Matteo. Qual è stata veramente l’ultima parola di Gesù?

Pur con formulazioni diverse ogni evangelista conosce il dramma dell’abbandono e insieme dell’affidamento al Padre. Quel grido finale, “Perché…?”, nasconde una consegna di sé a Dio, nonostante egli sembri lontano, assente. Gesù si rivolge comunque a lui, lo invoca, lo chiama: è una forma di fiducioso affidamento, gli dice: “Dio mio”.

Il grido riportato da Matteo e Marco coincide con l’affidamento e la consegna di sé al Padre, come in Luca; coincide con il pieno compimento del mandato ricevuto nell’obbedienza più perfetta e nella sovrabbondante fecondità, come in Giovanni.


sabato 27 marzo 2021

Perché mi hai abbandonato? / 1


Domenica delle Palme. Leggiamo il Vangelo di Marco che, come Matteo, riporta una sola parola di Gesù in croce, la più dura, la più difficile: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Una parola che squarcia il silenzio che ha visto Gesù oggetto di flagellazione e di sevizie, di duro cammino con la croce in spalla, di inchiodamento sul legno, di insulti e di beffe da parte di sacerdoti, scribi e passanti. Il cielo si è oscurato e per tre ore si è fatto buio su tutta la terra: la natura sembra essere la sola a condividere la tenebra che attanaglia il cuore dell’uomo crocifisso, sospeso tra cielo e terra.

Il suo spogliarsi della divinità al momento dell’incarnazione giunge adesso a compimento:

«non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini. (…)
fino alla morte
e a una morte di croce» (cf. Fil 2, 6-8) .

Dov’è la divinità in quell’uomo abbandonato da tutti, perfino da Dio?

Glielo hanno appena rinfacciato: «Salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce. (…) Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!» (Mt 27, 40-43).

Dunque non è vero che è Figlio di Dio, non è vero che Dio gli vuole bene, invano ha confidato in lui.

L’abbandono è stato progressivo, a cominciare da quello dei suoi discepoli. Quando nell’orto degli ulivi le guardie erano giunte per arrestarlo, «tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (26, 56). Sapeva che sarebbe accaduto: «Questa notte – aveva appena predetto – per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge”» (26, 30). Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega… Le donne che lo hanno seguito dalla Galilea devono rimanere lontano, lasciando, anche loro, il Maestro da solo (cf. 27, 55). Il suo popolo lo ha ripudiato, dai capi alla folla; a lui preferiscono Barabba e ripetono il grido di condanna: “Sia crocifisso!” (cf. 27, 20-29).

Tutti lo hanno abbandonato.

Ma adesso ad abbandonarlo sembra essere addirittura Dio, suo Padre.

Sì, Gesù è l’uomo maledetto, come asseriscono le Scritture: «Maledetto chi è appeso al legno» (Deut 21, 22-23). È stato espulso dalla città santa, come un impuro, un lebbroso. È stato crocifisso fuori delle mura, come fa notare la Lettera agli Ebrei, vedendovi in questo un “obbrobrio” (cf. 8, 12-13): è un disonore, una vergogna, meritevole del castigo di Dio.

Nessuno è con lui in quel momento, si è fatto buio. Non è la solitudine delle notti stellate quando in silenzio parlava col Padre. Sul Golgota ci sono soltanto le tenebre dell’odio, mentre continua lo scherno e la derisione.

Dio è scomparso, si è eclissato, come il sole. Il colloquio con lui, che fino ad allora era stato costante, è cessato. Il parlare di Gesù sembra un monologo, senza risposta: «Anche se grido e invoco aiuto, egli soffoca la mia preghiera» (Lamentazioni 3, 8). Sono sue le parole di Giobbe: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta» (30, 20); sue le parole dei Salmi: «Dio, non startene muto, non restare in silenzio e inerte, o Dio» (82, 3); «Dio della mia lode, non tacere» (109, 1); «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo», fino a ripetere: «Dio mio, Dio mio, perché anche tu mi hai abbandonato?» (22, 2-3).

Il Padre non risponde. Gesù si è sempre rivolto a lui chiamandolo “Padre, adesso per la prima volta lo chiama “Dio”, ed è lontano, tace.

Ancora una volta le Scritture sembrano interpretare quanto Gesù sta vivendo: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2). Al Figlio sembra che il Padre lo abbia dimenticato e proprio nel momento in cui più lo vorrebbe vicino a condividere il suo patire e la sua solitudine.

Gesù adesso somiglia a quei pazzi che parlano con se stessi ad alta voce. Come la sposa del Cantico, inutilmente egli cerca l’amato: «l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (3, 1). È vuoto e solitudine. È la notte. Soltanto la natura lo comprende e stende le tenebre attorno a lui.

venerdì 26 marzo 2021

Ho sete


 

Dopo aver compiuto il reciproco affidamento tra la madre e il discepolo, Gesù pronuncia la seconda “parola”: «Ho sete» (19, 28).

