lunedì 31 gennaio 2022

I rami e la radice

 

Questo prolungarsi del distanziamento “sociale” (ma non sarebbe meglio chiamarlo “fisico”?) penalizza i nostri rapporti. 

È come se all’albero si impedisse di stendere i suoi rami.

In compenso permettere di andare in profondità con la radice.

Quando ci incontreremo di nuovo scopriremo di essere cresciti in interiorità.

domenica 30 gennaio 2022

La prova perché? Oppure: La prova per chi?


Questi giorni mi è capitato tra mano un articolo che pubblicai parecchio tempo fa, nel 2008, dal titolo: La notte tempo di prova. L’esperienza dei santi. Dopo aver esposto alcune prove passati dai santi mi ponevo la domanda: “Perché Dio agisce così con i suoi?”.

La prima motivazione della teologia classica va nella direzione della purificazione dell’anima, così da portarla all’unione intima con Dio. «Questa notte oscura – spiega Giovanni della Croce – è un influsso di Dio nell’anima che la purifica dalle sue ignoranze e imperfezioni abituali naturali e spirituali». Più Dio vuole unire a sé una persona, più la lavora.

Ma non sembra questa l’unica motivazione. Per alcuni santi – già a lungo purificati da precedenti prove – la notte, più che una ulteriore purificazione, diventa la via per la piena conformazione a Cristo. Lo ha espresso con chiarezza Edith Stein [Teresa Benedetta della Croce] quando afferma che la notte è una forma di partecipazione al mistero dell’abbandono di Gesù: «Nessun cuore umano è mai penetrato in una notte tanto oscura come il Verbo Incarnato nel Getsemani e al Golgota. Nessuno spirito umano potrà, per quanto investighi, penetrare nel segreto dell’abbandono divino del Cristo moribondo. Però Gesù può dare di gustare alle anime scelte qualcosa di questa estrema amarezza. Sono suoi fedeli amici dai quali esige la suprema prova d’amore. Nel caso che non si arrestino e ritornino indietro, ma che volontariamente si lascino introdurre nella notte oscura, egli stesso si converte in loro guida». Nella stessa linea l’esperienza di Gemma Galgani e, forse meno nota, quella di Faustina Kowalska. «Ho cominciato ad amare la mia oscurità – scrive Madre Teresa di Calcutta –, perché credo ora che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra». Si compie in modo eminente ciò che Paolo dice di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Penso tuttavia che la domanda più appropriata non sia tanto: Perché Dio permette le prove e le notti?, quando: Per chi?

Più che nella necessità di una purificazione personale, la risposta va cercata nella necessità di una purificazione degli altri, dell’umanità. Il santo o la santa provano in sé il peccato, l’abbandono, il patire del mondo loro contemporaneo, li condividono fino in fondo assumendoli e purificandoli in se stessi. La loro è una partecipazione alla sofferenza redentrice di Cristo che, sulla croce, si è addossato il male del mondo per operare la salvezza. Teresa di Gesù Bambino era ben consapevole di questa vocazione: la sua notte rispecchia e partecipa di una notte più ampia, quella dell’umanità che si sta avviando verso l’ateismo. Garrigou-Lagrange, dopo aver letto in questa linea l’esperienza di Paolo della Croce, conclude generalizzando: «Qui la sofferenza fa pensare a quella di un soccorritore che, in un naufragio, lotta eroicamente per strappare alla morte quelli che stanno per annegare. (...) Queste anime sono intimamente associate alla vita dolorosa del Salvatore».

Per chi dunque il patire, il buio, la notte che in modi diversi tutti prima o poi avvertiamo? Per la Chiesa, perché sia purificata, sia sempre più bella; per le persone attorno a noi che vogliamo portare a Dio; per l’umanità, perché trovi la strada per il cielo.

