lunedì 30 novembre 2020

Quella bambina che si chiama speranza


C’è tanta paura, attorno, tanta incertezza. Intristisce.
Ci vuole più fede? Ci vuole più amore?
Forse ci vuole più speranza. E rileggo due righe della lunga famosa poesia di Peguy:
 
La fede non mi stupisce
La carità va da sé.
Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce.
 
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano
che andrà meglio domattina.
Che vedano come vanno le cose oggi e che credano che andrà
meglio domattina.
Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia
della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
 
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
 
La Speranza è una bambina da nulla.
Eppure è questa bambina che traverserà i mondi.
Questa bambina da nulla.
 
La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi
e non si nota neanche...

Ciechi che sono che non vedono invece

Che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.
 
È lei, quella piccina, che trascina tutto.
Perché la Fede non vede che quello che è.
E lei vede quello che sarà.
La Carità non ama che quello che è.
E lei, lei ama quello che sarà. 

domenica 29 novembre 2020

Pensieri di compleanno

La foto ritrae la famiglia attorno alla mamma in occasione del suo novantesimo compleanno. Ogni tanto la guardo o la mostro ad altri, compiaciuto. Non ha la composizione classica di una volta, è “mossa”, un po’ arruffata. Dà il senso dell’unità che la presenza della mamma crea, nella spontaneità della vita. Adesso che lei non c’è più sono il più vecchio dei 33 componenti la grande famiglia. Non ho più né zii né zie. Non ho più nessuno davanti a me, sono un patriarca.

Nella mia comunità a Roma siamo una sessantina. Sono il più anziano, non ho nessuno davanti a me.
Insegno ancora al Claretianum, e sono il più anziano, con il titolo di emerito.
Adesso che p. Santino è partito per il Cielo non ho proprio più nessuno davanti a me. Non ho più padre.

Non avere più nessuno davanti, è questa l’anzianità?

E vengono tanti pensieri sparsi, senza nessun legame tra loro.

Penso a Gesù. Aveva sempre davanti a sé il Padre. Non faceva nulla senza confidarsi con lui. Passava le notti a parlarci.
Poi arrivò il momento nel quale anche lui perdette il Padre. Non aveva più nessuno davanti a sé.

Mi sono ricordato del centuplo promesso da Gesù a chi lascia padre, madre, fratelli, sorelle: avrà cento madri, cento fratelli, cento sorelle… Tace sul padre. Non dice che avremo cento padri. Perché di Padre ce n’è uno solo.
Il tempo ci priva di ogni padre perché dobbiamo prepararci ad andare a stare col Padre. La preghiera si fa più vera: “Padre nostro…”.
Un rapporto nuovo col Padre: che sia questa l’anzianità?

Mi è tornata alla mente la lettera che Niccolò Macchiavelli scrisse il 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, ambasciatore presso il Papa. Gli racconta come passa le giornate: nel bosco a controllare il taglio della legna, a caccia di tordi, nell’osteria a giocare a carte col beccaio, il mugnaio, i fornai… Fin quando arriva la sera. Allora, giunto a casa, “in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antichi huomini”, ponendosi a conversare con loro…
A sera, anch’io, dismesso l’abito quotidiano, posso rivestirmi a festa e sedermi con i miei antichi padri e conversare con loro… Che sia anche questo un dono dell’anzianità?

L’anzianità sta forse nell’oblio di sé per farsi attento all’altro. A cosa serve pensare a noi, che già abbiamo vissuto la vita? Meglio coltivare le vite più giovani attorno a noi, aver cura di loro e vivere per loro. Senza la pretesa della paternità, carisma riservato ad alcuni e non disponibile a tutti. Forse basta una presenza semplice, che sa capire, non giudica, e sta vicina.


sabato 28 novembre 2020

Eugenio de Mazenod "uomo dell'Avvento"


“Passionné de Jésus Christ et inconditionnel de l’Église”. Così Paolo VI definì Eugenio de Mazenod il giorno in cui lo proclamò beato. Era il 19 ottobre 1975, domenica della giornata missionaria mondiale. Vi brillava la passione di sant’Eugenio per Gesù (era o no un uomo passionale, che viveva tutto con intensità?), e la totale dedizione (senza risparmiarsi, con creatività e audacia) alla causa della Chiesa, che è poi l’annuncio del Vangelo. Quelle parole ci sono restate nel cuore, ritratto perfetto del nostro fondatore. 
Venti anni più tardi, il 3 dicembre 1995, Giovanni Paolo II, proclamandolo santo, lo definì: “Uomo dell’Avvento”, parole non avuto la stessa risonanza di quelle di Paolo VI e che ricordiamo solo per dovere di cronaca. La canonizzazione avvenne nella prima domenica di Avvento e quindi, nell’omelia, il Papa doveva pur trovare un aggancio tra il nuovo santo e il tempo liturgico: un po’ forzato. O forse siamo stati noi un po’ frettolosi nel rimuovere la definizione perché ci sentivamo a disagio con quelle parole… 
Converrà ascoltarlo di nuovo:

