mercoledì 30 novembre 2016

Volano le foglie come le farfalle



I bambini di una prima elementare di Roma, alla ricerca della foto di una foglia gialla d’autunno, l’hanno trovata su un mio post pubblicato giorni fa. Erano foto di foglie autunnali scattate l’anno scorso in Canada.
Le mie foto hanno fruttato bellissimi disegni e composizioni, tra cui:

Un autunno d’oro.
Il bosco in autunno ha tante foglie colorate.
Le foglie sono sotto l’albero.
Una foglia è sul ramo.
Volano le foglie come le farfalle.


martedì 29 novembre 2016

Giovanni Santolini: “Siamo di passaggio”



21 novembre. 62 anni fa nasceva Giovanni Santolini. Buon compleanno!
Il 23 marzo 1993 mi scriveva dallo Zaire:

“Siamo di passaggio”
Ieri è arrivata la notizia della morte di Mons. Toussaint. Ho celebrato per lui la Messa questa sera assieme agli scolastici e ho fatto l'omelia sull'essere missionari.
Dove va a finire tutto quello che abbiamo fatto?
Quando sei partito tu hanno detto qualche cosa, ma poi tutto sommato quello che si ricorda è solo che avevi un carattere brusco, che hai messo dell'ordine nelle finanze…
Quante cose si diranno alla morte di ognuno, quante cose non si diranno…
Ma certamente quello che hai vissuto dentro, i tuoi drammi, le pene che hai sofferto, le contradizioni, le speranze, quelle non può dirle nessuno, non possono neppure capirle perché sono cose tue, sono il segreto tra te e il tuo io, tra te e il tuo Dio.
Quello che potrebbe fare male è vedere come tutto cade nell'oblio e dopo poco tempo quello che tu hai fatto, credendo che fosse la cosa più importante, sarà dimenticata e nessuno si ricorderà di te.
Ma che cosa resta?
È vero che resta l'amore che hai dato, ma poi ne vale la pena?
Se lo hai vissuto tra te e te, non ne vale la pena, assomiglia al mio diario che ho scritto per un anno e poi per un errore di dischetto è stato cancellato completamente, ma se è vissuto tra te e Lui allora resta nel suo cuore e questo vale, e vale la verità che sembra anche che non esista.


lunedì 28 novembre 2016

Morire come figlio di Maria


Oggi è l’anniversario della consacrazione della cappella degli Oblati nel cimitero del Campo Verano a Roma. Sono 64 gli Oblati ivi sepolti, alcuni famosi, come mons. Allard, iniziatore della missione in Sud Africa, padre Baffie, che ha scritto un bellissimo libro su sant’Eugenio, il vescovo Dontenwill, superiore generale negli anni Venti, padre Anselmo Trèves, un santo particolarmente amante della Madonna, sulla quale ha scritto tantissimo, i Padre Dindinger, Perbal e Seumois, grandi professori di missiologia all’Urbaniana, italiani come Gaetano Drago, Carlo Irbicella, Luigi Rossetti, Angelo Mitri… Altri di cui si ricorda appena il nome, a cominciare dal primo che vi fu sepolto nel 1868, certo Fratel Francesco Gandolfi, nato in Corsica nel 1855. L’ultimo è padre Le Page, che ci ha lasciato due anni fa.
Come da tradizione anche quest’anno siamo stati a celebrare la messa sulla loro tomba.
Vedendo i nomi di tanti che ho conosciuto di persona o di fama, e di altri che non ho conosciuto e che non so neppure chi siano, ho ricordato una lettera di sant’Eugenio a p. Joseph-Alexandre Ciamin, gravemente ammalato, con la quale lo invitava ad accettare con fiducia la volontà di Dio e ad essere pronto a morire nella Congregazione:

Spero che possiate riavere la salute, quantunque i medici, a quanto mi dite, hanno decretato altrimenti; ma se fosse un disegno della divina Provvidenza abbreviare il corso del vostro esilio terreno per farvi godere più presto il beato possesso di Dio (…), allora, se il Signore volesse chiamarvi a lui, non sarebbe forse un segno di predestinazione morire in seno alla Congregazione? Non sapremmo mai ringraziare abbastanza il Signore di averci concesso, a preferenza di altri, una tale grazia. E noi siamo stati costantemente testimoni di questa meraviglia dacché esiste la Congregazione, perché tutti quelli che sono morti sono morti da predestinati. Dio, tanto buono, ha voluto far sentir loro questo privilegio coi sentimenti che istillava nelle loro anime. Tutti, senza eccezioni, confessavano di non aver parole per esprimere la gioia che provavano nel morire da figli della Congregazione in cui la misericordia di Dio li aveva chiamati. (…)
Perciò, caro p. Ciamin, qualunque cosa possa succedere, vivrete e morrete figlio di Maria nella Congregazione nella quale avete fatto la vostra professione in aeternum. (9 aprile 1853).


domenica 27 novembre 2016

Al Palatino con san Leonardo da Porto Maurizio



Il Colosseo visto dal giardino del convento
L'ingresso al convento
Dal conventino di san Bonaventura al Palatino, san Leonardo da Porto Maurizio guardava il Colosseo, ormai ridotto, da secoli, a cava di marmi, pietre e travertino. Poteva starsene tranquillo mentre il monumento che testimoniava il martirio di migliaia di cristiani stava scomparendo?
Si era alla vigilia del Giubileo dell’anno 1750. Le sue prediche infuocate attiravano i romani, sempre più numerosi. Anche il papa veniva ad ascoltarlo. Era l’occasione propizia per piantare la Via Crucis nel Colosseo, dichiarandolo luogo sacro per i Martiri. Gli storici hanno poi dimostrato che nel Colosseo non furono mai martirizzati cristiani, ma la predicazione – in buona fede – di San Leonardo impedì l’ulteriore rovina del monumento.
Morì l’anno dopo, il 26 novembre, e a San Bonaventura al Palatino occorsero i soldati, per tenere indietro la folla che voleva vedere il Santo e portarne via le sue reliquie.


