sabato 30 novembre 2019

Che almeno fiorisca il desiderio di incontrarlo


«Non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata» (Mt 24, 37-44).

Oggi inizia l’anno liturgico, parabola del cammino della nostra vita e di quella della storia di tutti i tempi. Subito il Vangelo ci indica la meta verso la quale stiamo andando.
Fa impressione come Gesù descrive lo scorrere della vita prima del diluvio: tutto andava avanti con normalità, senza tuttavia rendersi conto del senso ultimo delle cose. Persi nel mille occupazioni “non si accorsero di nulla”. Mancava la prospettiva, un senso alla vita.
Mi pare sia la tragedia di oggi. Un vivere alla giornata senza un vero perché.
Eppure siamo nell’esistenza per incontrarci con Dio.
La fine della vita di ognuno di noi non è la morte, ma “la venuta del Figlio dell’uomo”.
Si vive nell’attesa, per incontrarlo.
Perché egli viene comunque e subito si decide chi va da una parte e chi dall’altra: “uno verrà portato via e l’altro lasciato; una verrà portata via e l’altra lasciata”. Cinque vergini sagge entrano nella sala del banchetto, altre cinque, stolte, rimangono fuori. Alcuni alla sua destra “benedetti”, altri alla sua sinistra “maledetti”…
Non possiamo vivere senza accorgerci di nulla!

Il Vangelo di oggi ci ricorda che Egli verrà presto e che la nostra vita ha senso se orientata verso di Lui. 
Spesso ci lasciamo distrarre o perché eccitati dalle gioie e dalle cose belle che stiamo vivendo, o perché scoraggiati dalle prove e dal male che è in noi e che ci circonda.
Con le sue parole Gesù oggi ci sveglia, ci scuote dal nostro torpore, ci invita a rimanere attenti a quello che sta per accadere, così da essere pronti quando arriva.
Pronti forse non lo saremo mai. Che almeno fiorisca il desiderio di incontrarlo, l’attesa trepida e impaziente, l’adempimento di quanto ci chiede di compiere, momento per momento, la preghiera che, fin dal primo secolo, fioriva sulle labbra dei cristiani: “Vieni, Signore Gesù”.

Vieni, Signore Gesù,
Alfa e Omega,
Primo e Ultimo,
Principio e Fine.
Vieni, Signore Gesù,
speranza sempre viva,
attesa inconsapevole
di ogni creatura.
Sì, vieni presto.

venerdì 29 novembre 2019

Una famiglia grande, che si vuol bene




Ogni mattina mi giunge il passaparola. Mi illumina la giornata. Però poi a volte lo dimentico, o mi risulta difficile metterlo in pratica.
Oggi no, è stato facilissimo ricordarlo e viverlo: “Essere grati a Dio dei suoi doni per noi”.
Mi hanno aiutato tantissime persone, da tutto il mondo, facendomi gli auguri di compleanno. Dal Canada, Brasile, Messico, Guinea Bissau, perfino da Agliana, Mugello...
Come fanno a ricordarselo? Io sono negato per i compleanni. Dico sempre a tutti: Per favore, quando è il tuo compleanno dimmelo, così ti faccio gli auguri… E qualcuno lo fa!

Grato a Dio dunque per la vita. 
Ma anche per chi me l’ha trasmessa. 
E grato per tutte le persone che mi vogliono bene, nonostante tutto.
Che bello avere una famiglia grande, che si vuol bene…

giovedì 28 novembre 2019

Inizio Novena dell’Immacolata

Sant'Eugenio inaugura la colonna dell'Immacolata a Marsiglia,
8 dicembre 1857

Il 3 ottobre 1855 a Marsiglia padre Lagier pubblicò un libretto con la novena dell’Immacolata (la prima edizione era del 1849). Nel dare l’imprimatur sant’Eugenio scrisse che era «per la nostra diocesi e per tutta la Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata».
L’anno precedente c’era stata la proclamazione del dogma dell’Immacolata. Poco prima sant’Eugenio aveva scritto a Pio IX due lettere raccomandandogli di non lascarsi influenzare da coloro che non avrebbero voluto la definizione dogmatica, ma piuttosto una semplice commemorazione di Maria: «Vi domando beatissimo Padre, in ginocchio, di essere esplicito in quel che proclamerete. Soltanto seguendo le vostre ispirazioni, che sono quelle dello Spirito Santo, impedirete che la Vergine SS.ma perda credito nella mentalità dei fedeli, cosa che accadrebbe dopo una decisione indiretta o incompleta» (5 dicembre 1854).

