Nené, la sorella di Eugenio |
Il più grande studioso di sant’Eugenio,
Yvon Beaudoin, editore tra l’altro dei 21 volumi dei suoi scritti, mi fa giungere
questo messaggio:
“Ho letto con un grande piacere il Racconto di una vocazione. Si legge come
un romanzo ma è la realtà, conosciuta grazie alla corrispondenza abbondante del
Fondatore. Peccato che questo libro non sia tradotto in francese e in inglese”.
Intanto
possiamo leggere la presentazione:
Ho raccontato di un ventenne pieno di vita e di sogni, alla
ricerca sofferta e tenace di un’identità, di un prestigio sociale, di una
carriera, di una moglie e che si trova ferocemente contraddetto da avversità
familiari, politiche, finanziarie, che lo portano alla delusione, alla noia,
all’insoddisfazione, fino a precipitarlo nella depressione. Il racconto di un
ventenne costretto a vivere con la mamma perché non ha né arte né parte, mentre
il padre è lontano, divorziato. Sono voluto entrare nel dramma di tanti giovani
di oggi, anche se quello di cui ho scritto è ambientato agli inizi
dell’Ottocento, nel sud di una Francia sconvolta dall’ascesa di Napoleone, la
prigionia di Pio VII, la crisi della Chiesa cattolica.
Non ho scritto la biografia di un uomo che pure ha vissuto a
lungo, ma i suoi anni critici, e per questo creativi, che l’hanno condotto per
un cammino che mai avrebbe immaginato, fino alla scoperta della sua vocazione,
nell’inaspettato incontro con Cristo che, a 21 anni, lo sconvolge e gli
spalanca orizzonti nuovi, finalmente appaganti, anche se l’inquietudine mai lo
lascerà, portandolo prima al sacerdozio, poi alla fondazione di una grande
Società di missionari, gli Oblati di Maria Immacolata. Un racconto che lo segue
per quindici anni. Dopo di che lo lascio, perché la sua via è ormai segnata.
Rigorosamente storico, l’ho scritto con la libertà, la
creatività e la passione di un romanzo. Posso permettermi questa libertà, anche
a costo di fraintendimenti?
Luigi vede il dattiloscritto sul mio tavolo e comincia a
leggerlo. Dopo la prima pagina — la lettera iniziale che Eugenio, appena
tornato in Francia dall’esilio, scrive al padre rimasto a Palermo - lo sento
esclamare: «Ma come teatrale questo Eugenio! Non lo conoscevo così». «L’ho
scritto proprio per farlo conoscere nella sua umanità schietta».
Marco, dopo aver letto la medesima lettera, mi chiede
l’originale francese perché ha dei dubbi sulla mia traduzione. «Mi fai cadere
le braccia! Non c’è un originale francese, l’ho scritta io...».
Punica cosa che mi sono permesso di inventare - così dico tutto
- è il nome della ragazza che muore tra le braccia di Eugenio. L’ho chiamata
Luisa perché i documenti lo tacciono. («Una ragazza che muore tra le sue
braccia?», mi sento dire da un altro scandalizzato...).
Ho creato carteggi e dialoghi cercando di entrare nell’animo del
personaggio e nell’ambiente dell’Ottocento, conservandone il sapore anche nel
linguaggio, per non creare disarmonia con i testi originali che introduco nella
narrazione e che, contrariamente a ogni sana operazione letteraria, ho voluto
citare in corsivo, per lasciare un rapporto diretto con Eugenio de Mazenod.
Spero di essere riuscito a rendere viva e coinvolgente l’esperienza
di questa persona, a me particolarmente cara.
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