Dopo ore di torture e di crocifissione, la sete cocente attanaglia ogni condannato. Prima di ogni interpretazione, quella parola va accolta così come suona, in tutto il suo realismo, come l’hanno intesa quelli che gli erano attorno e che gli accostarono alla bocca una povera bevanda. Si avverte l’eco del Salmo 69: «Quando avevo sete mi hanno dato aceto» (v. 22).

Quanto sono lontano le parole rivolte alla Samaritana. Anche allora Gesù era stanco, sotto il sole del mezzogiorno. Anche allora chiese «Dammi da bere». Eppure le si rivelò come fonte di un’“acqua viva”, capace di suscitare sorgenti che avrebbero zampillato per la vita eterna (4, 5-16).

Nella sinagoga di Cafarnao di nuovo si era proposto come fonte d’acqua che disseta pienamente e per sempre (6, 35). L’ultimo giorno della festa della Capanne, ritto nel tempio, aveva nuovamente gridato: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva» (7, 37).

Adesso il calice che il Padre gli ha dato da bene lo ha assetato fino all’arsura (18, 11).

Colui da cui sgorgano torrenti d’acqua viva si trova “arido come un coccio”, con la lingua “incollata al palato” (cf. Sal 22, 16) e grida la sua sete.

Inizia allora, nella tradizione cristiana, l’interpretazione mistica, senza che venga cancellata la sete fisica che brucia le labbra e la gola del Crocifisso. Giovanni stesso aveva posto il primo legame stretto tra l’acqua e lo Spirito quando, dopo l’invito di Gesù ad andare a lui e bere, spiega le sue parole: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti» (7, 39).

Sant’Agostino, commentando il racconto della Samaritana, scrive: «in realtà, colui che chiedeva da bere, aveva sete della fede di quella donna». Lo stesso si potrà intendere nell’analoga richiesta sulla croce, da leggere come espressione simbolica del bisogno e dell’urgenza di salvezza che arde nel cuore del Salvatore.

Così l’ha intesa Madre Teresa di Calcutta il 10 settembre 1946 quando, sul treno che saliva verso Darjeeling, ai piedi dell’Himalaya, d’improvviso avvertiva una voce che le diceva: «Ho sete di te, del tuo amore». Era quella che definì la «chiamata nella chiamata». Era già suora ma su quel treno Cristo le chiedeva di lasciare tutto per servire i più poveri tra i poveri: «Saziare l’infinita sete di Gesù sulla Croce di amore per le anime, lavorando per la salvezza e la santificazione dei più poveri tra i poveri». Lo racconta lei stessa il 25 settembre 1993 alle sorelle, ai fratelli e ai preti della sua Congregazione: «È venuto il momento di parlare apertamente del dono che Dio mi ha dato il 10 settembre, per spiegare meglio che cosa significhi per me la sete di Gesù. Quella sete è per me qualcosa di tanto intimo che fino ad oggi ho preferito pudicamente non parlare di ciò che sentii quel 10 settembre... Le sue parole – “Ho sete” – vengono pronunciate in questo momento per voi... è Gesù stesso che vi dice “Ho sete”».

Forse in quella parola si può scorgere un altro aspetto dell’ultimo momento di Gesù. Potrebbe essere un modo per esprimere la medesima realtà trasmessa nei Vangeli di Marco e di Matteo, quando egli grida l’abbandono del Padre. Il suo legame con il Padre è lo Spirito Santo che ora sta per donare. Forse non avverte più quel legame, espresso dallo sgorgare dell’acqua zampillante: «Questo egli disse dello Spirito». Se «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» può essere letto come un risvolto della parola «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»: la stessa esperienza presentata in modo speculare, anche la parola «Ho sete», può essere la traduzione della medesima esperienza. Tutti e quattro gli Evangeli, pur con espressioni e modalità diversissime tra di loro, stanno dicendo il mistero che si consuma sulla croce nel rapporto tra le Tre divine Persone e nelle carni del Cristo.

Sono ormai pienamente sue le parole del Salmo: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (42, 2-3). Il suo «Ho sete» è l’eco della preghiera: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (63, 2).

È così che dal quel corpo bruciato, da quell’anima inaridita e vuota, possono uscire finalmente «sangue e acqua» (19, 34).

Ora si adempie la beatitudine di «quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6), in attesa del compimento nella Gerusalemme celeste quando una moltitudine immensa di persone, avvolte in vesti candide, «Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura alcune, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle finti delle acque della vita» (Ap 7, 16-17).

E noi, abbiamo sete di lui? «Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui», scriveva Gregorio Nazanzieno commentandole parole alla Samaritana: «Dammi da bere». L’invito di Isaia è ora rivolto ad ogni credente: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare venite a bere» (55, 1).

Dissetati, a nostra volta siamo chiamati a dissetare, seguendo l’invito di Gesù: «Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, non perderà la sua ricompensa» (Mt 10, 42); «Ho avuto sete e mi avete dato da bene (…). L’avrete fatto a me» (25, 35-40).