Aveva 72 anni. Si sentiva tutto orgoglioso sia come Pastore della Chiesa di Marsiglia, sia come figlio di Maria, sia come Padre della Congregazione degli Oblati di Maria Immacolata: «Non pretendo di mettermi innanzi, ma considero mio dovere fare tutto il possibile per contribuire in parte alla gloria che deve ridondare sulla Madonna SS.ma da questa definizione, se avverrà con le modalità che il S. Padre ha sempre desiderato… Non si saprebbe mai fare troppo in onore della Santa Vergine, purché il suo culto sia esteso e praticato nel limite dovuto a una Creatura per grande ed elevata che sia» (Diario, 5 dicembre 1854).

Indescrivibile la sua gioia al momento della proclamazione, era come un bambino alla festa della mamma. Quell’Otto dicembre a Roma splendeva il sole, contrariamente alle previsioni del giorno prima:
Diario, 7 dicembre 1854: «Pioggia torrenziale per tutta la giornata e alle undici di sera piove ancora: tempo chiuso in ogni direzione: domani sarà bel tempo… Domani farà bello»;
Diario, 8 dicembre 1854: «Non l’avevo detto? La mia fiducia in Maria Immacolata poteva andare delusa?… il tempo è magnifico».

Due mesi dopo invitò i fedeli «ad aderire vivamente a questa verità divina (il dogma dell’Immacolata Concezione), a ispirarsi ai sentimenti della Chiesa per onorare, invocare e celebrare degnamente la Vergine concepita senza peccato e sforzarsi di rialzarsi dalle loro cadute e conservarsi nella purezza di vita, perseverando nella preghiera affidata all’intercessione di Colei che i santi Padri hanno chiamato Corredentrice del genere umano» (Lettera pastorale sulla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione e per la Quaresima, 8 febbraio 1855).

Più tadi fece erigere a Marsiglia la colonna con la statua dell’Immacolata Concezione.

Ricorderà sempre ai giovani Oblati quale «fortuna vi è toccata di consacrarvi a Dio nella Congregazione che ha Maria per Madre… e militare sotto il vessillo di Maria Immacolata. È una grazia di predilezione per la terra e una garanzia di predestinazione per la vita eterna» (Ai novizi 24 luglio 1858; a P. Bovis 29 ottobre 1859).


mercoledì 27 novembre 2019

Grazie per il blog


La settimana scorsa ho scritto sul blog un pensiero sulla tristezza e la gioia:

Mi sono giunti due commenti:
- “Grazie per il blog di ieri sera, ero triste per via dei miei sbagli quando ho letto che Lui ha preso su di sé tutto mi sono ripresa e mi sono addormentata serena”.
- “Grazie del tuo blog del 19 novembre sulla tristezza e gioia. L'ho inoltrato a mia figlia ed oggi mi ha confessato che l'ha aiutata molto a riprendersi da una crisi, visto che sta vivendo ora la sua adolescenza.  Grazie ancora. Ha fatto tanto bene anche a me”.

Mi bastano simili semplici attestati per incoraggiarmi a condividere i miei piccoli pensieri quotidiani (sono ormai 3568).