“Il Beato Eugenio de Mazenod, che la Chiesa oggi proclama santo, fu un uomo dell’Avvento, uomo della Venuta. Egli non soltanto guardò verso quella Venuta, ma, come Vescovo e Fondatore della Congregazione degli Oblati di Maria Immacolata, dedicò tutta la sua vita a prepararla. La sua attesa raggiunse l’intensità dell’eroismo, fu caratterizzata cioè da un grado eroico di fede, di speranza e di carità apostolica. 
Eugenio de Mazenod fu uno di quegli apostoli, che prepararono i tempi moderni, i tempi nostri. (…) aveva la consapevolezza che la missione di ogni Vescovo, in unione con la Sede di Pietro, ha carattere universale. (…) De Mazenod fu consapevole che il mandato di ogni Vescovo e di ogni Chiesa locale è in se stesso missionario e fece in modo che anche l’antichissima Chiesa di Marsiglia, i cui inizi risalgono al periodo subapostolico, potesse adempiere in maniera esemplare la sua vocazione missionaria, sotto la guida del suo Pastore. (…) 
L’universalità della missione della Chiesa fu, infatti, profondamente avvertita da Eugenio de Mazenod. Egli sapeva che Cristo desiderava unire alla sua persona tutto il genere umano e per questo motivo in tutto il corso della sua vita rivolse particolare attenzione all’evangelizzazione dei poveri, ovunque fossero. Rendiamo grazie a Dio per la grande trasformazione compiutasi mediante l’opera di questo Vescovo. 
Il suo influsso non si limita all’epoca in cui egli visse, ma continua ad agire anche sul nostro tempo. Infatti il bene compiuto in virtù dello Spirito Santo non perisce, ma dura in ogni “ora” della storia”. 

Eugenio de Mazenod come colui che apre la strada a Cristo, che lo annuncia presente nel mondo, che insegna a conoscerlo. Se l’Avvento è questo, che sia chiamato l’Uomo dell’Avvento. Come dire: missionario integrale, tutto proteso in avanti, ad anticipare il futuro a rendere presente il Cielo in terra. 

Continuiamo allora nella lettura del messaggio che il giorno dopo, 4 dicembre, il Papa concesse ai quasi ottomila pellegrini, di 60 nazioni, venuti a Roma per la festa di sant’Eugenio: 

- Indirizzandosi agli Oblati, in inglese: Dopo la beatificazione “avete lavorato sempre più seriamente a conoscere personalmente il Cristo e a farlo conoscere agli altri. Continuate a seguire le sue orme, a sforzarvi di diventare santi, camminando coraggiosamente nelle stesse strade di tanti operai evangelici”. 
- Parlando in italiano ai laici che “lavorano nelle attività apostoliche promosse dagli Oblati… So che con animo generoso molti tra di voi sostengono attivamente la missione degli Oblati…”. 
- In lingua polacca: “Il suo apostolato [di de Mazenod] è consistito nel trasformare il mondo con la forza del Vangelo di Cristo”. 
- Ai giovani, in italiano: “Voi sapete che i giovani sono ottimi missionari di altri giovani. Per questo, Cristo vi affida la missione di diffondere la Buona Novella della sua Risurrezione, specialmente attraverso i movimenti che seguono lo spirito di S. Eugenio”. 
- Infine, in spagnolo: “Vi auguro di ritornare nei vostri Paesi pieni di fede e fiduciosi nell’avvenire della Chiesa, una santa, cattolica ed apostolica”.

venerdì 27 novembre 2020

A cuor leggero...


Siamo arrivati all’ultimo giorno dell’anno liturgico, che ci invita a guardare l’ultimo giorno in assoluto, quello del mondo e quello mio personale.

 “Un giorno ci toccherà morire, Snoopy”, dice Charlie. E Snoopy gli risponde: “Certo, Charlie, però gli altri giorni no”. Proprio così, l’importante è vivere… e si muore come si vive!

Nel vangelo dell’ultimo giorno dell’anno Gesù rivolge due inviti:

- non ingolfare il cuore con mille cose inutili: gli impediscono un battito regolare, lo appesantiscono, e non è più capace di amare con freschezza, libertà, generosità…

- stare attenti, senza lasciarsi distrarre dalle mille stupidaggini che ci frullano attorno.

Mi sono piaciute le parole del mio omonimo, Fabio Rosini, che descrive quest’epoca distratta e sbadata: «Siamo nel tempo del multi-tasking, della frammentazione, della disattenzione. Guidare e rispondere al telefono, dialogare con qualcuno e intanto appuntarsi altro, mangiare guardando la televisione e dimenticare i commensali… Una generazione cresciuta con voci di sottofondo, con la musica nell’ascensore. (…) Non si possono fare le cose con la testa altrove, perché l’amore è fatto di attenzioni. (…) Non è una questione di perdite ma di pieno possesso dei propri atti, di liberazione dalle zavorre, di maggior libertà per camminare nella luce senza ambiguità. (…) Questo è un atto eminentemente battesimale. Nei primissimi secoli si entrava nudi nell’acqua del Battesimo, dopo aver rinunziato al Maligno e aver professato la fede. Bisogna liberarsi da ciò che impedisce di amare. C’è sempre qualcosa a cui bisogna chiudere la porta in faccia, qualcosa di cui non preoccuparsi perché di una sola cosa c’è bisogno».