Si ripete l’esperienza di Paolo: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).

venerdì 28 gennaio 2022

Uno sguardo di fede per riconoscerti


Cosa hai detto di tanto grave da provocare una reazione così violenta? Non hai minacciato i “guai” che ti sentiremo proferire più avanti nella tua missione profetica. Non hai apostrofato i tuoi paesani come «sepolcri imbiancati» o «razza di vipere». Ti sentiremo dire anche questo. E come saranno utili e salutari le tue sferzate che smascherano la nostra ipocrisia e ci pongono dinanzi al nostro peccato. Non hai neppure espresso le dure esigenze per seguirti: vendere tutto, rinnegare se stessi, prendere la croce...

Cosa hai detto di tanto grave da sdegnare la tua gente al punto da volerti precipitare giù nel burrone?

Hai appena dato la grande notizia di liberazione che il popolo attendeva con ansia da secoli: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». La promessa di Dio si adempie, hai proclamato l’anno di grazia del Signore! Cos’è allora che non andava?

Finalmente era giunto il profeta, tu, che ci dici la parola di Dio e ci rendi noto il suo volere di salvezza. Anzi, tu sei più di un profeta, sei l’oggetto stesso dell’annuncio, sei tu la promessa. Non dici soltanto la parola di Dio, sei la Parola di Dio, sei Dio. Non annunci soltanto la salvezza, sei il Salvatore. Sta qui lo scandalo. Il Messia non sarebbe dovuto venire con potenza e gloria? Nessuno avrebbe saputo da dove sarebbe giunto. Il divino deve essere sempre circondato dall’alone del mistero.

Come è possibile che la persona dell’Atteso coincida con il vicino di casa, con una persona tanto normale, così conosciuta? «Non è il figlio di Giuseppe?». Anche loro, a Nazaret, sapevano che da Nazaret non poteva venire niente di buono.

Forse anche noi ti aspettiamo ammantato di gloria. Ti immaginiamo diverso da come sei. E se tu mi capitassi accanto nelle vesti delle solite persone che incontro ogni giorno, con cui ogni giorno condivido la vita normale, ti saprei accettare? Gesù lui? Gesù lei? Ma li conosco anche troppo bene, ne so i limiti, i difetti... non possono essere Gesù. Non è il figlio o la figlia del tale, non è una persona di casa? Come possono essere, lui o lei, Gesù?

Dammi occhi nuovi, Signore,
ogni giorno,
perché sappia vedere sempre nuove
le solite persone che
ogni giorno
mi poni accanto.
Che ti possa riconoscere e amare e servire,
anche quando mi è difficile,
nel volto dei fratelli.
Che in loro,
anche quando non mi aspetto niente di buono,
sappia vedere il tuo volto.

 

Misteri della resurrezione / 5


Quinto mistero: Gesù incontra Pietro sul lago

«Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. (…) Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Gli disse per la terza volta: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. (…) “Seguimi”» (Gv 21, 15-19).

Pietro ha rinnegato per tre volte il Signore, adesso per tre volte gli professa un amore incondizionato. Ogni sbaglio è l’occasione per un amore più grande. Il Risorto ci insegna che si può ricominciare. Si può sempre ricominciare a “seguire” Gesù.

Chiediamo a Maria che preghi “per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”, che preghi per tutti i peccatori, perché ritorniamo a Dio con fiducia.

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto del suo seno Gesù:

1. che Risorto si manifesta agli apostoli sul lago (Gv 21, 1)
2. che invita a gettare le reti con fiducia (Gv 21, 6)
3. “il Signore!” (Gv 21, 7)
4. che prepara una mensa per noi
(Gv 21, 13)
5. che ci chiede con insistenza se lo amiamo
(Gv 21, 15ss)
6. a cui vogliamo bene nonostante i tradimenti
(Gv 21, 15ss)
7. che sa tutto e sa che gli vogliamo bene
(Gv 21, 17)
8. che affida a Pietro noi suo gregge
(Gv 21, 17)
9. che ci chiede di seguirlo (Gv 21, 19)
10. che ci chiede di attendere la sua venuta (Gv 21, 22)

giovedì 27 gennaio 2022

P. Angelo Dal Bello, un mistico

 


Ho passato una giornata nell’archivio provinciale tra i cartoni che contengono il materiale di p. Angelo Dal Bello (1926-2013). Ha lasciato 143 quaderni con il suo diario, intitolato “Verba intima”: un tesoro immenso per conoscere il mondo interiore di questo autentico mistico.