Gesù ha provato la sete perché noi fossimo dissetati: «Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22, 17).

giovedì 25 marzo 2021

Ecco tuo figlio, ecco tua madre / 2

Maria, ai piedi della croce, “stabat”, nella più alta solitudine. “Stabat”, come si deve stare davanti al dolore, senza diserzione.

Eppure il Vangelo ha un plurale: «Stavano presso la croce di Gesù…». Quel gruppo composto da Maria, le donne, il discepolo amato, è “attirato” da Colui che è “innalzato da terra”. Quel gruppo, di poche persone, è l’inizio e la profezia dei “tutti”: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12, 32).

Ai piedi della croce si sta come Chiesa, uniti, come un unico popolo di Dio, con Maria tra noi, la Madre, mai isolata dai suoi figli, solidale, fino a formare con essi l’unico corpo di Cristo. Il mistero della croce, che si riverbera in ogni dolore, lo si vive insieme e si sta assieme, uniti dalla Madre, di fronte al Cristo, per accoglierlo in pienezza e riviverne il mistero.

Maria è al centro della narrazione evangelica. Le parole di Gesù, come una formula di rivelazione, sono rivolta a lei, le conferiscono una missione tutta spirituale, costituendola in una nuova maternità.

Vi è tuttavia una seconda parte della parola pronunciata dall’alto della croce, speculare e quasi un riflesso della prima; è rivolta al discepolo: «Ecco tua Madre». Gesù deve renderlo consapevole della condizione nella quale l’ha introdotto: ha una nuova madre e, grazie alla madre, è entrato in una realtà nuova, è diventato “figlio”. Per essere tale deve riconoscere, accettare e accogliere la Madre: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (19, 27). Un’accoglienza fisica? La prese in casa con sé? O non piuttosto un’accoglienza ben più profonda, fatta di comunione di fede e d’amore che li rende inseparabile l’una all’altro.

Il discepolo – non ha nome perché in lui, discepolo perfetto, ogni altro discepolo possa riconoscersi – affidato alla madre di Gesù diventa fratello suo, è generato altro Gesù, come spiegava il grande Origene: «Non c’è alcun figlio di Maria, se non Gesù… Egli dice a sua madre: “Ecco il tuo figlio” (e non già: “Ecco, anche questo è tuo figlio”), ciò equivale a dire: “Questi è Gesù che tu hai partorito”. Infatti chiunque è perfetto “non vive più”, ma in lui “vive Cristo”; e poiché in lui vive Cristo, quando si parla di lui a Maria si dice: “Ecco il tuo figlio”, cioè Cristo».

Maria diventa Madre della Chiesa e di tutti i credenti resi altri Cristo, e il discepolo membro della Chiesa, altro Cristo. Inizia un cammino di reciprocità. Maria è affidata al discepolo così come il discepolo è affidato a Maria.

Ella deve imparare a riconoscere il figlio suo in tutte le persone che le sono affidate, così come ogni discepolo deve imparare a riconoscere in ogni persona che incontra suo fratello e sua sorella.

Come Maria accoglie il discepolo, il discepolo riconosce la maternità di Maria nei suoi confronti e la accoglie come “sua”, come madre, come una persona che gli appartiene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé». Ogni discepolo diventa vicario dell’amore di Gesù verso la Madre, espresso pienamente nelle parole programmatiche del pontificato di Giovanni Paolo II: “Totus tuus”. Accogliere Maria è accogliere Gesù, in risposta alla richiesta che il Signore crocifisso rivolge dall’alto del suo trono regale, è adempiere il suo testamento.

Accogliere Maria come Madre è accogliere tutti come fratelli e sorelle, è adempiere l’altro testamento enunciato nel cenacolo: «Amatevi l’un l’altro come io vi ho amati» (15, 12).

mercoledì 24 marzo 2021

Ecco tuo figlio, ecco tua madre / 1

Dal Vangelo di Luca passiamo a quello di Giovanni, sempre nell’ascolto delle ultime parole del Crocifisso.

Delle tre parole che riporta il Vangelo di Giovanni, la prima è rivolta alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!» (19, 26).

“Donna”. Così l’aveva chiamata la prima volta che Maria, sua madre, appare nel Vangelo, alle nozze di Cana (2, 4). Allora, ella anticipava quella sua funzione attiva e materna che, ai piedi della croce viene pienamente proclamata dal Figlio.

“Donna”, la chiama adesso quando ella appare per la seconda e l’ultima volta. Non ci sono altre presenze di Maria in questo Vangelo: è al primo grande segno, quando Gesù cambia l’acqua in vino, e all’ultimo, quando opera la trasformazione di cui la prima era segno: la divinizzazione dell’umanità. In entrami i momenti Maria è là, non solo come testimone, ma a lui associata, come mediatrice.