La cella di san Leonardo
Oggi, festa di san Leonardo, ho accompagnato la mia comunità al suo conventino, seguendo le orme di sant’Eugenio, che vi si era recato varie volte.
Ne aveva letto la vita e gli scritti. Alfonso Maria de’ Liguori lo aveva definito «il più grande missionario del nostro secolo» e sant’Eugenio se lo prese come protettore e modello delle sue missioni al popolo.

Il 28 febbraio 1826, nel periodo della sua permanenza a Roma per l’approvazione delle Regole, Sant’Eugenio visita per la prima volta il convento. Dal suo Diario:

28 febbraio 1826
Sono stato a dire Messa a San Bonaventura, nella casa del ritiro dei padri francescani. Il Beato Leonardo da Porto Maurizio è morto in questa santa casa. […] Ho detto Messa all’altare principale sotto il quale si trova il beato Leonardo, con l’abito religioso. […]
In una stanza si conservano il pagliericcio, le assi e i sedili del letto sul quale il Beato è morto. È una piccola cella dove adesso, di fronte alla porta, si vede l’altare che è stato costruito, a destra una piccola credenza che racchiude gli ornamenti, a sinistra il posto dove era il letto del santo. Da un lato e dall’altro della porta sono stati messi due grandi reliquiari: nell’uno si trova l’abito in cui è morto, il cordone e la sua spaventosa disciplina composta da taglienti lame di ferro; nell’altro lo stendardo che innalzava in missione e una scatola di sue reliquie. Intorno alla cella sono rappresentati, in piccoli quadri, diversi miracoli avvenuti per intercessione del beato.

15 marzo 1826
Sono andato verso il ritiro di S. Bonaventura dove ho detto la santa Messa nella stanza dove morì il beato Leonardo da Porto Maurizio.

Vi tornò nel 1854, in occasione del suo soggiorno a Roma per la proclamazione del dogma dell'Immacolata:

22 novembre 1854
Sono stato a visitare la cella dove aveva dimorato il beato Leonardo da Porto Maurizio e da dove era salito al cielo. Come mi sentivo a mio agio in quel piccolo sacrario da dove mi sono allontanato con tanto vivo dolore. Uscendo di lì e rientrando in chiesa per tornare a venerare ancora una volta il santo corpo del beato dicevo tra me: fra breve dovrò ritornare nei bei saloni del Quirinale per vedervi sfilare tutte le umane grandezze. Ma che cosa sono paragonandole a quello che qui mi delizia tanto! Né provai altri sentimenti quando le vidi sotto i miei occhi.


sabato 26 novembre 2016

Avvento: verso l’incontro con Gesù




Nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla» (Mt 24, 37-44)
  
“Non si accorsero di nulla”. Un evento straordinario stava per accadere sulla terra e loro erano tutti intenti in attività importanti, ma non nell’unico necessario; presi dalle molte cose, paghi degli affari ordinari, con gli occhi bassi, senza alzare lo sguardo verso l’altro e senza capire il perché del loro doveroso affannarsi.
Così al tempo di Noè, così al tempo di Gesù, così oggi.
Siamo tutti sempre di corsa, occupati in mille iniziative, intenti a costruire la nostra città terrena. Così dobbiamo fare (a parte la corsa!) in obbedienza al comando delle origini: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela…”. Dobbiamo mangiare e bere, prendere moglie e marito… Quello che spesso dimentichiamo è “perché”. Sarebbe come se, durante un viaggio, dimenticassimo la meta e ci perdessimo per strada.
Tutto ha un senso, una direzione, un fine, una meta: l’incontro con Gesù.
Ogni gesto, ogni azione, un passo che ci avvicina a lui. Camminiamo godendo delle piccole gioie disseminate lungo la strada, ma senza fermarci ad esse, anche se ne siamo immensamente grati per ogni dono che Dio ci offre. Compiamo con impegno (o almeno vorremmo) il lavoro che ci dà da svolgere, attenti che tutto sia amore e donazione, ma sempre con l’intento di prepararci all’incontro con lui, così da non arrivare a mani vuote. Perché quell’incontro ci sarà, anche se non sappiamo quando e come. Siamo stati fatti per quello, viviamo per quello.


venerdì 25 novembre 2016

Khoarai: cardinale senza berretta (per poco)



Tra i 13 nuovi cardinali creati da Papa Francesco ci sono anche tre vescovi "che si sono distinti nel loro servizio pastorale. Essi – annunciata il Papa il 9 ottobre – rappresentano tanti Vescovi e sacerdoti che in tutta la Chiesa edificano il Popolo di Dio, annunciando l’amore misericordioso di Dio nella cura quotidiana del gregge del Signore e nella confessione della fede”. Uno di loro è un Oblato, Sebastian Koto Khoarai, vescovo emerito di Mohale's Hoek nel Lesotho. Ignoto il vescovo e ignoto il suo Paese (dove sarà mai il Lesotho?). Assente anche dalle pubblicazioni degli Oblati. Su internet appare per la prima volta al momento della nomina. Degli altri 12 cardinali i mezzi di comunicazione hanno parlato in lungo e in largo, di lui non si sono neppure accorti che non è venuto a Roma a ricevere la berretta cardinalizia, perché anziano e ammalato; probabilmente andrà a consegnargliela il nunzio apostolico.
S.E. Mons. Sebastian Koto Khoarai, nato l’11 settembre 1929, dopo essere entrato negli Oblati di Maria Immacolata, è stato ordinato sacerdote il 21 dicembre 1956 e il 2 aprile 1978 è stato consacrato vescovo di Mohale’s Hoek. 10 anni fa ha presentato le dimissioni per raggiuti limiti di età, ma è rimasto Amministratore Apostolico della diocesi fino al febbraio 2014. Dal 1982 al 1987 è stato Presidente della Conferenza Episcopale del Lesotho.