Vivere il presente con mente fresca, con l’attenzione a chi ci è accanto, con cuore libero per essere premurosi verso tutti… Così nei giorni che si vive, per essere così il giorno che si muore.

giovedì 26 novembre 2020

Gioia

 


«Un cristiano non può mai essere annoiato o triste. Chi ama Cristo è una persona piena di gioia e che diffonde gioia». Così papa Francesco in un twitter del 2013. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium il termine ricorre 59 volte. Un leitmotiv che continua: «Un cristiano triste – dirà nel 2019 – è un triste cristiano». Sembra di sentire il curato di Torcy quando, al giovane “curato di campagna” nell’omonimo romanzo di Georges Bernanos, dice: «Il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste».

Ogni dizionario pone la tristezza come termine contrario alla gioia. Ma in questi giorni il contrario della gioia sembra essere la noia, o peggio la rabbia, che si esprime in aggressività verbale e fisica. Scontenti di tutto e di tutti. Unico rimedio il divertimento, ma è euforia effimera, superficiale, che svanisce in un attimo e lascia un’angoscia profonda.

La gioia non è frutto di evasione o di mancanza di difficoltà. Spesso fiorisce proprio su tristezza e sofferenza, con la scoperta di essere amati. È «la gioia del Vangelo, la gioia di essere stati eletti da Gesù, salvati da Gesù, rigenerati da Gesù; la gioia di quella speranza […] che viene dalla sicurezza che Gesù ci accompagna, è con noi» (2016). Nasce dalla decisione di non guardare la propria tristezza, ma fuori: «piangere con chi piange e gioire con chi gioisce», dimentichi di sé per far contento l’altro. C’è davvero più gioia nel dare che nel ricevere.

mercoledì 25 novembre 2020

Condividere i doni. Laici e consacrati insieme per la missione

 

Il libro è ormai in libreria. Nasce da un’esperienza iniziata alcuni anni fa da un piccolo gruppo di religiosi di differenti Istituti legati dal comune interesse per le rispettive “Famiglie carismatiche”, una realtà antica e nuova che vede laici e consacrati uniti attorno a un medesimo carisma. Abbiamo iniziato a riunirci nella casa generalizia degli Oblati di Maria Immacolata, in via Aurelia a Roma, per condividere le nostre esperienze e i nostri sogni. Presto al gruppo iniziale si sono aggiunti altri religiosi, poi alcune religiose e insieme alcuni laici. Gli incontri sono diventati regolari, sempre più numerosi, animati da soprattutto da p. Isidoro Murciego, fino a costituire una vera e proprio istituzione: la “Associazione Membri Curie Generalizie – Famiglie carismatiche”. 

Nello stesso tempo papa Francesco, nella lettera d’indizione dell’Anno della Vita Consacrata, ha esplicitato il concetto di Famiglia carismatica: «Attorno ad ogni famiglia religiosa, come anche alle Società di vita apostolica e agli stessi Istituti secolari, è presente una famiglia più grande, la “famiglia carismatica”, che comprende più Istituti che si riconoscono nel medesimo carisma, e soprattutto cristiani laici che si sentono chiamati, proprio nella loro condizione laicale, a partecipare della stessa realtà carismatica».

Il libro raccoglie e ordina alcune riflessioni che ho elaborato in questi ultimi anni su tale tematica, inquadrandola nel più ampio orizzonte della Chiesa come popolo di Dio e della collocazione dei carismi al suo interno. È rivolto soprattutto alle persone consacrate, ma anche ai laici che insieme condividono il medesimo carisma. Spero che risultino utili anche a vescovi e membri del clero diocesano per una migliore comprensione della presenza dei carismi nella Chiesa locale.

Don Giuseppe Mariano Roggia, con il quale ho condiviso il progetto, grazie alla lunga esperienza di animazione della vita consacrata, al termine di ogni capitolo ha collocato un “Laboratorio” con una serie di interrogativi per aiutare nella riflessione e nella condivisione delle tematiche esposte. Ha inoltre arricchito l’esposizione con una serie di esperienze raccolte tra persone consacrate (a cominciare da me) e laici. Il libro risulta così frutto di una intensa collaborazione. Il mio ringraziamento va a don Beppe a tutti quelli che hanno offerto il loro contribuito.

Il testo si presenta come una prima proposta, come l’avvio di un discorso che, data la sua ricchezza, domanda di essere sviluppato con l’apporto di tutte le componenti del popolo di Dio. Mi auguri che i lettori possano continuare nell’approfondimento e nella condivisione delle esperienze per aiutarci insieme in questo cammino “sinodale” verso il compimento della missione della Chiesa.

martedì 24 novembre 2020

Padre Santino Bisignano: una vita donata

P. Santino è nato 88 anni fa (19/8/1932) a Budoia, in provincia di Pordenone. Ha frequentato le scuole elementari e i primi due anni delle medie in due Comuni della Provincia di Savona (Ferrania e Carcare). Siamo negli anni della seconda guerra mondiale. Trasferitosi in Sicilia ha completato le Medie e ha frequentato il liceo classico a s. Piero Patti (ME).