martedì 26 novembre 2019

Il quinto evangelio



“Tu sai che coi Vangeli pecchiamo sempre d’omissione, che bisogna averli riletti per poter dire d’averli letti”.
Questa sentenza che Mario Pomilio affida a Paolo Settimio Secondo, monaco nel cenobio di Vivario, in Calabria, vale per tanti altri libri.
A cominciare proprio dal capolavoro di Pomilio, Il quinto evangelio.
L’aveva letto quando apparve nel 1975, ma poter dire d’averlo letto… bisogna che lo rilegga. Ed è quello che sto facendo in questi giorni.
È l’antica storia della ricerca appassionata di ciò che si brama trovare, ma che sempre sfugge ad ogni ricerca, come l’arca perduta, il sacro graal… Qui si tratta del codice del Quinto Vangelo, di cui appaiono tracce disseminate qua e là, ma su cui non si riesce a mettere mano.
È un libro che non si trova perché non c’è, ma che si vuole che esista perché – come scrive l’immaginario professore Peter Bergin, anima del romanzo di Pomilio – esso rappresenta “una delle costanti dell’anima cristiana, il suo continuo esitare tra una verità rivelata e l’attesa d’una verità che debba ancora manifestarsi; o, se preferisce, tra la fedeltà alle fonti della Parola rivelata e quell’impulso per il quale ogni ritorno alle fonti si risolve, non so come, in uno scatto in avanti, in una crescita del Messaggio. Perché il quinto vangelo, leggenda o realtà, ha rappresentato in ogni caso il versante della speranza, è la Parola che si rinnova, la verità in espansione, il bisogno che prova ciascuna generazione di rintracciare – o d’elaborare – da capo un suo vangelo… è lo Spirito che si cerca”.

Il quinto vangelo! È quello che si scrive ogni giorno, è il vangelo sempre nuovo, che diventa vita.
“Ciò che facciamo in parole e in opera
- leggiamo, secondo la finzione letteraria, in un anonimo fiammingo del XV secolo –
è l’evangelo che si sta scrivendo”.
E nel Liber imaginum di Gioacchino da Fiore: “Il quinto vangelo è l’Evangelo eterno che costoro stanno scrivendo e non cesserà d’essere scritto fino all’ultima rivelazione”.
Riscrivere il Vangelo con la vita: l’anelito d’ogni generazione cristiana.


lunedì 25 novembre 2019

Dialogo segreto


Ho iniziato il corso al Claretianum sulla Regola e le regole.
È stata l’occasione per riprendere alcuni passaggi della lettera di Girolamo alla giovane Eustochio, tra cui l’invito a leggere fino a quando il sonno non la farà cadere sul libro. Sembra di vederla la poveretta che s’addormenta sulle pagine aperte:
“Leggi molto spesso e impara il più possibile. Il sonno ti sorprenda con in mano un libro e una pagina santa accolga il tuo volto quando cade”.

Ancora più bello il passaggio sul dialogo a partire dalle Sacre Scritture:
“Ti custodisca sempre il segreto della tua camera, e là dentro lo Sposo si intrattenga sempre con te. Quando preghi, parli allo Sposo. Quando leggi, è lui che parla a te”.

Oggi mi sono reso conto che queste stesse parole le ha dette sant’Agostino rivolgendosi alla sua gente:
“La tua preghiera è una parola rivolta a Dio: quando leggi, è Dio che ti parla; quando preghi, sei te a parlare a lui”.

domenica 24 novembre 2019

Né colpo di stato né lesa maestà, ma una grande missione



È sorprendendo l’uso che fa l’Apocalisse del salmo 2.
È un salmo messianico, nel quale, pensando alla discendenza di David, si profila la figura del re figlio di Dio.
Nel suo primo discorso pubblico, nel giorno di Pentecoste, Pietro lo legge come una profezia di Gesù: è lui quello che Dio Padre proclama Figlio e messia, re dei popoli. 
Lo stesso fa Paolo nel suo discorso nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia.
Ambedue hanno compreso che risuscitandolo a morte e facendolo sedere nei cieli alla sua destra, Dio costituisce Gesù Signore e re.

Attentare al re per usurparne il trovo è delitto di lesa maestà, un colpo di stato.
E ci oserebbe fare questo proprio al Signore Gesù, che Dio stesso ha proclamato re?
L’unico che può farlo è il re stesso. E la fa nell’Apocalisse quando dà al cristiano la stessa autorità che egli ha ricevuto dal Padre suo (2, 26-28).
Gesù non abdica in favore di noi, ma ci chiama a regnare con lui,
ci fa sedere con lui alla destra del Padre, sullo stesso trono, ci rende coeredi con lui, dandoci in eredità il suo stesso regno: “Voi siete re”, proclamerà Pietro.

