A parte quelli per lavoro, perché uno legge
un libro? O meglio, qual è il criterio di scelta?
Per me il più delle volte la scelta è
casuale: trovi un titolo che conoscevi e che non hai mai letto, o più spesso te
ne regalano uno e chi lo fa lo fa perché pensa di farti cosa grata, magari
conoscendo un po’ i tuoi gusti o semplicemente la tua curiosità.
Insomma finalmente ho letto Il sergente nella
neve di Mario Rigoni Stern, di cui conoscevo solo i libri sulla natura e la montagna, senza che mi fosse mai capitato
per mano il suo primo e più famoso scritto.
Così sono entrato nel mondo disumano della
guerra dove, per contrasto, emerge l’umano nella sua semplicità e verità. Come quando vedo il sergente,
circondato da compagni morti, stremato dalla fame e dal freddo, entrare in una
casa rurale:
Corro e busso alla
porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No.
Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li
guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo
con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai
sospesi a mezz’aria. - Mnié khocetsia iestj, [vorrei mangiare] - dico. Vi sono anche
delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un
mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi
metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi
guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo
il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. - Spaziba, [grazie] - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani
il piatto vuoto. - Pasausta, [un
semplice saluto] - mi risponde con
semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi.
A questo punto Rigoni Stern non può
non fermarsi per annotare:
Così è successo
questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di
quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la
prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore,
né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche
i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isbà si era creata tra me e i
soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era
qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno
per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.
Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che
la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti
quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è
successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a
innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.
Parlando del suo libro scriverà:
Il nemico è una
parola che non uso. Ne “Il sergente nella neve” la parola nemico non
c'è: di russi, dico loro ma nemico mai. Per me quelli non erano
nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li
consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha
fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro
non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c'è.
E pensare che c’è chi fa di tutto per crearci dei nemici…
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