Si potrebbe dividere in 5 tappe la corsa della sua vita, come direbbe s. Paolo, da quando, più o meno diciottenne, conseguita la maturità classica, decise di consacrarsi al Signore nel nostro Istituto missionario. Sono tappe che come una spirale lo portano ad allargare sempre più il cuore per il servizio che gli è chiesto.

La prima tappa è quella degli anni della sua formazione che comincia con il noviziato vissuto a Ripalimosani (CB), al termine del quale, dopo i primi voti emessi il 7 ottobre 1952, si trasferisce allo Scolasticato di s. Giorgio canavese per gli studi di filosofia e teologia.

Nelle note del maestro dei novizi possiamo cogliere alcuni tratti della sua persona:

«Spirito di fede molto sviluppato. Pietà viva e profonda. Molto edificante per lo zelo, l’umiltà, il distacco… Regolarissimo. Docile e ubbidiente come un bambino. Limpido coi superiori come un cristallo. Abbastanza socievole, molto caritatevole, generoso nell’aiutare i compagni.  Amante della vita di comunità. …  Soggetto molto promettente per le sue belle doti naturali e soprannaturali. Felicemente riuscirà prezioso nelle opere della Congregazione, sia nelle missioni che ardentemente desidera, che in Italia, tanto nelle opere di formazione che negli altri ministeri».

Il Superiore dello Scolasticato conferma l’andamento positivo del suo impegno formativo: riesce molto bene negli studi ed è molto applicato nella vita interiore; «dà seri affidamenti per l’avvenire. Soggetto ottimo sotto ogni aspetto».

Ordinato sacerdote a Villalba di Guidonia (RM) il 24 agosto 1958, riceve la prima obbedienza per lo Studium a Roma e poi per la Comunità di Via dei Prefetti per perfezionare gli studi di teologia presso l’Università Gregoriana e per la licenza in psicologia presso l’Università salesiana.

Terminati gli studi inizia la seconda tappa della sua vita. Nell’agosto del 1962 è inviato a Firenze come professore della Scuola apostolica degli Oblati dove resterà fino al 1969.

Sono gli anni del Concilio Vaticano II e sono gli anni della contestazione; anni di profondi cambiamenti all’interno della vita della Chiesa e della società civile. La protesta globale entra in seminario: i giovani in formazione sentono il bisogno di autenticità e di un ritorno al Vangelo. Tuttavia, i seminari, nella maggior parte dei casi, si svuotano… Anche le case di formazione degli Oblati in Italia cominciano a svuotarsi: il noviziato a Ripalimosani chiuderà nel 1968, lo Studentato teologico a san Giorgio Canavese, che rimane aperto, raggiunge comunque il punto più basso di presenze della sua storia».

P. Santino racconta: «In questo contesto ecclesiale e anche oblato mi trovavo anch'io, mentre ero alla Scuola Apostolica di Firenze, dove il Provinciale dell'epoca mi aveva inviato subito dopo gli studi. … Con alcuni confratelli iniziammo a confrontarci e a cercare, nonostante il clima delicato della Provincia, qualche nuova modalità educativa. … La scuola Apostolica di Firenze conobbe, soprattutto nel ‘67 … momenti di grande sofferenza…. Fu in questo periodo che mi giunse l'invito di Chiara Lubich a partecipare all'incontro dei religiosi al Bondone, nel Trentino, che si teneva proprio nel mese di agosto».


Con questo incontro comincia
la terza tappa della vita di p. Santino, quella legata alla nascita della Comunità di Marino e alla rinascita vocazionale del nostro Istituto. Durante quell’incontro che si svolge in montagna, sul Bondone, nel contesto di una profonda esperienza di comunione tra i 25 religiosi presenti, provenienti da diversi Istituti religiosi e aderenti all’Ideale del Movimento dei focolari, «un pomeriggio - racconta p. Santino - dopo aver vissuto uno dei momenti più intensi di grazia, ci siamo trovati con P. Marcello a conversare durante una pausa in mezzo ad un prato. Immediato un pensiero: fare un consenserint, cioè chiedere al Signore, uniti nel Suo nome, che Egli ci facesse dono di una comunità che vivesse con Gesù in mezzo. E che, se questa era la sua volontà, in questa comunità venissero formati i giovani che Lui ci avrebbe fatto conoscere e inviato».

Tutti sappiamo come questa richiesta sarà esaudita: arrivò la casa, a Marino, per le vie impensate della Provvidenza e che si concretizzarono attraverso la generosità della Signora Solina; arrivarono i giovani e con essi, pian piano, negli anni, tante vocazioni.

Dal 1967 ad oggi sono passati per la Comunità di Marino centinaia di giovani, un terzo dei quali, circa, ha scelto di consacrarsi poi nel nostro Istituto.