Il primo quaderno inizia nel novembre 1944, quando p. Angelo è seminarista nel seminario di Treviso, in prima liceo.

L’ultimo porta dei titoli, come era solito fare ogni volta che iniziava un nuovo quaderno: «È lo Sposo mio A.to. È Gesù in noi. L’infanzia materna. La Chiesa. Paradiso Rivelato: il suo. È tutto chiaro: “Mio Dio quanti doni…”.

In quest’ultimo quaderno ha scritto una pagina soltanto, con le date del 2, 3, 10 ottobre 2013, con grafia incerta e un po’ confusa, ma che testimonia ancora una vita di cielo.

2 ottobre 2013: «È tutto dello Sposo mio Signore. Da quando ho avuto “l’uso della ragione” mi era famigliare una parolina: ! !. Variano: Eccomi! Non mi vengono parole. Prevale il ».

3 ottobre 2013: «Sei venuto a vivere e soffrire dentro il mio corpo. Io dentro di Te e Tu dentro di me… Che grande mistero! Grazie Padre mio! Mia esperienza? Io perduto! E io dentro di Te e Tu dentro di me».

10 ottobre 2013: «Sto vivendo un grande “silenzio” pienezza Trinitaria».

mercoledì 26 gennaio 2022

Bastiampillai Anthonipillai, più semplicemente p. Thomas

Mi piace ricordare l'anniversario della morte di un Oblato originale. Visitai la sua tomba Il 26 gennaio 1964 moriva p. Thomas, un Oblato fondatore di un Istituto monastico maschile e femminile (Non ci facciamo mancare niente noi Oblati). Il nome di questo “rishi” (“saggio”, in hindu) era Bastiampillai Anthonipillai. Per la sua profonda conoscenza del tomismo, un suo professore gli diede il nome del Dottore Angelico: Thomas. Ed è con questo nome che tutti lo conoscono. È un corso la causa di beatificazione.

Anthonipillai nacque il 7 marzo 1886 a Padiyanthalvu, un villaggio vicino Jaffna (Sri Lanka). Un giorno, durante una lezione di Sacra Scritturaascoltò le parole di Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24)Furono decisive e lo portarono ad entrare tra gli Oblati. Gran conoscitore della letteratura hindu e dei classici hindi, a seguito dell’invito di Pio XI a far sorgere comunità contemplative nei paesi di missione, fu invitato dal vescovo di Jaffna, Alfredo Guyomard, omi, a fondare monasteri contemplativi nell’isola. Diede così vita a una congregazione di monaci autoctoni, i Rosariani, prima comunità indigena di monaci oranti a sorgere in Asia, e successivamente al ramo femminile, che faranno fiorire nell’isola e nell’India vari ashram cristiani.

Il Superiore generale degli Oblati, padre Léo Deschâtelets, dopo averlo incontrato, disse agli studenti dello scolasticato internazionale di Roma: “Se volete vedere un santo andate a Tholagatty. Incontrerete un anziano nel quale si trova tutto ciò che suole evocare la parola santità, tutto ciò che risponde all’idea che abbiamo di un uomo di Dio”.

Così P. Thomas descrisse il suo ideale di vita:

La suprema importanza per la santificazione e la salvezza di ogni uomo è la preghiera e la penitenza. Il primo e più importante dovere di ogni uomo nato in questo mondo, infatti, è quello di rendere al suo Creatore l’omaggio della preghiera e della penitenza. Nessuno può compiere in modo appropriato questo dovere se non in Cristo, con Cristo e per Cristo. Ci sono, tuttavia, milioni di persone che non sono coscienti di questa disposizione divina o la ignorano. E, fra quelli che dovrebbero esserne coscienti, davvero pochi si impegnano sufficientemente per adempiere ai requisiti necessari. Ne consegue che le nostre iniquità si accumulano sul nostro capo, diventando un pesante fardello. La società umana ha oltrepassato i limiti e andrà di male in peggio, fino al momento in cui sarà schiacciata dal peso delle sue iniquità. In questa situazione, per coloro che amano Dio è un grande onore e un privilegio raro essere in grado di donarsi come vittime in unione con Cristo, al fine di offrire se stessi per gli altri e, quindi, “completare quello che manca ai patimenti di Cristo”. Senza dubbio, ci sono molte anime in Occidente che già da tempo si sono consacrate come vittime di espiazione. La Chiesa in Sri Lanka e in India, però, non vivrà pienamente e integerrimamente la sua vita, fino a quando non conterà un gran numero di tali anime fra i figli della sua terra. (21 marzo 1932)

