domenica 24 novembre 2019

Né colpo di stato né lesa maestà, ma una grande missione



È sorprendendo l’uso che fa l’Apocalisse del salmo 2.
È un salmo messianico, nel quale, pensando alla discendenza di David, si profila la figura del re figlio di Dio.
Nel suo primo discorso pubblico, nel giorno di Pentecoste, Pietro lo legge come una profezia di Gesù: è lui quello che Dio Padre proclama Figlio e messia, re dei popoli. 
Lo stesso fa Paolo nel suo discorso nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia.
Ambedue hanno compreso che risuscitandolo a morte e facendolo sedere nei cieli alla sua destra, Dio costituisce Gesù Signore e re.

Attentare al re per usurparne il trovo è delitto di lesa maestà, un colpo di stato.
E ci oserebbe fare questo proprio al Signore Gesù, che Dio stesso ha proclamato re?
L’unico che può farlo è il re stesso. E la fa nell’Apocalisse quando dà al cristiano la stessa autorità che egli ha ricevuto dal Padre suo (2, 26-28).
Gesù non abdica in favore di noi, ma ci chiama a regnare con lui,
ci fa sedere con lui alla destra del Padre, sullo stesso trono, ci rende coeredi con lui, dandoci in eredità il suo stesso regno: “Voi siete re”, proclamerà Pietro.

È una dignità altissima.
Ma è anche una responsabilità, una missione.
Il re, nella concezione antica, ha il compito di difendere i deboli, di sostenere la parte degli oppressi, di amministrare la giustizia, interpretando ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che conviene e ciò che non conviene, ossia ha il compito di portare il suo popolo sul retto cammino.
Ognuno di noi dunque re, in questo senso, lì dove siamo, con le persone e le mansioni che ci sono affidate, con la consapevolezza di una grande missione da compiere.

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