Intanto lo Scolasticato veniva trasferito da s. Giorgio canavese a Vermicino-Frascati e p. Santino, dopo 4 anni di presenza a Marino (1969-1973), fu trasferito a Vermicino, come superiore della Comunità. Vi rimase nove anni, fino al 1982.


La quarta tappa
è la tappa che lo vede a servizio della Vita della Provincia e della Vita consacrata. È una tappa che comincia nella seconda metà degli anni settanta, mentre era ancora superiore allo Scolasticato e che durerà fino al 2006, 30 anni circa.

Diversi sono gli incarichi e gli impegni che gli vengono affidati; nel versante Oblato: è nominato membro del Comitato permanente Europeo della formazione (’76-‘88) e poi Consigliere provinciale (fine anni settanta); nel 1989 è eletto Provinciale della Provincia italiana, ruolo che rivestirà per due mandati, fino al 1995.

Nel versante della Vita religiosa ha dato un valido contributo in diverse aree: innanzitutto come professore all’Università salesiana e al Theresianum (’76-89), inoltre come Consultore dell’Ufficio formazione dell’USMI (Unione Superiore maggiori d’Italia) e come membro dell’Ufficio formazione della Conferenza Italiana dei Superiori maggiori (CISM) (’83-’90), di cui diventerà Presidente nel 1990. Nel 1994 partecipa al Sinodo della Vita Consacrata come Uditore e nel 2006 è nominato Consultore della Congregazione degli Istituti di Vita Consacrata e le Società di vita apostolica.

Sono tanti segnali della grande stima nei suoi confronti per la competenza e la passione che gli viene riconosciuta nel campo dell’animazione della Vita consacrata.

P. Silvano Pinato, attuale segretario della CISM, che ha voluto farsi presente in questa occasione per dare una sua testimonianza, ricorda p. Santino col «volto sereno, sempre pieno di gioiosa creatività». E poi continua: «Mi lascia il grato ricordo della sua passione per le Vocazioni alla vita religiosa e l'impegno profuso per la formazione dei Formatori. A lui la CISM deve l'avvio dei suoi annuali Convegni per i Formatori che tanto hanno contribuito ad approfondire e dare risposte ai problemi legati alla formazione alla vita religiosa dentro il vigoroso cammino di rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II».

L’ultima tappa lo vede nel cuore della Chiesa universale.

Nel 2006 viene nominato Direttore del Centro catechetico di Propaganda fidae, un’esperienza residenziale per catechisti provenienti da tante parti del mondo. Svolgerà questo compito per tre anni, prima di passare al Collegio Urbano come padre spirituale dei seminaristi dove resta per altri tre anni. I numerosi catechisti e seminaristi da lui accompagnati, hanno fortemente apprezzato il suo spirito sacerdotale, missionario e umano, qualità queste estremamente preziose nell’ambito della formazione; hanno sentito in lui “un vero padre, buono, accogliente e sempre disponibile ad ascoltare ed offrire il necessario aiuto” .

Ha ormai 80 anni, ma è ancora desideroso di rendersi utile. Ed è una gioia grande per lui ricevere  l’invito da parte di S.E.Mons. Angelo Becciu a collaborare nell’Ufficio di corrispondenza di Papa Francesco. Inizia questo compito il 7 ottobre 2013, una data per lui significativa perché coincide con l’anniversario della sua professione religiosa (avvenuta nel 1952). Per 5 anni entra a diretto contatto con il cuore della gente che da tutto il mondo presenta al Papa le proprie gioie e le proprie sofferenze. Tutto questo gli allarga il cuore perché gli dà la possibilità di poter vivere anche in questo modo la vicinanza alla gente e, in particolare, ai poveri dai molteplici volti che come Missionari vogliamo servire.

Nella lettera di saluto a Mons. Paolo Borgia il 26 settembre 2018, a conclusione di questo suo servizio nel cuore della Chiesa, p. Santino scrive: «Dopo 5 anni la salute mi obbliga a ritirarmi per una diminuzione della vista che impedisce la lettura. Inizia così una nuova tappa della mia vita, che coincide con il 60° di Sacerdozio, nella scoperta quotidiana del nuovo modo di essere missionario e di servire la Chiesa».

Come ha vissuto la sua missione negli ultimi due anni di vita? Lo confida in un colloquio ad un confratello: «Ogni mattina prendo una comunità oblata della Provincia per cui pregare. Durante la giornata penso ai singoli oblati di quella comunità; se posso telefono anche a qualcuno di loro. Ma soprattutto prego e offro la mia sofferenza per loro».

Nella sua lunga vita p. Santino ha assunto tanti incarichi e ha fatto tante cose. Chi lo ha conosciuto sa la passione e l’amore che ha messo nel farle e che trovano la loro radice nell’amore per il Signore Gesù, per la Chiesa e per la Congregazione. Un amore illuminato dal Carisma di Eugenio de Mazenod e dal Carisma di Chiara Lubich unificati in una vita che ne ha manifestato la fecondità.