Perché il Papa l’ha nominato cardinale? È proprio nello stile di Francesco scegliere persone della lontana periferia, umili e semplici, che hanno svolto il loro ministero con amore e con passione ma anche nel nascondimento.
Tale sembra sia stato anche mons. Khoarai.
Abito con tre studenti Oblati del Lestho, Francis, Sebanzile e Mokete. Uno di loro, Francis, è cresciuto nella sua diocesi ed è stato cresimato da lui. Gli ho chiesto che mi raccontasse qualcosa del nuovo cardinale.
Quando è stato nominato vescovo della diocesi creata con lui, ha dovuto iniziare tutto da zero, nella costruzione delle chiese, nella cura dei sacerdoti, nell’organizzazione. Non ha costruito soltanto chiese, ma anche case per la gente più povera. Ha passato i suoi anni viaggiando su per le montagne a visitare il suo gregge ed essere vicino ad ognuno. La sua casa, anche adesso, è aperta a tutti per ogni tipo di incontro e riunione ed egli è sempre a disposizione di ognuno, come un vecchio padre. Uno dei tanti pastori sconosciuti in un Paese sconosciuto, ma ben noto a papa Francesco…


giovedì 24 novembre 2016

Aletta e la santità di fanteria



Avrei dovuto portarle l’unzione degli infermi a fine mattinata, ma è morta nella notte. Così l’ho vista ormai distesa nella bara bianca. L’avevo salutata a telefono il giorno prima e mi aspettava. Mi voleva, chissà perché, un bene sincero, riservato e insieme effusivo.
Aveva ricevuto il nome di Aletta il giorno stesso che, per la prima volta, aveva incontrato Chiara: un invito a dare un colpo d’ala, a lascia il passato e volare decisa e libera verso Dio. La sua parola di vita – “Beati i puri di cuori, perché vedranno Dio” – le si leggeva in volto e l’ha portata a vedere Dio: è andata a occupare il posto che Gesù le aveva preparato salendo al cielo. Santità semplice ed evidente, la sua.

Oggi, durante la messa del funerale, ho distribuito la comunione a quanti stavano nell’ultimo settore nella sala del centro mariapoli. Una dopo l’altra le persone mi passavano davanti, chi più grave, chi più sorridente, per ricevere l’Eucaristia. Li conoscevo quasi tutti, alcuni da venti, da trenta, da più anni ancora. Persone d’un pezzo, che tirano avanti serie, impegnate, senza tante storie. Che impressione saperle così fedeli, sempre al loro posto di lavoro, convinte nel dare il loro apporto nascosto alla grande causa dell’unità!
Forse nessuna di loro, o poche, avranno un funerale così solenne come quello riservato ad Aletta. Forse se ne andranno via in silenzio, come d’altronde in silenzio se n’è andata Aletta. Non si parlerà tanto di loro, non se ne scriverà la biografia. Mi sono sembrate come la fanteria della Chiesa, che portano avanti la battaglia della fede, senza troppa appariscenza. Eppure non sono meno sante e i loro nomi sono scritti in cielo.
Com’è umile, bella, indispensabile la santità di fanteria!


mercoledì 23 novembre 2016

Fedeltà

Un altro dei miei articoli sul Nuovo Dizionario di Mistica: “Fedeltà”.

La fedeltà sembrerebbe non essere attinente al registro della mistica, perché la sua recezione nel linguaggio corrente è quella negativa di un atteggiamento di salvaguardia dell’amore dal tradimento, piuttosto che quella attiva di una crescita e pienezza d’amore. Invece è una componente essenziale dell’amore. Ne esprime la perennità, l’impegno, il dinamismo. L’amore vero comporta una adesione costante e indistruttibile, perseverante nella durata malgrado la prova del tempo e le difficoltà che possono sorgere nel rapporto fra amici ed amanti. L’amore esige inoltre l’impegno sincero a mantenere fede alla verità del rapporto e alla promessa, anche se implicita, di totalitarietà ed esclusività. L’amore è quindi l’anima della fedeltà e la fedeltà la prova e l’espressione dell’amore.

I. La Scrittura addita la fedeltà come una delle più espressive chiavi per la lettura del rapporto tra Dio e il suo popolo. Nel contesto dell’alleanza veterotestamentaria essa indica l’atteggiamento di Dio che, liberamente e mosso solo dall’amore, si prende cura dell’uomo e lo chiama alla comunione con sé. L’immagine sponsale - evocata soprattutto dai profeti - approfondisce la comprensione del legame d’amore che Dio stringe con il suo popolo. Una volta che Dio ha dato il suo amore non lo ritira più indietro. Dio non cambia nelle sue scelte. Al suo popolo egli chiede la stessa qualità d’amore. Ma non è mai un patto alla pari, perché anche quando il popolo gli è infedele e come una donna lo tradisce con altri amanti, egli continua a conservare il suo amore, anzi l’infedeltà lo rende geloso e lo porta ad amare ancora di più.
La fedeltà di Dio non dipende alla fedeltà dell’uomo, continuerà ad affermare il Nuovo Testamento (Rm 3,3). Anzi, davanti all’incapacità dell’uomo di essere fedele, sarà Dio stesso, in Cristo, a portare la fedeltà nel cuore dell’umanità. In Cristo, che subisce la prova per venire incontro a quanti sono provati (Eb 2,18), l’umanità intera è rivestita della fedeltà di Dio e dice il suo “amen” (2 Cor 1,19-21).
Da parte dell’uomo la fedeltà si esprime nell’adesione piena all’amore di Dio che si manifesta nella sua volontà: chi osserva i comandamenti di Gesù dimora nel suo amore, come lui, avendo osservato i comandamenti del Padre, dimora nel suo amore (Gv 15,10). La fedeltà consiste nel seguire totalmente e costantemente ad ogni ispirazione interiore, in risposta agli inviti dello Spirito che parla al cuore dell’uomo. La fedeltà alle “piccole cose” significate dalla volontà di Dio del momento presente, dispone ad abbandonarci con piena fiducia alla conduzione libera dello Spirito:

II. Nella vita cristiana. Così la fedeltà appare, nella sua realtà dinamica e creativa, come attaccamento ad un disegno d’amore che si dispiega di giorno in giorno in modalità inedite; un disegno perseguito con ostinazione, malgrado gli ostacoli e gli eventuali sbagli. La decisione di amare non è fatta mai una volta per tutte. Va continuamente rinnovata, ogni giorno. È un’avventura nella quale si scopre la novità perenne dell’amore di Dio. Ci si accorge che è lui che guida, lavora, purifica, fa crescere. È lui che, con il suo Spirito, viene in noi per rispondere alle sempre nuove chiamate che segnano il cammino della vita. Di qui la dimensione attiva e insieme passiva della fedeltà: la tensione nostra, sempre rinnovata, per rinnegare tutto ciò che non è Dio e per donargli completamente cuore, mente, forze; l’azione di Dio che viene incontro alla nostra debolezza e che prende l’iniziativa della nostra purificazione, della nostra donazione, dell’itinerario di vita spirituale.
La fedeltà diventa una relazione viva e dinamica, un colloquio nel quale forse ci si dicono le cose di sempre, eppure fatte sempre nuove dall’amore. Come ogni rapporto anche questo ha una sua storia, un cammino, una crescita, con momenti belli, difficoltà, smarrimenti, notti, nuovi slanci, luce, pace, intimità... È un dialogo nel quale si intesse un legame sempre più profondo, attraverso il quale ci si realizza pienamente, in una crescita continua che ci porta a diventare quel capolavoro che Dio da sempre ha pensato: non si finisce mai di conoscersi e di amarsi. L’amore è sempre nuovo: è il rinnovamento permanente.
L’eternità dell’amore di Dio, incontrandosi con la storia concreta di ogni uomo, in quell’ora e in quel luogo, suscita un’altra eternità: chiama a stare con lui stabilmente, per sempre. Da sempre, nel suo grande amore Dio ci ha scelti in Cristo per essere, per sempre, santi e immacolati al suo cospetto (Ef 1,4). Lui da sempre, noi per sempre. Il suo da sempre ci trascina in un per sempre. Raggiunto dall’amore di Dio l’uomo è coinvolto in un processo d’amore che non ha fine e procede verso l’eternità, avvolto nell’infinito. Da parte di Dio la nostra storia non ha principio perché è “da tutta l’eternità”. Da parte nostra inizia con la chiamata personale di ognuno di noi, ma ha subito il sapore dell’eternità perché non avrà mai fine.
È chiaro allora che l’amore, per essere vero, non può avere limiti di tempo. L’amore, per andare in profondità, ha bisogno della durata. Ci vuole tempo per imparare a conoscersi pienamente. Solo con il tempo si raggiunge l’intimità vera. Un rapporto autentico e profondo è il frutto di una vita.


martedì 22 novembre 2016

Lucia parla del fratello, il beato Mario Borzaga


11 dicembre, beatificazione di padre Mario Borzaga omi.
Lucia, sua sorella, comunica la sua emozione.

Temevo di non poter arrivare a vedere riconosciuto quanto la pur breve vita di Mario fosse stata straordinaria. Ora Dio mi ha concesso questo dono.
Sono felice per Mario e per il suo catechista laotiano Paolo ma soprattutto felice per la Chiesa del Laos, da sempre martire silenziosa e lontana dai riflettori, in un Paese dove ancora oggi ci sono limiti evidenti alla pratica del culto e alla libertà religiosa.

Avremmo da ricordare gli episodi dell’infanzia e della giovinezza vissuti con Mario, le escursioni in montagna, i pomeriggi a giocare a pallone, il suo amore per la musica e la poesia.
La passione per il ciclismo gli costò la bocciatura in quinta ginnasio all’esame di greco. Lo stesso giorno il Giro d’Italia faceva tappa in Trentino, così fece l’esame in fretta pur di non perdersi Coppi e Bartali. In seguito passò l’esame, studiando poco in verità “Lo so già il greco”, si giustificava con mio padre che lo pungolava allo studio.
Superata la prova un bel giorno trovammo il libro di versioni che sventolava sopra il camino!”.
Alle ore di studio si alternavano anche ore di lavoro manuale, per il quale a dire il vero mio fratello era proprio negato, preferiva suonare il pianoforte e scrivere. E pensare che poi in Laos si è messo perfino a costruire le capanne con le canne di bambù... forse anche questa è una virtù eroica.

Ho visto nascere e crescere la vocazione di Mario fin da bambino innamorato di Gesù, lo ha scelto come amico e ha proseguito mano nella mano con Lui anche nei momenti oscuri e difficili della missione, resa più ardua dalla guerriglia comunista.
In seminario il padre spirituale, don Eugenio Bernardi, lo stimava molto, tanto che dopo aver saputo della sua morte, nel suo Diario scrive «è l’unico santo che ho incontrato nella mia vita».
Ed è dalle pagine del “Diario di un uomo felice” che Mario annota, quattro anni prima della sua morte: «Ho capito la mia vocazione: essere un uomo felice pur nello sforzo di identificarmi col Cristo Crocifisso». È il mistero del dolore. Tra le righe del “Diario” traspare tutta la ricchezza spirituale di padre Mario, che non nasconde la durezza della vita missionaria: la fatica della solitudine, la fame, le insidie della foresta, la paura dei guerriglieri pathet lao. A volte confessa di essere «assalito dalla paura di morire, di impazzire, di essere abbandonato da Dio».
Ma il suo amore per il grande Amico non è mai venuto meno, è sempre rimasto accanto agli ammalati, tra la sua gente, adoperandosi per formare catechisti. Era un contemplativo dell’umanità di Gesù che ritrovava nei fratelli, nei poveri. Si prendeva cura del prossimo con piccoli gesti, un sorriso, una stretta di mano. Era lì che sentiva la volontà di Dio.

Uno stile di vita cristiana animata dalla preghiera e dall’amore gratuito per il prossimo. La sua santità è sì eroica, ma imitabile. Quindi non parliamo di una figura mistica, meglio di un santo senza aureola, di una tensione all’amore che si può imitare.