“Donna”. In questa parola appare tutta la grandezza e la regalità nella quale Gesù vede sua madre. La prima donna, Eva, è la madre dei viventi, Maria, la “donna”, la Nuova Eva, è la madre dei credenti.

Quello di Gesù è un gesto di profondo affetto filiale. È vero, i figli non dovrebbero morire prima delle madri. Il mio antico professore, Mauro Làconi, ci insegnava: «La delicata scena del figlio morente che dedica il suo ultimo pensiero alla madre, e l’affida all’affezionato discepolo, rimane un prezioso documento di umanità e di bellezza morale. Documento della totale umanità di Gesù fra i più convincenti e toccanti, diventa anche documento convincente della realtà dell’Incarnazione. Giovanni è tutto concentrato nel rivelare la misteriosa trascendenza di Gesù, anche in croce; eppure non finisce mai di sorprendere con la sua insistenza, in certo senso più particolareggiata di quella dei sinottici, sulla vera umanità di Gesù».

Il racconto dell’affidamento di Maria al discepolo è un attestato dell’amore di Gesù per lei. Il figlio, che ha amato fino alla fine i suoi, ama fino alla fine anche la madre vivendo con interessa il comando: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20, 12). È anche il riconoscimento della grandezza della “madre di Gesù”, come è chiamata, per ben cinque volte, in così poche righe. È per lei il titolo di gloria. 

Gesù non vuol lasciare la mamma, già vedova, sola e l’affida al discepolo che egli ama. Tuttavia accanto a lei c’è già la sorella e altre donne di casa. La famiglia antica, specie in Oriente, era sempre numerosa e Maria non sarebbe comunque rimasta mai stata sola.

L’intento di Gesù è ben più alto, va al di là della compassione e della cura filiale, pur presente. Con le parole dell’affidamento dona a sua madre un’altra famiglia, quella che egli sta generando in quel momento, e che genera insieme a lei: la Chiesa. Il discepolo amato – che la tradizione identificherà con l’apostolo Giovanni – è l’inizio della nuova famiglia di Gesù e di Maria. Ad essa aveva fatto cenno nelle parole riportate dai Vangeli sinottici quando, rispondendo a chi gli parlava di sua madre e dei suoi fratelli, il Maestro aveva affermato: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Quindi, «girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli!”» (Mc 3, 33-34).

Maria diventa la Madre dei credenti, preziosa eredità che il Figlio affida alla Madre.

La tradizione ha ritagliato da ogni contorno la presenza di Maria ai piedi della croce: “stabat”.

Stabat Mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa,
dum pendebat Fílius,

canta la laude medievale, attribuita a Jacopone da Todi e musicata dai più grandi compositori.

“Stabat”, al singolare, quasi a ritrarre la sua solitudine. La solitudine di chi ha nel figlio il suo tutto e si vede privato di esso. Non soltanto perché gliel’hanno strappato dall’abbraccio e l’hanno inchiodato sulla croce dove sta morendo. Soprattutto perché il figlio stesso si sottrae a lei, la stacca da sé e la consegna a un altro. Lei, madre del Figlio di Dio, si ritrova come figlio un uomo qualunque, e dunque come una madre qualunque. In questo distacco il segreto della sua corredenzione, che rivive in sé il distacco che il Figlio sta vivendo nei confronti del Padre. Chi più di lei vive condivide la passione del suo Figlio in una reale com-passione? Come nessun altro può ripetere le parole di Paolo: «Io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna… Se moriamo con lui, con lui anche vivremo» (2 Tim 2, 10-11). Nel suo abbandono Gesù genera la Chiesa, e nella sua desolazione Maria diventa Madre di quella Chiesa che genera con lui perché fatta altro Gesù.

Chiara Lubich, affascinata da questo mistero di Maria, la comprende nella sua alta missione: «Quando la Mamma nella Desolazione, ai piedi della Croce (“Donna, ecco tuo Figlio...”), perdette l’incarico divino della Maternità divino-umana di Gesù e divenne – con la discesa dello Spirito Santo – Gesù, cambiò la sua carne immacolata in carne divina: divenne Gesù nell’anima e nel corpo. Divenne vera Figlia di Dio, Figlia del suo Figlio, di Gesù Abbandonato cui aveva dato carne immacolata. E fu al pari di Gesù e potette presiedere il Cenacolo e divenire Gesù fra gli Apostoli che erano pure, per il sacrificio di Lei, divenuti Gesù: per il sacrificio di Lei e quindi per aver dato Lei Gesù ed averne ricevuto cento: Gesù in Sé e Gesù in essi. Quindi gli Apostoli erano immacolatizzati cioè avevano carne di Maria. Erano figli di Lei nell’anima e nel corpo».

martedì 23 marzo 2021

Dante, Paolo VI, Ravasi


25 marzo: Giornata di Dante, nei 700 anni dalla morte. 

Il 25 marzo del 1300 si sarebbe trovato nella selva oscura, da dove inizia il suo straordinario viaggio.