È bello poter riportare qui l’ultimo colloquio telefonico avuto con p. Carmine Marrone, il giorno prima di andare in ospedale: «In questi mesi – dice p. Santino - ho pregato tanto per le persone colpite dal coronavirus e ora il Signore mi fa il dono di poter essere vicino in modo speciale alla loro esperienza di dolore. Offro tutto per la Chiesa, la Congregazione e la comunità di Marino».

Nelle ultime righe del testamento spirituale che p. Santino ci ha lasciato ha scritto: «… La Vergine Maria mi ha sempre accompagnato nella mia vita fin dagli inizi. A lei mi sono affidato pregandola di prepararmi all’incontro, “vestito a festa” come faceva mia mamma nel prepararmi la domenica per la Messa, a celebrare l’Eucarestia».

A lei lo affidiamo perché lo presenti al suo Gesù, fonte e bellezza della vita.


lunedì 23 novembre 2020

La via diretta alla santità

 

Sabato scorso la conferenza su Ovide Charlebois,
trasmessa in streaming:

https://youtu.be/SMc2qTHwaD4

La via diritta per la perfezione e la santità? La carità. Charlebois l’aveva compreso a 19 anni, durante una grave malattia, come ricorda più tardi: «È allora, che ho appreso cos’è questo mondo, è da allora che ho desiderato consacrarmi soprattutto alla salvezza delle anime affinché potessi salvare meglio anche la mia». Diventare santo per fare santi gli altri. Così all’inizio.

Ma dopo anni di missione ecco un’altra prospettiva: «Diventare santi santificando gli altri». È tipicamente oblato: si diventa santi vivendo la vocazione missionaria, non pensando alla proprioa santità ma a quella degli altri.

Concretamente Charlebois ha vissuto tutta la vita in mezzo alla sua gente e l’ha amata. Ha studiato la lingua cree, ha visitato villaggi e famiglie, ha condiviso la povertà e l’ha alleviata, ha curato l’educazione dei ragazzi. Dal diario appare il profondo legame che si creava con i nativi e il reciproco rispetto che nasceva:

“Trovai in questo campo quasi 40 selvaggi, tutti cattolici e buoni cattolici. Quale non fu la loro gioia nel vedermi! Quale sollecitudine nel confessarsi e comunicarsi! Come sono semplici e buoni! Questo è dovuto al fatto che non si sono ancora contaminati con i bianchi. Il missionario è tutto per essi. Lo amano e sentono che sono amati. Ma là come altrove, trovai la povertà e la miseria. 


In un altro campo, battezzai due bambini. Prima di lasciarli uno di essi venne a trovarmi e mi disse: «Sono molto contento, Padre mio, che sia venuto a dirci delle buone cose che fanno del bene alle nostre anime. Per provarti che il mio cuore è riconoscente, tieni! Ecco che ho qui tre pellicce, una di lontra, una di castoro e l’altra di martora. Scelga quella che vuoi». Questa è una prova che, se ci sono dei selvaggi ingrati, ce ne sono anche di quelli che sanno mostrarsi riconoscenti”.

Fin dagli inizi è considerato come un padre. Il 17 marzo 1889 scrive nel diario:

“Ho letto oggi la mia seconda istruzione in cree. Dopo la cerimonia un buon meticcio è venuto a farmi la sua critica: «Padre, ci si comprende molto bene e questo è bello, ma c’è una cosa che non mi piace e cioè che dite: n’Totemetik (miei amici)! Perché non dite: n’Tawassimissitik (miei figli)? La chiamiamo padre e lei ci chiama amici. Questo non è giusto!» Gli ho fatto osservare che questo era dovuto al fatto che sono ancora giovane per chiamarli figli. «No, non è così, lei è per noi un padre allo stesso modo di un sacerdote anziano.» Ho promesso di dargli soddisfazione per il futuro. Questo vi mostra la fede dei nostri fedeli”.

P. Dubeau, al processo ordinario di Keewatin, ha testimoniato:

“Il servo di Dio amava gli indiani perché si era donato a loro. In tutti i suoi sforzi, le sue parole, i suoi scritti, l’amore per gli indiani dominava sempre. Quando a volte parlava ai bianchi, se vedeva passare un indiano lasciava il bianco, scusandosi, per andare a salutare l’indiano. (…) Gli indiani sapevano che monsignore li amava. Andavano da lui senza timore, con fiducia, raccontandogli le loro difficoltà e chiedendogli l’intercessione. Andavano da lui come da un padre. (…) Non conosco indiani che abbiano conservato un brutto ricordo di mons. Charlebois”. 

domenica 22 novembre 2020

Padre Santino uomo di comunione


Tra le tante testimonianze mi pare particolarmente bella questa di p. Pier Giordano Cabra