Con la famiglia c’era una corrispondenza epistolare mensile.
Poco prima della morte le sue lettere tardavano tanto che la mamma si lamentò. Lui, allora, motivò la mancanza per i troppi impegni in missione con la promessa che la prossima sarebbe stata una lettera lunga come un treno. Quella lettera, purtroppo, non arrivò mai. Abbiamo appreso la notizia della loro scomparsa dalla radio, confermata poi dall’agenzia Ansa e dal Superiore degli Oblati. Dispersi. Si pensava fossero stati fatti prigionieri, la mamma nel suo cuore ha sempre sperato in un ritorno. I loro corpi non sono mai stati trovati. Solo dopo 40 anni arriveranno le prime testimonianze, che confermano l’uccisione di entrambi per mano del Pathet Lao, gettati in una fossa mai identificata con precisione.


lunedì 21 novembre 2016

domenica 20 novembre 2016

Come sono nate le COMI


Al ritiro di Firenze, 1951
21 febbraio 2001: le Cooperatrici Oblate Missionarie dell’Immacolata, COMI, ricevono l’approvazione del loro Istituto. Mi piace rileggere i ricordi degli inizi così come li ha raccontati il fondatore, p. Gaetano Liuzzo:

La matrice vera e propria dell'Istituto delle COMI sta nella Lettera circolare N°. 182 del P. Deschâtelets, padre generale degli Oblati, che parlava dell'Associazione Missionaria di M. Immacolata. Il giorno stesso della pubblicazione di questa circolare sono stato nominato Direttore dell'AMMI italiana che aveva poche sezioni in alcune delle nostre Case, come Ripalimosani, S. Maria a Vico, Napoli e qualche altra
Nella circolare 182 il P. Generale mirava a che si formasse tra i laici più vicini alla Congregazione o sensibilizzati ad essa, un esercito di fedeli attorno a noi che avesse il motto di Pio XI, il Papa delle Missioni, che era questo: "Tutti i fedeli per tutti gli infedeli". Quindi una dinamica di impegno e di ardore missionario e, alla fine di un paragrafo in cui parlava della parte spirituale aggiungeva una specie di suggestione: "Non si potrebbe augurare la creazione di Centri apostolici numerosi che, alle anime chiamate ad una vita ancor più perfetta, potrebbero, sulla scia dei Terzi Ordini regolari, dare la possibilità di vivere totalmente il nostro ideale religioso e aiutare le opere affidateci dalla Chiesa?".
Ho cominciato a pensarci con una certa simpatia: "E' arrivato il tempo!", perché mi ero accorto girando, che c'erano delle giovani dell’Associazione molto ben preparate dal punto di vista religioso e missionario, già pronte e accese. In marzo passo per S. Maria C.V. Lì mi spuntano quattro di queste giovani, tra le quali c'era anche Maria Albano, che, con parole un po' chiare, un po' sibilline, mi dicono: "Non potremmo fare qualche cosa di più, essere come gli Oblati" e per quanto io stuzzicassi non sono riuscito a tirare fuori "facendo anche i voti", benché ce l'avessi dentro. Poco dopo passo a Maratea e trovo Aurora con un'altra, che mi fanno praticamente lo stesso discorso, anche qui senza arrivare all'ultima conclusione. In questi due incontri ho visto come una conferma che quell'idea che mi stava frullando per la testa, veniva dal Signore.


Con Padre Deschatelets
In un ritiro organizzato a Firenze nell’agosto 1951 per queste giovani ho tentato di formare o confermare in tutte le trentacinque o trentasei presenti il senso della missione oblata, della spiritualità oblata, della collaborazione piena con gli Oblati e del come essere come gli Oblati ed è spuntato fuori: “Sorelle Oblate”.
La sera del 21 agosto ho letto la preghiera, che abbiamo chiamato “Consacrazione sorelle”, in cui c'è tutta l'anima del nascente Istituto, impregnato di spirito mariano, di cattolicità, di spirito missionario e di impegno interiore ed esteriore.
La sera stessa ho preso il motorino e vado dalla parte opposta della città, dal Santo di Firenze che era Mons. Facibeni. Lo chiamavano santo, aveva fondato una sua opera ed io ero andato a chiedergli una benedizione per quest'opera nascente, come se sentissi il bisogno di una conferma esterna alla Congregazione, poiché ero sicuro della conferma che mi sarebbe venuta dal P. Generale, visto che era l'attuazione di un suo desiderio. Stranamente Mons. Facibeni, che non era molto espansivo, mi ha ricevuto molto affettuosamente. Ha preso atto di quello che gli dicevo e mi ha aperto il cuore sulla sua opera, facendomi una panoramica sulle enormi difficoltà.
Io, tornando a casa, mi sono chiesto il perché di queste confidenze e mi è venuto il dubbio che non fossero una specie di profezia. I fatti diranno che è stata una profezia.

Due giorni dopo scrivo al P. Generale. Gli dicevo come erano nate ed aggiungevo che io non parlavo per il momento di Istituto o altro, ma di un movimento di spiritualità con prospettive abbastanza larghe, apertura a quanto il Signore vorrà che alcune facciano anche i voti come i Padri, per essere "Come i Padri, come gli Oblati". Che alcune, quando Dio vorrà vivano insieme, ma non da suore e magari vadano in missione.
Il P. Generale è rimasto entusiasta e ci ha sempre seguito con tantissimo affetto, con tanto amore.
Due anni dopo, nel 1953, le prime hanno fatto i primi voti.

Un punto che per me era importante: "non suore". Pensavo a laiche che vivessero in famiglia, che potessero anche staccarsi da essa e venivano a vivere in un'altra famiglia, ma laiche. Non era questione di non avere un abito religioso e neppure una struttura religiosa, ma soprattutto di avere una mentalità che fosse teologalmente religiosa, ma socialmente laica. Mi riferivo al progetto di P. Deschâtelets: oblate in veste secolare. Oblate vere, consacrate, missionarie, ma che vivono nella condizione normale della loro vita che è secolare.


sabato 19 novembre 2016

Cristo nostro re

I soldati lo deridevano e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui
c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
(Lc 23, 35-43)