Il mio piccolo omaggio per questo centenario è un articolo pubblicato sulla rivista dell’Editrice Ancora di Milano (”Vita Consacrata”): Vergine madre, figlia del tuo figlio. La preghiera di Bernardo nel Paradiso di Dante. Qualcosa ho messo sul blog.

Ho scelto di commentare la preghiera che san Bernardo di Chiaravalle rivolge alla Vergine nell’ultimo canto del Paradiso, perché è stata accolta, nella sua prima parte, come inno della Liturgia delle ore. L’Ufficio divino della Chiesa italiana non recepisce nessun’altra poesia del vasto repertorio della nostra letteratura. Non, ad esempio, la preghiera alla Vergine con cui termina il Canzoniere di Petrarca, non uno degli Inni sacri di Manzoni, non poesie più recenti, come “Cristo, pensoso palpito” di Ungaretti. Quei versi di Dante meritano di essere pregati regolarmente per la grandezza dei temi trattati, «per la purezza dell'ispirazione, per il vigore congiunto a squisita eleganza», come scrive Paolo VI Lettera apostolica Altissimus cantus del 7 Dicembre 1965, per il settimo centenario della nascita del Poeta.

Sì, Palo VI ha scritto una lettera per quel centenario. In essa invitava a leggere Dante «non precipitevoli e frettolosi, ma con mente penetrante e con meditazione amorosa». Lo chiama signore dell’altissimo canto”,  e lo colloca tra i grandi innografi cristiani: «Nel maestoso coro dei poeti cristiani, dove si distinguono Prudenzio, S. Efrem Siro, S. Gregorio Nazianzeno, S. Ambrogio Vescovo di Milano, S. Paolino da Nola, Venanzio Fortunato, S. Andrea di Creta, Romano il Melode, Adamo di S. Vittore, S. Giovanni della Croce e altri — passarli in rassegna tutti sarebbe molto lungo — l’aurea cetra, l’armoniosa lira di Dante risuona di mirabili tocchi, sovrana per la grandezza dei temi trattati, per la purezza dell'ispirazione, per il vigore congiunto a squisita eleganza» (Ibid.). (Anche Benedetto XV, in occasione del sesto centenario della morte di Dante Alighieri, gli aveva dedicato una Enciclica, In praeclaram summorum).


Dante, Paolo VI… e Ravasi? Certo, un uomo di cultura come Ravasi ha  molto a che fare con la Divina Commedia, ma qui lo cito per ben altra ragione. Di Ravasi ho appena visto un breve intervento su Dante, in un video: “Dante è vivo. A 700 anni dalla morte”. https://www.youtube.com/watch?v=eMeqW5KwM30

Mentre lo ascoltavo – dice sempre cosa interessanti – lo sguardo mi è andato sulla sua biblioteca che appare alle sue spalle e… tra i libri spicca (almeno per me!) il Dizionario dei valori oblati! nella prima edizione francese che ho curato… Non è la Divina Commedia, ma insomma…

lunedì 22 marzo 2021

Giovanni Santolini: dare speranza


 Il 23 marzo 1997 era la Domenica delle Palme. Un incidente e p. Giovanni Santolini entrò con il Signore nella Gerusalemme celeste, cantando: “Osanna al figlio di David”.

Pochi giorni prima scrisse una lettera alla famiglia. Da allora nulla è cambiato, avrebbe potuto scriverla ieri… Ma come allora Giovanni continua a seminare speranza.


Qui in Zaire siamo sempre in una situazione di grande miseria a tutti i livelli e quello che corrode di più è il clima di insicurezza e di mancanza di avvenire che si respira. Si vive veramente alla giornata, non sapendo quello che si farà domani, che cosa si mangerà, come si potrà vivere e che cosa succederà. Purtroppo la gente non ha più futuro, nel senso che veramente la situazione è talmente incerta che: “Intanto cerchiamo di vivere oggi”. 

Quello che io cerco di fare e che mi sono prefisso come compito in questo momento è di dare speranza. Credo che sia importante per qualcuno che non ha futuro, che deve combattere ogni giorno per arrivare a mettere qualcosa nello stomaco, che vede i suoi figli e la sua famiglia disgregarsi e spegnersi nel vuoto..., credo che sia importante avere una speranza che questa situazione non durerà all’infinito. Avere la certezza che ci sarà un cielo sereno, un sorriso sincero che può sbocciare sulle labbra di chi ami, la certezza che esiste un mondo nel quale puoi fare dei programmi e realizzarli, puoi veder crescere quello che hai seminato senza che sia distrutto e rubato ogni volta. Ecco quello che cerco di fare, ecco il senso della mia presenza qui in questi momenti. 