È una dignità altissima.
Ma è anche una responsabilità, una missione.
Il re, nella concezione antica, ha il compito di difendere i deboli, di sostenere la parte degli oppressi, di amministrare la giustizia, interpretando ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che conviene e ciò che non conviene, ossia ha il compito di portare il suo popolo sul retto cammino.
Ognuno di noi dunque re, in questo senso, lì dove siamo, con le persone e le mansioni che ci sono affidate, con la consapevolezza di una grande missione da compiere.

sabato 23 novembre 2019

Cristo Re dell’universo


«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23, 35-43)

La scritta è chiara: “re dei Giudei”.
Oggetto di derisione da parte dei soldati: “Se sei re…”.
Uno solo prende sul serio quella scritta, un criminale.
Fa la più bella preghiera: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno»
Ottiene la più bella promessa: «Oggi sarai con me in Paradiso».

Oggi non celebriamo la festa di Gesù re dei Giudei, troppo poco.
Celebriamo la festa di Gesù re universale.
Che è come dire: Gesù servo universale.
È un re che dà la vita per il suo popolo, partendo dall’ultimo dei suoi “sudditi” (= sotto-messo), che non è più tale ma un “compagno” (= com-panis, che mangia il pane insieme): entrano insieme in Paradiso e mangiano insieme al banchetto del cielo.

Che rivoluzione ha portato Gesù!
Ognuno di noi può essere re se è servo.
Alla fine tutti pari, a tavola uno accanto all’altro: il Regno di Dio!

venerdì 22 novembre 2019

Visioni


Dalla cappella degli Oblati a Marino
Dall'Aula della Scuola Abbà


Quali visioni può offrire una semplice finestra...

giovedì 21 novembre 2019

Il nemico che non c'è


A parte quelli per lavoro, perché uno legge un libro? O meglio, qual è il criterio di scelta?
Per me il più delle volte la scelta è casuale: trovi un titolo che conoscevi e che non hai mai letto, o più spesso te ne regalano uno e chi lo fa lo fa perché pensa di farti cosa grata, magari conoscendo un po’ i tuoi gusti o semplicemente la tua curiosità.
Insomma finalmente ho letto Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, di cui conoscevo solo i libri sulla natura e la montagna, senza che mi fosse mai capitato per mano il suo primo e più famoso scritto.
Così sono entrato nel mondo disumano della guerra dove, per contrasto, emerge l’umano nella sua semplicità e verità. Come quando vedo il sergente, circondato da compagni morti, stremato dalla fame e dal freddo, entrare in una casa rurale:

Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. - Mnié khocetsia iestj, [vorrei mangiare] - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. - Spaziba, [grazie] - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, [un semplice saluto] - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi.

A questo punto Rigoni Stern non può non fermarsi per annotare:

Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isbà si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.

Parlando del suo libro scriverà:

Il nemico è una parola che non uso. Ne “Il sergente nella neve” la parola nemico non c'è: di russi, dico loro ma nemico mai. Per me quelli non erano nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c'è.

E pensare che c’è chi fa di tutto per crearci dei nemici…

mercoledì 20 novembre 2019

Caratteristiche dell’amore



Che bello il mio lavoro che mi tiene sempre in contatto con cose alte…
Così oggi mi ritrovo con p. Angelo Mitri (+1984), che è stato il “postulatore” che ha avuto la gioia di portare sant’Eugenio sugli altari.
Rileggo una sua nota sulle caratteristiche dell’amore in sant’Eugenio:

“Non vivo che di cuore”, diceva spesso (a P. Vincent, 9 nov. 1853; a Santoni, 24 nov. 1853; cf. Rey, II, p. 468), cioè di amore.
Un amore intero: credeva che nessuno comprendesse il Cristo come lui: “Ringrazio Dio d’avermi dato un’anima capace di comprendere quella di Gesù” (Journal, 3 sett. 1837).
Un amore assoluto, esclusivo, insaziabile che dà e vuole tutto “unicamente per la gloria di Dio, l’amore di Gesù Cristo, il bene della Chiesa e la salvezza delle anime” (Pref.).
Un amore ambizioso: “Chiunque soffre o ha bisogno di me ha diritto ai miei servizi” (al direttore, 1808).
Un amore che spesso era tormento e sofferenza: “Ahimé! Pochi rispondono... all’invito accorato...”.
Un amore pronto a tutto: “Disposti a sacrificare tutti i loro averi... i loro talenti, il loro riposo, la loro persona” (Pref.). Anche la vita: “Disposti a sacrificare... la loro vita” (Pref.); “finché non avremo consacrato tutta la vita e dato tutto il sangue... non potremo dire niente; a più forte ragione quando non abbiamo ancora dato se non qualche goccia di sudore o qualche misera fatica” (a Tempier, 22 agosto 1817).