Ormai lo sanno tutti che è un re: Pilato, Erode, la guarnigione romana, la folla... Ma lo ritengono un illuso, un pazzo, un re da burla.
E invece è re davvero, anche se non secondo i nostri modelli.
I re comandano e si fanno servire, mentre Gesù è venuto per servire. I re hanno sempre i primi posti ed egli ha scelto l’ultimo. I re sono potenti (prepotenti?) ed egli mite e umile di cuore. I re hanno la guardia del corpo e l’esercito per difendersi ed egli è solo e indifeso e si lasci prendere la vita.
Anzi, di più, la vita non se la lascia prendere, come sembra a chi ti sta attorno. Tu la vita la dà per il suo popolo, volentieri e liberamente. Qui sta la differenza e il segreto della sua regalità.
«Salva te stesso»? No, rinuncia a salvare se stesso per salvare il suo popolo. Come pastore buono dà la vita per il suo gregge.
Egli muore al posto nostro. A lui la morte, a noi la vita. A lui l’ignominia, a noi la gloria. Egli scende dal trono per innalzarvi noi. Si fa servo per fare di noi dei re.
Se ci fai re dovremmo agire come lui e dare la vita per gli altri, come lui la dà...
La sua regalità consiste nell’amare e non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici. La dà
per ognuno di noi, che non consideri “sudditi” ma “amici”.
Sulla croce, innalzato tra cielo e terra, attira tutti a sé e fa nascere il popolo nuovo, che introduce nel suo regno. Il primo a entrarvi è un assassino, un condannato a morte. Ma ha saputo rivolgergli le parole giuste. Non gli ha detto, come gli altri, «Salva te stesso», ma «Salvami, ricordati di me». È il solo che riconosca veramente la sua regalità. A un re infatti si chiede clemenza e un condannato a morte domanda di essere graziato.
È quello che faccio anch’io quest’oggi: sono un “dis-graziato”, senza grazia, un peccatore degno di condanna. «È giusta la nostra condanna», ripeto con il buon ladrone. Per questo mi trovo nella condizione di chiedere la grazia. Lo faccio perché lo riconosco il mio re, onnipotente e pieno di amore e a lui mi rimetto con fiducia e speranza.
«Oggi», ha detto dal malfattore. «Oggi», ripeti a tutti noi: non inizia a regnare nell’altra vita, ma fin da ora, da «oggi»!


venerdì 18 novembre 2016

Sequela

La Libreria Editrice Vaticana ha pubblicato il Nuovo Dizionario di Mistica, al quale ho contribuito con alcune voci. Ecco ho scritto sulla “Sequela”:

La vita come cammino, o meglio ancora come viaggio, è da sempre una metafora suggestiva con la quale l'uomo interpreta la complessità del suo essere. Essa assurge a categoria unificante del vissuto, parabola della vita. Basterebbe evocare viaggi paradigmatici e metastorici quali quelli di Gilgamesh, Ulisse, Dante Alighieri, fino al volo del Gabbiano Jonathan. Il pensiero contemporaneo ha ulteriormente approfondito la comprensione dell'uomo come "homo viator", che si costruisce nel suo divenire storico.
Anche il cristiano di oggi ama guardare alla perfezione, alla santità, all'unione con Dio come a realtà in divenire, anziché statiche e date una volta per tutte; realtà che esigono un "cammino" in un dinamismo progressivo e continuo. Il concetto di sequela viene incontro a questa visione dinamica della vita spirituale, colta nel suo aspetto di crescita.

I. Nella Scrittura. L'Antico Testamento aveva già descritto il modo di vivere di Israele, la sua condotta morale, la vita di fede, in termini di via, cammino, strada. Un popolo nomade e concreto esprimeva facilmente il proprio rapporto con Dio impiegando immagini di itineranza: seguire Dio, camminare umilmente con lui (Dt 10,12-13; Mic 6,8). Dio stesso gli fa compiere un'esperienza di fede attraverso itinerari a dimensioni geografico-spaziali: partenze, peregrinazioni, esodi, ritorni...
Nell'antica alleanza Dio camminava con il suo popolo - all'inizio della categoria di sequela vi è l'esperienza dell'Esodo - e lo guidava attraverso la mediazione dell'arca, dei suoi rappresentanti e della legge. Nella pienezza dei tempi viene lui stesso, nella Persona del Figlio, a stare e camminare con gli uomini. L'esistenza terrena di Gesù è interpretata dagli apostoli come un "passaggio", che coinvolge altre persone nella sua itineranza, al punto che la vita cristiana può essere definita come "via" (Atti 9,2; 18,25ss; 19,9.23; 24,4.14.22).
La parola che Cristo rivolge ai suoi discepoli: "Seguimi", diventa un imperativo assoluto e incondizionato che, continuando a risuonare lungo tutta la storia della Chiesa, è all'origine di ogni vita mistica. Egli provoca nel discepolo un esodo completo da se stesso e da ciò a cui è legato, per condurlo dietro a sé in una adesione piena alla sua persona, al suo messaggio, al suo destino. Le esigenze radicali della sequela di Gesù (Lc 9,57-62) indicano che in lui irrompe il Regno di Dio. Quanti lo seguono sono espropriati del loro mondo e fatti eredi di un mondo nuovo definito dalla persona stessa di Gesù. L'andare dietro a Gesù genera una comunanza di vita che si traduce in una relazione stabile, permanente, esclusiva con lui, fino alla condivisione del suo destino di morte e di risurrezione: "Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24).
La sequela fisica fa intravedere un più profondo atteggiamento interiore che lega il Maestro e i suoi discepoli, su cui ha fatto leva la rilettura della sequela nel periodo postpasquale. Infatti dopo la Pasqua non sarà più possibile "seguire" Gesù. Per questo, continuando le prime indicazioni già offerte dai Sinottici, Paolo e Giovanni elaborano una visione mistica della sequela Per Giovanni essa si esprime in una conoscenza mutua e in una comunione vitale tra il Signore e il suo discepolo, che introduce nel rapporto di intimità ineffabile che unisce il Figlio al Padre. Seguire non è più un'azione fisica. La sequela ora equivale a credere (Gv 8,12) e consiste nel reciproco "essere", "dimorare", "rimanere" tra il Signore e i discepoli. Nonostante l'impiego di questi verbi che sembrano statici, essa resta una realtà dinamica: un vero cammino nella fede e nell'amore, nel quale Cristo stesso si fa "via" e insieme "Pastore" (Gv 14,4-6; 10,4); un cammino spiritualizzato che fa uscire dalle tenebre ed introduce nella luce; un esodo interiore dal mondo per entrare - mediante la condividere il destino di morte e risurrezione del Signore - nella casa del Padre e possedere la vita eterna.
Per Paolo il rapporto con Cristo si esprime nell'identificazione con lui: essere in lui, lasciare che sia lui a vivere in noi (Gal 2,20). Nondimeno anche per Paolo rimane l'esigenza di camminare, anzi di correre dietro a Cristo per afferrarlo, così come lui ci ha afferrati (Fil 3,13-14).
Nonostante la spiritualizzazione e l'attualizzazione avvenuta dopo la Pasqua e fatta propria dall'esperienza mistica, la sequela prepasquale, così come è stata vissuta dai discepoli sulle vie della Galilea e della Giudea custodisce le origini più profonde della vita cristiana e rimane il prototipo a cui guarda ogni generazione di cristiani. Essa traduce, evocando un'immagine che rimarrà indelebile nella memoria cristiana, il desiderio di rifare la medesima esperienza dei discepoli del Vangelo: camminare con Gesù, stare con lui nella quotidianità della vita, vivere con lui in un rapporto dinamico sempre nuovo di comunione, di amicizia, di amore. Questo desiderio ha dato vita alle molteplici forme di vita religiosa, che trovano nel seguire Cristo la loro "norma fondamentale" (PC 2a). Ma questo stesso desiderio apre la strada anche ad ogni esperienza di autentica ricerca di condivisione del mistero di Cristo, e nutre la vita mistica, fino alla piena trasfigurazione in lui.
La tradizione ha spesso esitato ad impiegare la terminologia della sequela, o l'ha usata con parsimonia, perché la riteneva strettamente legata all'esperienza prepasquale. Ha preferito impiegare il registro dell'imitazione, avvalendosi della interpretazione già operata all'interno degli scritti neotestamentari. Il Concilio ha messo nuovamente in luce il concetto di sequela ridandole il ruolo di chiave interpretativa dell'esistenza cristiana (LG 41a; GS 41a; CD 11c; AA 4fbis).