Se dovessi partire, se dovessi dare ascolto alla paura che c’è in me, sarebbe come se tirassi una tenda sulla finestrella che Dio vuole aprire e negassi il misero raggio di speranza che passa attraverso la mia piccola presenza. 
Ma anche voi siete importanti, prima di tutto per me per sostenermi, perché il fatto che ci siete e mi volete bene, mi dà la forza di superare lo scoraggiamento e lo slancio per andare avanti. Siete anche luce di speranza e di fiducia per il mio popolo, perché sanno che non sono abbandonati, che dietro di me ci sono tutte queste persone, anonime è vero, ma reali e concrete, che li amano attraverso di me e sulle quali possono sempre contare. 
Ecco la ragione del mio “grazie”: continuate ad essere segno di speranza per la mia gente, per tutti quelli che non hanno un domani e vedrete che questo “domani” lo costruiamo insieme. E anche voi contate su di me, per quello che posso essere di speranza anche per voi».

domenica 21 marzo 2021

È passato dalla nostra parte

Nell’introduzione al mio libro Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore, scrivevo: “Le omelie si preparano, ma non si scrivono: si creano grazie all’unità con chi ascolta…”.

Ogni sabato scrivo un pensiero sul vangelo della domenica, ma è raro che faccia delle omelie: sono senza uditorio! In questo periodo, grazie al virus, posso invece celebrare ogni domenica in parrocchia, alla messa delle otto. Poche persone, abbastanza anziane, quanto basta perché quello che scrivo la sera prima venga superato dall’impatto con loro.

Come questa mattina. Ho spiegato perché i greci chiamano Filippo e gli chiedono di vedere Gesù. Gesù è nella parte del tempio riservata ai giudei, dove loro, greci, non possono mettere piede pena la morte: devono rimanere nel “cortile dei gentili”. Filippo ha un nome greco e certamente i greci si sono accorti che parla la loro lingua, chi dunque meglio di lui poteva fare da intermediario con Gesù? Anche Andrea, a cui Filippo si rivolge, ha un nome greco…

Gesù allora supera la barriera e viene dalla loro parte. È il suo grande passo, è passato dalla nostra parte per introdurci nel tempio vero, che è lui stesso! 

Chi vuole infatti servirlo deve seguirlo nella realtà nuova a cui sta dando vita. Invita così anche noi a fare come lui, a perdere la nostra identità per entrare nel mondo dell’altro. È un po’ un morire, come accade al chicco di grano, ma frutta tantissimo!

sabato 20 marzo 2021

Quel chicco di grano che muore per dar vita


“Luci d’inverno”. Non è il titolo del film di Ingmar Bergman,  ma della foto che ho appena scattato l’ultimo giorno d’inverno. 

Inizia ora la primavera, e proprio in questo giorno leggiamo nel Vangelo la similitudine del chicco di grano che, caduto in terra, produce molto frutto.

Con quanta lucidità Gesù legge la sua morte. Il fatto che arrivino dei pagani e che vogliano vederlo è il segno che l’ora è giunta. Il suo messaggio è pronto per essere accolto da tutti.

Giovanni anticipa il racconto dell’orto degli olivi, quando il Padre chiederà a Gesù di bere il calice della passione. Come là più tardi, anche adesso Gesù è turbato, come lo è ogni uomo davanti al dolore e alla morte. Ma sa anche che la sua vita è un dono per tutti e proprio donandola porterà frutto, si moltiplicherà e rimarrà per sempre. Lo sa che per noi è mistero grande, troppo grande, incomprensibile, difficile da accettare. Chi non difenderebbe la propria vita con tutte le proprie forze?

Per questo racconta una “parabola”, la più breve e la più bella di tutte: “Se il chicco di grano…”. Non ha bisogno di commento, chiara fino all’evidenza. La racconta per sé e per noi.

Egli si fida del Padre, difatti il Padre lo conferma: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”. Dobbiamo fidarci anche noi, infatti quella parola del Padre “non è venuta per me, ma per voi”. 

Se Gesù ha percorso la via del dono totale di sé, fidandosi del Padre, pronto a fare qualunque cosa gli avrebbe chiesto perché sapeva che Dio è Amore, possiamo seguirlo: “dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Anche noi crediamo che Dio è Amore e tutto quello che ci chiede, quanto quanto possa essere doloroso, è per il nostro bene e per il bene dei “greci”, di quelli che sono attorno a noi…

venerdì 19 marzo 2021

Nelle tue mani consegno il mio spirito / 2


“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Ci si aspetterebbe che una parola così piena di confidenza fosse sussurrata. Invece Luca riferisce che Gesù la gridò: «gridando a gran voce, disse…». È l’eco del grido riportato da Marco e Luca? Il termine greco è diverso, non più boân (urlare), ma pônein (gridare), eppure sembra richiamare quell’urlo, che Luca pur doveva conoscere, ed è sicuramente per questo che anch’egli fa terminare la vita di Gesù con un grido, anche se ora le parole sono piene di fiducia.

Ma è poi tanto diverso il “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dal “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”? Forse ambedue esprimono, pur in maniera diversa, la medesima realtà e con esse si compie la missione di Gesù.