martedì 19 novembre 2019

Tristezza e gioia


“Allontana da te la tristezza… è il più pericoloso di tutti gli spiriti… Rivestiti di gioia e dilettati in essa. Infatti ogni uomo allegro fa azioni buoni, pensa cosa buone…”.
È il decimo precetto de Il Pastore di Erma, lo scritto di uno dei Padri apostolici del II secolo che sto leggendo in questo periodo.
Contemporaneamente leggo, in un discorso di Papa Francesco, che Gesù, incontrando sul lago Pietro dopo il rinnegamento, “vuole liberarlo dalla tristezza”.

Brutta bestia la tristezza, dicono tutti che sia l’alleato del diavolo. Il Pastore di Erma dice che è “sorella dell’incertezza e della collera”. Porta a vedere tutto nero, alla depressione e infine alla disperazione e al peccato.
La gioia invece è uno dei frutti dello Spirito Santo. È positiva, tutto trasfigura e mette le ali.

Allora cristiani buontemponi?
No davvero!
Non ci mancano difficoltà e tribolazioni, ma da quando Gesù le ha prese su di sé, in tutte queste riconosciamo la sua presenza!
Allora: "Beati gli afflitti, perché saranno consolati!" (Mt 5, 4).
È l’esperienza di Paolo: “Sono lieto delle sofferenze…” (Col 1, 24).
È l’insegnamento di Pietro: “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi…” (1 Pt 4, 13).


lunedì 18 novembre 2019

Insieme per la missione


Ho terminato la stesura del libro Condividere i doni con la chiamata appassionata di papa Francesco alla comunione per la missione:

Laici e consacrati, membri di tutte le componenti di una famiglia carismatica, i membri tutti della Chiesa insieme, in comunione perché? Per andare uniti nel vasto campo del mondo, seguendo Gesù che si è incarnato ed ha assunto tutto l’umano. «La Chiesa “in uscita” è la comunità di di­scepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano. (…). La comunità evangelizzatrice accorcia le distanze, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popo­lo».
È la “mistica” del vivere insieme, del mescolarci, dell’incontrarci, del prenderci in braccio, dell’appoggiar­ci, del partecipare «a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene».

Del ricco insegnamento del Papa mi piace ritenere soprattutto l’accorato appello a non fare inutili guerre tra di noi! «Quante guerre per invidie e gelosie, an­che tra cristiani! (…) Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere spe­cialmente una testimonianza di comunione fra­terna che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate: «Da questo tutti sapran­no che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È quello che ha chiesto con intensa preghiera Gesù al Padre: «Siano una sola cosa … in noi … perché il mondo creda» (Gv 17,21). (…) Chiediamo al Signore che ci faccia com­prendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto! A ciascuno di noi è diretta l’esortazione paolina: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21). E ancora: «Non stan­chiamoci di fare il bene (Gal 6,9). (…) Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!».

In definitiva ci è richiesto di unire le ispirazioni e le forze e di concertare insieme la maturazione del dialogo di comunione all’interno della Chiesa. Soltanto così potremo affrontare insieme le sfide dell’evangelizzazione, delle tragedie della nostra umanità, del dialogo ecumenico e interreligioso, della credibilità in una società secolarizzata, multiculturale, postmoderna. Piuttosto che lasciarsi guidare da prevenzioni o perdersi in sterili polemiche, occorre avere il coraggio di un’autentica comunione fraterna, piena di stima e di fiducia reciproca. Occorre guardarsi gli uni gli altri, conoscersi meglio, giungere alla comunione piena, in vista di guardare oltre, insieme, e lavorare, come unica grande realtà carismatica, per la Chiesa e per l’intera umanità.