martedì 25 gennaio 2022

Teresa Bonneau, donna preziosa per gli Oblati


Oggi abbiamo celebrato l’anniversario della fondazione degli Oblati, quando i primi iniziarono ad abitare insieme in due stanzette di un convento che era divenuto un pensionato per ragazze. Poco tempo dopo il pensionato fu chiuso e lentamente i missionari iniziano ad occupare l'intero convento. Una donna che lavorava con le ragazze rimase e passò a lavorare con i missionari. Si parla di de Mazenod, Tempier, Courtès, Guibert… e perché non si parla di questa donna che per tanti anni, dal 1816 al 1868, ha cucinato per gli Oblati, sistemato la casa, lavato…? Dovemmo farle un monumento! Di lei troviamo menzione soltanto in un libro, appunto del 1868, la vita di uno dei primi Oblati, scritto da p. de L’Hermite. In esso leggiamo:

“Una buona donna, Teresa Bonneau, che conclude a Aix in questo momento (1868) una lunga e cristiana vecchiaia, passò dal servizio del pensionato a quello dei missionari. A lei piace raccontare il fervore e l’austerità dei primi giorni. De Mazenod le passava un modico salario di cento franchi; il genere di vita dei missionari non si distingueva certo per le comodità, dicono le cronache; molto spesso Teresa, provando pena per la povertà ordinaria della comunità, attingeva a quanto ricavava dal proprio lavoro per aggiungere qualcosa al pasto di quegli uomini mortificati ch’ella serviva, dice, senza mai parlare con loro”.

Insomma senza di lei non ci sarebbe stata la comunità oblata!

lunedì 24 gennaio 2022

Perché un libro sull’unità?


Il libro sull’unità scritto dalla Scuola Abbà è stato tradotto in francese e questa sera si è tenuto, via internet, un dialogo a più voci con il pubblico francese.

A me, tra le altre domande, è stato chiesto perché scrivere un libro sull’unità.

Mi è stato facile rispondere. Perché l’unità è il sogno di Dio. È il desiderio di un Padre che vorrebbe vedere i figli e le figlie che vivono in armonia, che si amano, che si aiutano. L’unità è la vita di Dio e il destino dell’umanità. Non viviamo per il nostro piccolo gruppo, ma per il mondo intero, per la fraternità universale, Vivere l’unità per collaborare all’armonia tra le persone, i popoli, le nazioni: perché tutti siano uno. Il mondo unito è l’utopia che ci ha affascinato.

L’unità è una vocazione, la vocazione a cui ogni persona è chiamata, la vocazione di tutta l’umanità, di tutta la storia, dell’universo intero. Vocazione significa chiamata, invito ad andare nella direzione di colui che chiama, il Padre. L’unità è dunque un cammino, è dinamica, si fa, diviene, non è mai pienamente realizzata. Non per niente Gesù ne fa oggetto di preghiera.

Ma sappiamo come fare l’unità e portare l’unità? Abbiamo tante esperienze belle e positive, ma a volte anche idee riduttive se non sbagliate. Come quando pensiamo che l’unità sia uniformità, o come quando pensiamo che per fare unità occorra rinunciare alla propria identità. L’unità è la vita di Dio che è Uno senza spariscono le differenze. Così la nostra unità è plurale, ricca del contributo di ciascuno.

L’unità presuppone la rinuncia a se stesso, mettersi da parte, diventare “nulla”.  Anche questo può essere frainteso. Basta capire cos’è questo farsi nulla. Non è disprezzo di sé. Il nulla è una porta che io apro, liberamente, senza che nessuno mi costringa. È una porta che io apro perché voglio permettere all’altro di entrare, è il mio modo di amarlo, di fargli spazio perché possa esprimersi.