II. Sequela e mistica. Il concetto di sequela in definitiva, pone in evidenza alcuni aspetti fondamentali della vita mistica: l'assoluta libertà e gratuità della scelta da parte di Dio ("Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi": Gv 15,16); il valore centrale della persona di Gesù (si segue lui: "seguimi", "seguitemi"...); la relativizzazione di ogni realtà umana davanti all'apparire del Signore; la chiamata alla piena condivisione del mistero del Regno; l'introduzione nell'intimità trinitaria, meta della sequela; il concetto di "itinerario spirituale"; l'abbandono fiducioso alla conduzione di Cristo "Pastore buono", interiorizzata dallo Spirito che "guida" verso la pienezza della verità (Gv 16,13).
La mistica ha saputo ha saputo reinterpretare questo rapporto amoroso con Cristo alla luce del Cantico dei Cantici. È lo sposo che per primo viene incontro e chiama: "Alzati amica mia, mia bella, e vieni" (Cant 2,10). E la sposa risponde al desiderio dell’amato: “Attirami dietro a te, corriamo" (1,3). E' l'inizio di un cammino drammatico nel quale amato e amata si cercano costantemente in una progressiva crescita d'amore, fino all'unione piena e definitiva.
Un aspetto che l’esperienza mistica non ha ancora sufficientemente posto in rilievo è la dimensione comunitaria della sequela, con tutto quanto essa comporta. Eppure l’esperienza dei primi discepoli fu quella di una comune itineranza dietro a Cristo. Egli spesso chiama a due a due e quando si rivolge ai suoi discepoli lo fa come ad un gruppo unito. La sensibilità odierna, le indicazioni offerte dall’ecclesiologia di comunione, le esperienze comunitarie in atto segnano sicuramente una nuova stagione anche nella vita mistica, in una condivisione del cammino di sequela.

giovedì 17 novembre 2016

Sui luoghi di Gesù



La rivista "Mariapoli" fa rivivere il viaggio della Scuola Abbà in Terra Santa (21-28 agosto):

Ogni luogo è luogo del Signore, ma quando egli si è incarnato, ha scelto una terra particolare: la Galilea, con le sue città e villaggi: Nazareth, Cana, Cafarnao, con il lago di Tiberiade e le sue colline; la Giudea, con Gerusalemme, Betlemme, Gerico. Nomi che abbiamo imparato a conoscere dai Vangeli e che ci sono cari anche senza averli visti. Con l’ascensione al Cielo Gesù ha lasciato per sempre la sua terra e non occorre più andare là per incontrarlo. Eppure egli vi ha impresso tracce indelebili, che invasioni, guerre e distruzioni non hanno potuto cancellare. Assieme alla “storia” vi è anche una “geografia” della salvezza.
Così, come Scuola Abbà, abbiamo deciso di andare in pellegrinaggio sui luoghi delle nostre origini. L’obiettivo era crescere nell’unità tra di noi in modo da formare davvero un corpo (l’Anima!) capace di vivere appieno l’unità e avere così una luce sempre più luminosa per il nostro lavoro. Emmaus aveva dato un senso specifico al nostro viaggio: “andare incontro ad un posto di frontiera ed entrare nella piaga dell'umanità”. Al riguardo sono stati importanti i diversi incontri: con p. Pierbattista Pizzaballa, ofm, ex Custode e attuale Amministratore apostolico, che ci ha introdotto nella realtà delle Chiese in Medio-Oriente, nella situazione politica e sociale, nei temi caldi di questo mondo in tumulto; con la comunità di Betlemme; con un piccolo gruppo di ebrei a Gerusalemme; con la comunità in Galilea e con persone di altri movimenti con cui i membri del Focolare sono in contatto. Profondo soprattutto l’incontro con le focolarine e i focolarini di Terra Santa, con i quali abbiamo potuto condividere la nostra esperienza e soprattutto leggere alcune pagine del Paradiso che ci avevano guidato in quei giorni.
Assieme ai Vangeli avevamo infatti come guida un prezioso libro: l’esperienza di Chiara del 1949-50, che ha gettato luce sui misteri di Gesù, aiutandoci a riviverli nei luoghi in cui sono accaduti. «Quando leggevano insieme i testi del Paradiso in quei luoghi – ha detto uno di noi – essi diventavano vivi. L’annunciazione, l’incarnazione, la nascita di Gesù, la sua vita nascosta e pubblica, la via crucis, l’abbandono, la risurrezione… non erano più avvenimenti di 2000 anni fa, ma una realtà attuale, presente, che Chiara ci spiegava dal di dentro, facendoci entrare dentro quell’esperienza, quasi fisicamente. Era come se ci si aprisse una porta che ci faceva entrare in quelle realtà».
Fin dal primo giorno ci siamo sentiti accolti da Maria che ci ha accompagnato per tutto il tempo guidandoci lei stessa sui passi di Gesù. Sia a Gerusalemme, sul luogo della sua tomba, sia a Nazareth, alla fontana della Vergine, ci siamo trovati a celebrare la festa dell’Assunta con la Chiesa ortodossa – e non l’avevamo previsto.
Alcuni momenti rimarranno indimenticabili, come quello nella chiesa del Padre nostro sul monte degli ulivi. Sarà stato proprio quello il luogo in cui Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a pregare? In quel momento per noi la storicità non era importante: abbiamo cantato il “Padre nostro” e qualcosa di grande è avvenuto. Pronunciando quella parola – non a caso ci chiamiamo Scuola “Abbà” – abbiamo avvertito Gesù accanto a noi, che con lui ci orientava verso il Padre, e ci siamo sentiti come mai fratelli e sorelle tra di noi, una cosa sola. «Ho sperimentato una fortissima unione con Dio – ha scritto una di noi –, un momento di profonda intimità col Padre. Era naturale ridonarmi totalmente a Lui, chiedergli tante cose, parlargli. La sua presenza mi avvolgeva. Non c’era bisogno di altre parole, solo godere di Lui. Un dono suo di cui sono tanto grata».
Siamo rimasti quasi tutta la settimana a Gerusalemme, dove si sono compiuti i grandi misteri che abbiamo rivissuto: al cenacolo, sulla scala che porta al Cedron, sulla rocca nella quale fu piantata la croce di Gesù, nel luogo della sua risurrezione… È come lo incontrassimo ad ogni angolo di strada, nella concretezza della sua vita; non un Gesù di 2000 anni fa, ma vivo oggi.
L’ultimo giorno eccoci sul lago di Tiberiade, a Nazareth, sul monte delle beatitudini, sul Tabor, quasi accogliendo anche noi l’invito rivolto dagli angeli dopo la Risurrezione: “Il Maestro vi aspetta in Galilea”, là dove tutto è iniziato. Dopo l’esperienza di Gerusalemme, dove abbiamo rivissuto l’evento della passione, morte e risurrezione di Gesù, è stato un riscoprire la nostra chiamata, come quella di Maria nella casa di Nazareth, come quella degli apostoli sul lago, e decidere nuovamente di seguirlo con maggiore consapevolezza, pronti ad andare ovunque egli ci conduce.