Ho appreso con commozione la notizia della morte del P. Santino Bisignano.
Ci siamo conosciuti proprio alla CISM agli inizi degli anni 80, e, da buoni coetanei, siamo diventati presto amici  e collaboratori, in contatto fino al mese scorso.
Vorrei ricordarlo come un uomo di fede limpida e serena, che credeva nel rinnovamento promosso dal Concilio, senza lasciarsi impaurire da chi frenava  o intimidire da chi correva, magari alzando la voce.
Perché Santino era un uomo  di comunione  fra i diversi  carismi, fra i diversi orientamenti, fra le diverse componenti della Chiesa.
Amava sinceramente la Chiesa  e si prodigò perché essa apparisse sempre meglio come la sposa di Cristo, bella nel suo vestito policromo.
Era un religioso autentico che onorò questo nome e quello del suo Istituto.
In lui ho apprezzato il senso del servizio,  e la competenza umana e spirituale, frutto di una  vita interiore che guarda all'uomo con gli occhi del Signore.
Soprattutto mi ha insegnato, fino agli ultimi giorni, ad accettare dalle mani di Dio ogni evento, come offerta e risposta di amore.
Lo ricordo volentieri alle nuove generazioni, come uomo di Dio, amabile e sincero.

sabato 21 novembre 2020

I grandi orizzonti di padre Santino

 

È sabato sera. Abitualmente medito sul vangelo della domenica e scrivo le mie due righe. Il Vangelo questa volta ci presenta Cristo Re che, seduto sul suo trono, compie il giudizio finale. E sento che, rivolto a p. Santino, gli dice: “Vieni, benedetto del Padre mio, ricevi in eredità il regno preparato per te fin dalla creazione del mondo…”

Lo strumento di ricerca del mio blog è potente. In un attimo posso trovare persone, luoghi, temi… In più di 10 anni, con quasi 4000 post, ho scritto di tutto. Cerco “Sante Bisignano”… e mi vengono due post soltanto! Ho scritto così poco su di lui? È sempre così, di quelli che ci sono più vicini non c’è motivo di scrivere… perché ci sono così familiari, così vicini, appunto…

Entrato a 19 anni dagli Oblati, proveniente dalle file dell’Azione Cattolica, p. Santino avrebbe voluto partire per le missioni del Lesotho, in Sud Africa, ma erano soltanto in due quell’anno a ricevere la destinazione e si doveva scegliere: l’altro, un certo Marcello Zago, fu mandato in Laos, mentre a Santino fu affidato il compito della formazione.

Ed eccolo al liceo di Firenze dove l’ho conosciuto. È stato lui ad accogliermi tra gli Oblati: avevo 17 anni. Poi l’ho ritrovato costantemente lungo la mia strada: superiore della comunità di Marino, dove c’ero anch’io, superiore dello Scolasticato di Vermicino, dove c’ero sempre anch’io… Non so se fosse lui a seguire me o io a seguire lui… fino a quando sono diventato suo successore come superiore allo Scolasticato e lui mio provinciale… Insomma una vita sempre insieme.

È sempre stato un uomo dai grandi orizzonti. Forse perché ha vissuto in mezzo ai giovani. Ha sempre insegnato, all’Università Salesiana, al Teresianum, al Claretianum... Sempre con i giovani, col cuore giovane. E col cuore grande, dilatato sulle realtà ecclesiali, sociali, politiche, su raggio mondiale, con sguardo positivo, propositivo…

Un uomo così, che ha fatto conferenze, tenuto corsi, convegni (famosi quelli della CISM)… non ha mai scritto un libro. Eppure ha scritto tanto. Per la verità aveva preparato un libro sul noviziato, ma poi se l’è visto pubblicare, senza neanche un grazie o una menzione, da un suo alunno divenuto professore. Non ha mai pubblicato un libro perché sempre insoddisfatto di quello che preparava, che rimaneva indietro rispetto al nuovo che gli nasceva dentro continuamente. E poi a lui premevano soprattutto le premesse, gli orizzonti da cui si doveva partire prima di ogni discorso, e i suoi orizzonti erano così vasti che quando aveva terminato di delinearli, le conseguenze gli sembravano così immediate e piccole che non le sviluppava neppure… Così il libro non veniva mai fuori, gli stava troppo stretto.

Questi ultimi anni viveva in una stanza piccola piccola, a via dei Prefetti, con una finestra dall’orizzonte altrettanto ristretto, con la visione di qualche tetto… Eppure continuava a spaziare.



Quando, per raggiunti limiti di età, dovette lasciare la direzione del Collegio San Giuseppe in Vaticano e due anni dopo il Seminario pontificio di Propaganda Fide, mi chiamò sgomento: “Adesso come posso continuare a servire la Chiesa?”. Contemporaneamente dalla Segreteria di Stato vaticana mi chiesero se potevo presentare una persona di una certa età, con esperienza, per lavorare nella segreteria del Santo Padre. Andai di corsa da Santino: “Ho trovato come puoi continuare a servire la Chiesa!”. Eccolo così al suo ultimo incarico, che gli ha consentito uno sguardo unico sull’animo umano e sui problemi del mondo intero.