domenica 17 novembre 2019

Santa Cecilia viva



È ormai più di una settimana da quando con il gruppo di amici abbiamo visitato la basilica di santa Cecilia in Trastevere. Eppure la gioia di quel momento è ancora presente. Perché?
Perché la narrazione della sua storia ci ha lasciati estasiati? È un autentico romanzo, dal quale appare una fortezza inimmaginabile in una donna così giovane, capace di far fronte a mille difficoltà, di convertire familiari e soldati, di andare incontro alla morte… Anche Teresa di Gesù Bambino, nel suo viaggio a Roma, rimase impressionata dalla fortezza della santa e la volle sua patrona.
Perché abbiamo visitato gli scavi con la casa romana appartenente alla famiglia di Cecilia? È un mondo sotterraneo di grande interesse. Sorprendente la recente scoperta del battistero.
Perché gli affreschi del 1200 del Cavallini ci hanno narrato, con colori vivissimi, il mistero del giudizio finale? È una narrazione straordinaria, ricca di mille particolari, che non si finirebbe mai di ammirare.
Perché la statua del Maderno ritrai in maniera così viva la santa? È raffigurata come il suo corpo fu ritrovato nel 1600.
Sì, tutto questo ci ha riempito di gioia. Le nostre visite ai santi romani hanno proprio lo scopo di conoscere le loro vita eccezionali, assieme all’arte che ognuno di loro ha fatto nascere attorno alla sua tomba.

Ma forse ciò che più ci ha lasciato nella gioia è la terza componente delle nostre visite: scoprire come quel santo è vivo oggi. Santa Cecilia è viva! Lo abbiamo visto nella monaca che ci ha guidato agli scavi, una monaca che significativamente porta in nome di Cecilia!
Non soltanto si chiama Cecilia, ma la sua vocazione è nata conoscendo santa Cecilia e sembrava trasparenza della santa, una sua presenza attualizzata.
Abbiamo visto anche l’intera comunità di monache benedettine in preghiera in basilica, attuazione del desiderio manifestato dalla santa prima della morte: che quella casa diventasse per sempre casa di preghiera. Lo è ininterrottamente – forse unica testimonianza a Roma – dalla sua morte fino ad oggi.
Santa Cecilia è viva.

sabato 16 novembre 2019

Con perseveranza


Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita (Lc 21, 5-19)

Il lungo viaggio ha portato finalmente Gesù a Gerusalemme, dove si erge maestoso il tempio, gloria e orgoglio del suo popolo.
Mentre i discepoli lo ammirano Gesù ne annuncia la distruzione, simbolo della fine di tutte le cose.
Anche noi siamo circondati da cose belle, che vorremmo possedere per sempre.
Eppure tutto passa.
Cosa resterà?
Quanto avremo amato: resteranno i frutti buoni che saranno spuntati dal nostro vivere quotidiano.
Poco prima di intraprendere il grande viaggio che lo porterà a Gerusalemme, Gesù, sempre nel Vangelo di Luca, aveva raccontato la parabola del seminatore e aveva terminato parlando dei frutti che rimangono: «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (8, 15).
Nel Vangelo di oggi ritroviamo la stessa parola: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Pazienza, costanza, perseveranza, la forza instancabile che tiene saldi nelle difficoltà di ogni giorno, e ci spinge ad andare avanti sempre, con coraggio, con fedeltà, anche quando e soprattutto quando il cammino si fa difficile.
Senza mai scoraggiarsi.
La perseveranza nasce dalla speranza, dalla fiducia in Dio che viene in aiuto e sostiene, sempre, egli che è il “Dio della perseveranza” (Rm 14, 5): è perseverante, non si arrende mai, continua a sperare, e infonde speranza, fiducia, pazienza, perseveranza.
Possiamo perseverare soltanto grazie alla sua perseveranza: ci vuole bene davvero.
La perseveranza si nutre dunque di fiducia e si trasforma in abbandono sicuro nelle mani di Dio.


venerdì 15 novembre 2019

Condividere i doni


Sono alle prese con un altro libro: Condividere i doni.
Questa sera cosa posso condividere sul mio blog?
Forse l’inizio del libro…

«Tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che suggella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo. Attraverso di esso e con l’unzione dello Spirito Santo, (i fedeli) “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo” (Lumen gentium, n. 10). La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. […] Siamo, come sottolinea bene il Concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, n. 9)».
Papa Francesco, in questa Lettera al cardinale Marc Ouellet presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina (19 marzo 2016), ricorda una verità elementare. La Chiesa, prima di essere articolata nella pluralità delle vocazioni, dei ministeri, dei carismi, degli ambiti territoriali, è l’insieme dei fedeli, uniti attorno al Cristo grazie al battesimo, la dignità più alta e più santa, che ci rende figli di Dio, partecipi della natura divina. Insieme costituiamo l’unico popolo di Dio, fratelli e sorelle tra di noi, corpo mistico di Cristo, di cui tutti siamo membra. (…)
Nella Chiesa le vocazioni, i ministeri, i carismi sono diversissimi, ma tutti operano per la stessa causa, l’avvento del Regno di Dio. Lo Spirito, sempre creativo, suscita i doni più vari e nello stesso tempo li unifica nell’amore. (…)
Soltanto la coscienza di essere popolo con il popolo, può esorcizzare da quella che Papa Francesco definisce «una delle deformazioni più grandi […], il clericalismo», quell’atteggiamento di superiorità o comunque di distanza dai fedeli». (…)
È dunque quanto mai urgente ricordarci e ricordar che il popolo di Dio è unico nella molteplicità delle sue componenti e che è composto nella quasi totalità da donne e uomini “laici”, da battezzati, da figlie e figli di Dio in cammino verso la santità e animati dalla medesima missione. Soltanto una infinitesima parte è costituita da ministri e persone che scelgono di vivere una forma di vita consacrata e che questa parte di popolo – perché è popolo come e con gli altri – ha il compito prezioso e insostituibile di vivere un particolare servizio all’interno dell’intero popolo di Dio, condividendone il cammino con le gioie, le prove, le difficoltà, i successi.

giovedì 14 novembre 2019

Tutto è compiuto


Nel luglio 2001, “alla vigilia gioiosa” dei 50 anni dell’Istituto, Padre Liuzzo scriveva una Circolare, la n. 64, per invitare a celebrare quell’evento, indicando come prepararsi:
- “Vigilia” significa veglia, riapprofondimento, nuova e più intima presa di coscienza del preziosissimo dono che Dio ci ha fatto col chiamarci, senza alcun nostro merito, a far parte della Sua Famiglia sotto la guida sorridente e benedicente della Madre del Suo Figlio, e perciò a lodarlo e ringraziarlo come il salmista: è bello cantare al nostro Dio, dolce è lodarlo come a lui conviene. (…)
- Vigilia significa particolarmente rinnovato impegno e sforzo generoso per vivere meglio e più integralmente il nostro carisma (…).
Non sapeva che pochi giorni dopo quell’anniversario l’Istituto avrebbe ricevuto l’approvazione pontificia.

Anche noi vogliamo rivivere quest’evento, il ricordo dell’approvazione (21 novembre 2001), come una “vigilia” di preghiera – con gli stessi atteggiamenti richiesti nel luglio 2001 – che si protrarrà per un’intera settimana, iniziando dal giorno anniversario della morte di Padre Liuzzo, il 14 novembre 2003.
Lasciando la terra per il Cielo il nostro Padre poté dire, come Gesù, “Tutto è compiuto”. Lo testimonia il suo testamento che sempre leggeremo con gratitudine e amore filiale:
«Figlie mie, ringrazio Dio e la Madre Divina, Stella del mio sacerdozio, di avermi fatto strumento per voi, applicando ed adattando - come canale - il carisma del beato Eugenio… Ora che la Santa Chiesa, per chiaro intervento di Maria Immacolata, ha benedetto ed approvato il vostro Istituto e ve ne ha riconsegnato il carisma con un precetto, faccio mio questo precetto come mia ultima volontà e vi ripeto quanto ho cercato di instillare nei vostri cuori:
la vostra legge è l’amore
la vostra vocazione è l’amore
la vostra medicina è l’amore…
Solo Dio sa quanto vi ho voluto e vi voglio bene. Dal cielo vi seguirò e vi amerò anche di più. Se ho offeso o contristato qualcuna, ne chiedo perdono a Dio e a lei. Vi benedico col cuore e con la mano della Madonna».

Anche quest’anno, nella chiesa di via dei Prefetti a Roma, abbiamo ricordato il “Tutto è compiuto” di Padre Liuzzo, celebrando la messa con il calice che la sua famiglia gli aveva regalato in occasione dei 25 anni di sacerdozio.