mercoledì 16 novembre 2016

Quando è nato il libro sui luoghi di Dio?


Questo libro è il frutto dei “Dialoghi su Dio” tenuti nel 2014 nei locali della chiesa di sant’Eustachio a Roma. Esso però è nato 40 anni prima.
Era il luglio del 1974. Avevo 26 anni. Mi trovavo a Roma da un anno e mi stavo preparando al sacerdozio. Al Centro Mariapoli di Rocca di Papa si teneva l’VIII Congresso internazionale del “Movimento Gen”. Non mi era consentito parteciparvi, perché non ero un “gen”. Quando seppi che Chiara Lubich avrebbe parlato non mi feci nessuno scrupolo e andai ad ascoltarla. Fu facile mimetizzarmi con gli altri, senza che nessuno notasse la mia presenza.
Da allora ho letto infinite volte quel discorso di Chiara, ma mi è sempre sembrato diverso da come mi si impresse in cuore quel giorno.
«Quest’anno - iniziava - mi sembra che Gesù voglia vi ripeta una “parola” che è risuonata come uno squillo, trent’an- ni fa... [si riferiva alla sua esperienza iniziale] È una parola grande più del mare... E la parola che Gesù vuol dire oggi, in questo secolo, agli uomini; ed egli desidera che tutti, dal primo all’ultimo, noi siamo canali, eco di essa».
Secondo quanto oggi leggo in quel discorso, Chiara avrebbe pronunciato soltanto quattro volte il lemma “parola”. A me sembrò che lo ripetesse in continuazione. I pochi attimi trascorsi nel formulare quelle brevi frasi mi parvero un tempo infinito, ed ebbi l’impressione di venire portato in uno spazio sconfinato. Sentivo crescere l’attesa per lo svelamento di quel-
la “parola”. Il desiderio di conoscere quella “parola” misteriosa aveva teso al massimo le corde della mente e l’anima fu dilatata per essere capace di accogliere la rivelazione: «Questa parola è Lui stesso: Dio».
Quella “parola” - Dio - fu un improvviso bagliore di luce e di fuoco. Rimasi nella sospensione. Mi trovai come avvolto da quella realtà: Dio. Era come se sentissi pronunciare per la prima volta quella “parola”, la prima volta che l’avvertivo così potente, così vasta, senza confini, assoluta: “Dio”.
Mai più ho sentito pronunciare quella parola - Dio - con quella intensità, con quella forza sconvolgente. Non l’ho più sentita pronunciare in quel modo, ma mi è rimasta dentro come allora.
Chiara proseguiva nel suo discorso: «Ed eccomi a svelarvi chi è Dio... Dio è Amore». Spiegò dove avremmo potuto trovarlo. Da quel giorno ho preso a cercarlo là dove lei mi aveva indicato, a riflettere su quali fossero i “luoghi” della sua presenza, le “fonti del divino”, come lei le aveva chiamate, a cui avrei potuto abbeverarmi. Questo libro ne è un piccolo frutto.
«Se ci venisse chiesto - proseguì allora Chiara -: qual è il vostro ideale? Noi dovremmo rispondere: Dio». In quel momento Dio era veramente il mio ideale, l’ideale di tutti quei giovani in mezzo ai quali mi trovavo.

S’era realizzato quello che lei stessa diceva di aver percepito una volta terminato il suo discorso: mentre parlavo «eravamo veramente un’unità e spero che Dio abbia visto una cascata di Lui in mezzo a noi». Era stata un’autentica cascata. Quella “parola”, Dio, la sua realtà, si era riversata su di noi segnandoci per sempre. Ho scritto questo libro 40 anni dopo, ma il seme fu seminato quel luglio 1974.