Le parole del salmo 31 ripetute da Gesù erano la preghiera che ogni madre ebrea insegnava al figlio come ultime parole prima di addormentarsi. Anche a Gesù deve averla insegnata sua madre, Maria, e anch’egli, prima di “addormentarsi”, la recita per l’ultima volta. Gesù muore come un bambino che si addormenta tra le braccia del padre.

Lo stesso affidamento lo fa il primo martire, Stefano, che adesso si rivolge direttamente a Gesù: «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (Atti 7, 59).

Come lui tanti altri martiri. Negli Atti del martirio di Pionio si legge, ad esempio: «Quando ormai la fiamma era divampata alta, con volto ridente pronunciò l’ultimo amen e disse: “Signore, accogli la mia anima”; e, quasi gli colasse di bocca senza suono né pena, esalò l’estremo respiro e quale pegno emise lo spirito al Padre, che ha promesso di custodire ogni sangue innocente e ogni anima condannata ingiustamente» (21, 9).

Ritroviamo le stesse parole sulle labbra di san Venceslao di Boemia, di san Bernardo di Chiaravalle, mi migliaia di altri uomini e donne che muoiono nella pace del Signore, sia nel martirio che nella morte non violenta… Il Maestro ha fatto scuola! ed ha trovato innumerevoli discepoli.

È la medesima invocazione che la Chiesa insegna a ripetere a ogni cristiano, nella Compieta, come ultima preghiera della sera: «Signore, nelle tue mani affido il mio spirito».

Ogni sera ci addormentiamo con queste parole. Vorremmo che fosse anche la nostra ultima preghiera.

giovedì 18 marzo 2021

I verbi di san Giuseppe


 

Sulle parole di Gesù: non c’è biblioteca che possa contenere tutto quello che si è scritto in merito. Non mancano poi i libri sulle “sette parole di Maria”.

Sulle parole di san Giuseppe… nessuna parola! Perché non è mai stata registrata una sua parola! In compenso i Vangeli di Matteo e Luca hanno molti verbi riguardanti la sua azione. Mi sono divertito a raccoglierli.

La prima sorpresa è la profonda consonanza con Maria. Davvero marito e moglie erano legatissimi.

Compiono le stesse azioni, segno di una vita sempre insieme: portarono Gesù, introdussero il bambino, compirono le prescrizioni, ritornarono, salirono, non si accorsero, fecero una giornata di cammino, andavano a cercare Gesù, ritornarono, trovarono, cercavano, Gesù stava loro sottomesso.

Sono poi capaci dei medesimi sentimenti, che condividono e li trovano all’unisono, indice di un’intesa profondissima tra di loro: si meravigliarono, erano meravigliati, si stupirono, sono angosciati, non capirono…

Poi ci sono decisioni e gesti che Giuseppe compie di sua iniziativa, come capo famiglia, pieno di responsabilità: decise, fece, prese con sé, salì, si levò, prese il bambino e la madre sua, si ritirò in Egitto, vi rimase, si levò, prese il bambino, temette, si ritirò, venne.

Un santo nemmeno di poche parole. Un santo di nessuna parola, Ma di sentimenti profondi e fatti concreti. Ha tanto da insegnare san Giuseppe: più fatti che parole!

mercoledì 17 marzo 2021

Nelle tue mani consegno il mio spirito / 1


 

Com’è diversa la conclusione della vita di Gesù, nel racconto di Luca, rispetto a quella di Matteo e Marco. Grida ancora a gran voce, ma questa volta non è un interrogativo – “Perché mi hai abbandonato?” –, è una preghiera fiduciosa: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23, 46). Al salmo 22 subentra ora il riferimento al salmo 31:

In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso;
difendimi per la tua giustizia. (…)
Perché mia rupe e mia fortezza tu sei,
per il tuo nome guidami e conducimi.
Scioglimi dal laccio che mi hanno teso,
perché sei tu la mia difesa.
Alle tue mani affido il mio spirito;
tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele. (…)
Io confido in te, Signore,
dico: “Tu sei il mio Dio,
i miei giorni sono nelle tue mani (2-6.15).

«La vita di Gesù – rileva Gerard Rossé – non finisce con un tragico punto interrogativo, ma nella serena convinzione di un compimento». Egli accetta pienamente il volere del Padre, come già aveva espresso nell’orto degli ulivi: «Padre… non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (23, 42).

Gesù muore con una preghiera, come ha sempre vissuto in costante preghiera.

Muore con sulle labbra la parola “Padre”. Era stata la prima parola che lo abbiamo sentito pronunciare: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2, 49), ed ora è la sua ultima parola: “Padre”. Prega rivolgendosi a Dio come aveva sempre fatto: «Ti rendo lode, o Padre…» (10, 21); «Padre, se vuoi…» (22, 42); «Padre, perdona loro…» (23, 34). Dall’inizio alla fine della vita, ciò che guida Gesù, nel suo parlare e nel suo agire, è il rapporto particolare e unico con il Padre.