Quando si rese conto che non riusciva più a leggere dovette lasciare anche questo ufficio e ha dedicato l’ultimo tempo della sua vita al servizio più silenzioso e forse più efficace: la preghiera, per tutti… a cominciare dalle molte persone che passavano per la strada davanti a casa sua…

Ogni giorno mi telefonava. Mi raccontava delle letture, poi diventate ascolto, quando a leggergli gli scritti era ormai il computer, vista la progressiva diminuzione della vita. Mi raccontava del suo rapporto con Dio, delle sue scoperte interiori. Aveva ottant’anni avanzati e continuava a scoprire cose nuove, con entusiasmo, con meraviglia. Mi raccontava delle telefonate che gli facevano i suoi antichi studenti, da tutte le parti del mondo, e delle telefonate che egli faceva, in tutte le parti del mondo. Perché seguiva tutti e tutto: politica, vita ecclesiale, problemi sociali… Si interessava delle comunità oblate, della formazione, delle nuove vocazioni. Tutto gli apparteneva e viveva per tutto e per tutti. Come adesso, in Cielo.

venerdì 20 novembre 2020

Alla scoperta dei santi romani: Caterina da Siena

 

A marzo scorso il lockdown ha interrotto le nostre visite ai santi romani.

Sabato 21 novembre, alle ore 16-00-17.00, riprenderemo le visite, cominciando da dove ci eravamo lasciati: s. Caterina da Siena.

Andremo a vedere dove ha vissuto a Roma negli ultimi due anni della sua vita.

 

Il 18 giugno del 1376 va ad Avignone e riesce a far tornare a Roma il papa Gregorio XI. Quando alla sua morte viene eletto un antipapa inizia lo Scisma d’Occidente. Il nuovo papa, Urbano VI, chiama Caterina da Siena a dare sostegno alla Chiesa. Ella giunge a Roma il 28 novembre 1378.

In un primo momento Caterina dimora al Rione Colonna e poco tempo dopo, dal 2 luglio 1379, in una casa, ancora esistente, in Via del Papa, oggi Piazza Santa Chiara 14, accanto al Pantheon

Quotidianamente ella va a pregare alla basilica di San Pietro per i bisogni della Chiesa. «Appena giorno scendeva dal letto – annota il biografo –, e partendo dalla strada detta la Via del Papa, dove stava di casa, fra la Minerva e Campo de’ Fiori, se ne andava a piedi lesta lesta a san Pietro, facendo un cammino da stancare anche un sano».

Quando muore, la domenica 29 aprile 1380, Caterina ha trentatré anni.

Vedremo la strada che percorreva, sua casa, la sua tomba nella chiesa della Minerva (senza testa, presa dai senesi), con accanto quella del beato Angelico... Il chiostro del convento domenicano…

La visita sarà naturalmente… via zoom, ormai siamo abituati!

Chi fosse interessato potrà richiedermi il link.

Allora buona visita!


giovedì 19 novembre 2020

Il testamento di padre Santino


Questa mattina presto, dalle 4 alle 5, nella mia stanza, ho recitato le preghiere per i moribondi e gli ho impartito l’assoluzione, mentre lui continuava a rimanere solo, nella stanza dell’ospedale. Poi ho aperto una sua lettera che mi aveva consegnata qualche mese fa, con su scritto “Riservata”: era copia del suo testamento spirituale. Un’ora dopo è partito per il cielo.




Così ci ha lasciato scritto p. Santino Bisignano:

Roma, 9. 04. 019

Questa sera pensavo alla ultima “chiamata per nome” del Signore. Mi chiedevo cosa lasciare. Solo questo: Vorrei che tutta la mia lunga vita componesse una sola parola: Gesù, il Verbo Incarnato, il Figlio della Vergine Maria.

Vorrei che la mia vita lo annunciasse e lo offrisse come dono immenso del Padre ad ogni persona e a tutto il creato. Lui è la Vita! Lui è la fonte e la bellezza della Vita. È l’Amore del Padre che ci avvolge, illumina, ammaestra e guida. Seguirlo nel nostro quotidiano e respirando Chiesa è già porre un tassello vivente nella costruzione in atto della società.

Mi ritiro in silenzio per unirmi alla preghiera di Papa S. Paolo VI a Manila: lo presenta, lo annuncia, lo offre guardando con gli occhi del cuore e la passione di chi “conosce” l’Unigenito Figlio del Padre, Salvatore e Signore.

Unisco alla presente la sua preghiera, in comunione con Papa Francesco. Seguire Gesù è accogliere l’insegnamento e la testimonianza di Papa Francesco. Quando penso a lui, per averlo conosciuto più da vicino nel servizio richiestomi, lo vedo una cosa sola con Gesù e questo spiega, mi dico, il suo coraggio evangelico, il suo stile di vita, l’amore per una Chiesa limpida e testimone, rivela l’amore per la gente e l’umanità nella varietà dei suoi volti e nella ricerca di pace, giustizia, dignità.

La Vergine Maria mi ha sempre accompagnato nella mia vita fin dagli inizi. A Lei mi sono affidato pregandola di prepararmi all’incontro, “vestito a festa”, come faceva mia mamma nel prepararci la domenica per la Messa, a celebrare l’Eucaristia.

(in allegato l’Inno a Cristo di Paolo VI, Manila, 29 novembre 1970)