Ogni anno, tra queste due date – 14 e 21 novembre –, dovremo celebrare il nostro “Tutto è compiuto”. Quante cose in una giornata: una persona da curare, il pasto da cucinare, la biancheria da lavare e stirare, il lavoro da compiere, una catechesi da preparare, una persona da ascoltare… Alla sera, fermandoci per il nostro esame di coscienza, dovremmo poter dire: “Tutto è compiuto”. Così la nostra vocazione trova nel quotidiano la sua via di attuazione.
Alla fine della vita potremo dire “Tutto è compiuto”, come Gesù, come Padre Liuzzo, se avremo imparato a dirlo alla fine di ogni giornata.


mercoledì 13 novembre 2019

Il ritorno di Padre Messuri a Marino



Ieri l'immaginetta di p. Armando Messuri.
Oggi il ricordo della traslazione della sua salma a Marino, com'è raccontata in articolo intitolato "Il grano di frumento", apparso su "Comunità Marino" nel 1971.


Un albero ai bordi del campo:
ammira pure i frutti, il tronco, le radici
ma che cosa sai della linfa segreta,
del Mistero della vita che l'anima e
tutto lo pervade?

La Chiesa non è solo di oggi:
è di ieri, di domani, di sempre.
Vive nel tempo,
ma l'Amore è la sua linfa,
lo Spirito la sua anima.

Riempie il tempo,
          ma vive ancorata nell'eterno.


Lo pensavamo la sera del 26 settembre, mentre le macchine scivolavano veloci sull'autostrada del sole: su un pulmino Volkswagen bianco, carico di fiori e di giovani, tornavano a Marino i resti mortali di P. Armando Messuri.
Eravamo andati a prenderlo a Camigliano di Caserta: due padri e i 17 nuovi giovani in arrivo al centro giovanile quest'anno.
Con Lui, i suoi fratelli, la gente semplice del paesetto natale, avevamo vissuto una giornata intensa di fede, di preghiera, di gioia composta, frutto sembrava di una delicata presenza del Padre.
Ora mentre i fari delle macchine solcavano le tenebre della sera, eravamo soli con lui sulla via del ritorno verso Marino.
Quei 17 giovani di cui conoscevo la storia intima: gioie, dolori e il “sì” detto a Dio per rimanere sempre con Lui, mi lasciavano pensoso.
Da quattro anni siamo avvezzi in comunità a vedere la vita che si rinnova e si moltiplica: ma quella sera nel silenzio mi sembrava di intuirne per un attimo il mistero.
P. Armand o si è donato perché la Chiesa qui sia feconda di nuovi consacrati.
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“Se il grano di frumento, caduto in terra, marcisce e muore, porta molto frutto. "
Un religioso austero con sé, ma con gli altri generoso e delicato fuor di misura; un'anima di una intuizione penetrante, timida, ma estremamente fattiva nella carità.
Nessuna meraviglia che i giovani gli si accalcassero attorno, avidi come sono di autenticità.

A Oné di Fonte, un paesetto del trevigiano, ancora oggi dicono di lui: "era un uomo che ti comunicava una fiamma!".
In paese lo ammiravano: lui taceva, sorrideva, amava e, come suole  avvenire a chi lo fa sul serio, soffriva.
Una fiamma concreta, che andava dalla vita sacramentale dei giovani, alla fanfara paesana - di chitarra neanche l'ombra in quei tempi! - ai corsi serali di istruzione elementare o professionale, al coltivare i loro desideri di vocazione, alla carità spicciola verso i poveri e via di seguito.

Finì di vivere quando nel Lazio tornava la pace, l'8 giugno 1944.
Una settimana prima alcuni ladri, di notte, vedendosi riconosciuti, avevano sparato su di lui. Non rivelò mai i loro nomi, non voleva rovinarli e soprattutto li aveva perdonati, secondo l'insegnamento del Maestro.
Gli ultimi momenti, nello spasimo dell'agonia, continuava a ripetere: "Devo tornare a Marino, devo tornare a Marino!”.
Che significato potevano avere quelle parole al momento del passaggio nella casa del Padre? E' difficile dirlo, ma a noi è sembrato di capirle il 29 settembre: presenti centinaia di persone, altri 7 novizi con voce ferma hanno pronunciato la formula della loro consacrazione a Dio, 5 giovani hanno bussato alla porta della congregazione degli Oblati iniziando il noviziato e 17 altri hanno deciso di costruire al centro giovanile "Armando Messuri" il loro cenacolo nell'amore e nel silenzio di Maria.