Si affida alle sue “mani”: mani forti che sanno proteggere e difendere; mani dolci, materni, che sanno accogliere, accarezzare…

Mi è sempre piaciuto soffermarmi sulle “posizioni” delle mani di Dio.

Tiene la mano sinistra poggiata sulla destra. Sulla sinistra ha scritto il nome di ognuno di noi, in maniera da averci sempre sotto gli occhi, sempre presenti nel suo amore: «Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani» (Isaia 49, 16).

Tiene la mano destra poggiata sopra sulla mano sinistra, a protezione. Ognuno di noi è custodito nell’incavo della mano, proprio come nella scultura del 1902 di Auguste Rodin che mostra una grande mano che trattiene un blocco informe dal quale emergono due figure umane assopite. Isaia ci dice che Dio ha nascosto il suo popolo sotto l’ombra della sua mano (51, 16), in modo che sia tranquillo, al sicuro, senza temere pericolo alcuno. «La mia mano è il suo sostegno – dice di Davide il Signore – il mio braccio è la sua forza» (Salmo 89, 22).

La terza posizione è quella del vasaio: ci tiene tra le sue mani per lavoraci e plasmarci costantemente: «Come l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele» (Geremia 18, 6).

Tiene nella mano destra la nostra mano sinistra, come fa un padre col suo bambino, per guidarci con sicurezza: «Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra» (Salmo 39, 9-10); «Io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra» (Salmo 73, 23).

“Mettersi nelle mani di qualcuno”, “mettersi in buone mani”, sono anche oggi espressioni correnti che esprimono fiducia, soprattutto quando si è in difficoltà, non ci si sente all’altezza delle situazioni e si ha bisogno di un aiuto, di qualcuno che sappia prendersi cura di noi.

Per Gesù è molto di più: il suo affido esprime la piena consapevolezza della figliolanza divina: si abbandona con fiducia all’amore del Padre, a lui si “consegna”. Il salmo 31 esprimeva la totale fiducia dell’orante: è sicuro che Dio l’avrebbe liberato dalla morte. Sulla bocca di Gesù acquista un accento nuovo: egli accetta con piena consapevolezza la propria morte come compimento del volere del Padre, rimettendosi completamente a lui, quale Figlio obbediente, nella certezza della risurrezione.

Gli affida il proprio “spirito”, ossia ciò che ha di più prezioso, ciò che lo rende pienamente se stesso, il tutto di sé.

martedì 16 marzo 2021

Gli Italiani: Auguri Italia


 

Negli interventi che sento alla radio mi fa sorridere (diciamo così) l’appellativo “Gli Italiani” che torna continuamente quando si dibattono le questioni nazionali: “Gli Italiani pensano, fanno, dicono…”. Ogni volta sembra che a parlare sia un Austriaco o un Boliviano o un Congolese. Basta stare un attimo attenti e ti accorgi che invece è proprio un Italiano, ma non dice mai: “Noi Italiani…”. Gli Italiani che fanno, che dicono, che non fanno e non dicono sono sempre gli altri: nessuno si riconosce in questa brutta razza che siamo noi Italiani.

Non sappiamo neppure come chiamare questa nostra Italia. Guai a chiamarla Italia, mera entità geografica? meno ancora Patria: sei tacciato di fascista. Eppure come facciamo a cantare “Fratelli d’Italia” (Sorelle d’Italia!) se non abbiamo in comune la “terra dei padri”? Perché in effetti questo vuol dire Patria. Parola che poi ha il pregio di essere femminile e quindi la si potrebbe intendere anche come “terra delle madri”. Se non abbiamo padri e madri comuni come possiamo essere fratelli e sorelle?

Allora parliamo del Paese, che nella sua etimologia indica i paletti che segnano i confini: siamo confinati!

La Repubblica. Designiamo la nostra identità servendoci di una forma di governo? E prima della repubblica l’Italia non c’era?

La Nazione. La nazione indica, etimologicamente, quanti sono “nati” in un determinato territorio. Ecco che il nuovo Segretario del PD pone come priorità l’ius soli, attirandosi il biasimo di quello della Lega. Sorge così il problema su chi sono i "veri" Italiani? Enea, all’origine della nostra stirpe, era un emigrato dalla Turchia. Siamo suoi discendenti, come siamo discendenti di Goti, Visigoti, Svevi, Spagnoli…

17 marzo 2021: sono 160 anni dall’unità d’Italia (anche se mancava ancora Roma, e dico poco!), festa istituita appena nel 2012, a ricordo della proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia: era il 17 marzo 1861 (si poteva scegliere di meglio).

L’unità d’Italia, una parola! Il Popolo italiano è un insieme di popoli, dai veneti ai calabresi, dai sardi ai toscani, di etnie venuti dalle più diverse parti del mondo, che lungo i secoli hanno imparato a vivere insieme, unificati da una lingua, dallo scambio delle culture, dal paesaggio, dai monumenti, dalle storie… Un Popolo in continua mutazione, in crescita. 

Allora: auguri a “Noi Italiani…”. Auguri Italia!