Lucia, sua
sorella, comunica la sua emozione.
Temevo di non poter arrivare
a vedere riconosciuto quanto la pur breve vita di Mario fosse stata straordinaria.
Ora Dio mi ha concesso questo dono.
Sono felice per Mario
e per il suo catechista laotiano Paolo ma soprattutto felice per la Chiesa del Laos,
da sempre martire silenziosa e lontana dai riflettori, in un Paese dove ancora oggi
ci sono limiti evidenti alla pratica del culto e alla libertà religiosa.
Avremmo da ricordare gli
episodi dell’infanzia e della giovinezza vissuti con Mario, le escursioni in montagna,
i pomeriggi a giocare a pallone, il suo amore per la musica e la poesia.
La passione per il ciclismo
gli costò la bocciatura in quinta ginnasio all’esame di greco. Lo stesso giorno
il Giro d’Italia faceva tappa in Trentino, così fece l’esame in fretta pur di non
perdersi Coppi e Bartali. In seguito passò l’esame, studiando poco in verità “Lo so già il greco”, si giustificava con mio padre che lo pungolava allo studio.
Superata la prova un bel
giorno trovammo il libro di versioni che sventolava sopra il camino!”.
Alle ore di studio si
alternavano anche ore di lavoro manuale, per il quale a dire il vero mio fratello
era proprio negato, preferiva suonare il pianoforte e scrivere. E pensare che poi
in Laos si è messo perfino a costruire le capanne con le canne di bambù... forse
anche questa è una virtù eroica.
Ho visto nascere e crescere
la vocazione di Mario fin da bambino innamorato di Gesù, lo ha scelto come
amico e ha proseguito mano nella mano con Lui anche nei momenti oscuri e
difficili della missione, resa più ardua dalla guerriglia comunista.
In seminario il padre
spirituale, don Eugenio Bernardi, lo stimava molto, tanto che dopo aver saputo
della sua morte, nel suo Diario scrive «è l’unico santo che ho incontrato nella mia
vita».
Ed è dalle pagine del
“Diario di un uomo felice” che Mario annota, quattro anni prima della sua morte:
«Ho capito la mia vocazione: essere un uomo felice pur nello sforzo di identificarmi
col Cristo Crocifisso». È il mistero del dolore. Tra le righe del “Diario”
traspare tutta la ricchezza spirituale di padre Mario, che non nasconde la durezza
della vita missionaria: la fatica della solitudine, la fame, le insidie della
foresta, la paura dei guerriglieri pathet lao. A volte confessa di
essere «assalito dalla paura di morire, di impazzire, di essere abbandonato
da Dio».
Ma il suo amore per
il grande Amico non è mai venuto meno, è sempre rimasto accanto agli ammalati,
tra la sua gente, adoperandosi per formare catechisti.
Era un contemplativo dell’umanità di Gesù che ritrovava nei fratelli, nei
poveri. Si prendeva cura del prossimo con piccoli gesti, un sorriso, una
stretta di mano. Era lì che sentiva la volontà di Dio.
Uno stile
di vita cristiana animata dalla preghiera e dall’amore gratuito per il
prossimo. La sua santità è sì eroica, ma imitabile. Quindi non parliamo di una figura
mistica, meglio di un santo senza aureola, di una tensione all’amore che si può
imitare.
Con la famiglia
c’era una corrispondenza epistolare mensile.
Poco
prima della morte le sue lettere tardavano tanto che la mamma si lamentò. Lui,
allora, motivò la mancanza per i troppi impegni in missione con la promessa che
la prossima sarebbe stata una lettera lunga come un treno. Quella lettera,
purtroppo, non arrivò mai. Abbiamo appreso la notizia della loro scomparsa dalla
radio, confermata poi dall’agenzia Ansa e dal Superiore degli Oblati. Dispersi.
Si pensava fossero stati fatti prigionieri, la mamma nel suo cuore ha sempre
sperato in un ritorno. I loro corpi non sono mai stati trovati. Solo dopo 40
anni arriveranno le prime testimonianze, che confermano l’uccisione di entrambi
per mano del Pathet Lao, gettati in una fossa mai identificata con precisione.
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