Così il mio “nulla”, vissuto liberamente come atto d’amore e di accoglienza, mi arricchisce infinitamente, mi fa essere più me stesso; la persona infatti è data soltanto nella relazione: “Non è bene che l’uomo sia solo”, disse Dio agli inizi.

Si comprende allora perché Chiara Lubich abbia sempre considerato l’unità come la faccia di una medaglia; dall’altra parte c’è Gesù Abbandonato. È lui che insegna come accogliere l’altro. Gesù, proprio nel dono pieno di sé, fino alla morte e alla morte di croce, riceve il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Ossia raggiunge la più profonda identità. Il momento nel quale è “nulla” coincide con il massimo del suo “essere”. Gesù ha dato tutto, spogliandosi anche della sua divinità e questo atto di assoluta povertà gli dà la ricchezza massima: in lui – porta aperta – entra tutto il creato, l’umanità intera.

Il libro ha voluto mettere in luce la bellezza della nostra vocazione, indicare alcune linee per attuarla, sgombrare il campo da possibili fraintendimenti.

domenica 23 gennaio 2022

Roma bella e santa: Una chiesa per ospedale


 

L’avevo sempre trovata chiusa. Finalmente sono potuto entrare nella chiesa di Santa Maria in Cappella. Risale all’anno mille, su costruzioni dell’era precristiana. Papa Urbano II, cacciato dal Laterano da un antipapa, l’aveva scelta come sua sede dove riuniva il Collegio cardinalizio. Una chiesa piccola ma con una grande storia. È uno di quei gioielli nascosti nel cuore di Trastevere che ha tesori artistici da mostrare e aneddoti infiniti da raccontare. Entri e ti trovi in un altro mondo.

Ciò che più mi ha colpito è la commistione tra liturgia e assistenza agli ultimi. Essendo vicina al porto di Ripa Grande la chiesa ospitava anche un ospedale voluto dalla famiglia Ponziani, la famiglia del marito di Francesca Romana. Fino alla nascita del nuovo ospedale nel 1800 la navata nord della chiesa era destinata al ricovero dei pellegrini, poveri e ammalati che si riversavano in città e vi erano dei veri e propri letti destinati a loro. Francesca Romana continuò l’opera del suocero dedicandosi agli infermi in questo e in altri ospedali per circa 30 anni. Cercava personalmente i sacerdoti e i medici affinché si recassero dai malati.


A ricordo di quegli anni nella navata sinistra ci sono ancora dei pagliericci, che danno un’idea di come doveva essere la chiesa per tanti secoli. La chiesa “casa di Dio”? Sì, anche se Dio non ha bisogno di case. Piuttosto la chiesa “casa del popolo di Dio”, capace di accogliere in permanenza pellegrini, poveri, malati... La “Chiesa ospedale di campo” non è un’invenzione di papa Francesco.

sabato 22 gennaio 2022

Si alzò a leggere

In questi giorni mi ha ferito la dichiarazione di un politico influente che ha dichiarato: “Non leggo i giornali”, che è come dire, semplicemente: “Non leggo”. Che fosse una persona che non legge lo si sapeva, ma adesso addirittura se ne vanta. Ignoranza conclamata.

Gesù invece leggeva. Lo troviamo nella sinagoga con il rotolo della legge in mano. Sa leggere e legge. Studia. A 12 anni discute già di Scrittura con i dottori della legge.

Anche Luca studia, si documenta sulle origini della fede cristiana, sulla vita di Gesù e della prima comunità.

Il giorno dell’Epifania del 1962 mio padre mi regalò il libro dei Vangeli, «Per esserti oasi di pace e di ristoro alla tua formazione evangelica», come scrisse nella dedica. Avevo tredici anni. Quel libro segnò una tappa fondamentale del mio viaggio nella Sacra Scrittura.

Non sono un biblista, ma la Bibbia non è un libro per gli addetti ai lavori, è Parola di Dio rivolta ad ogni uomo, anche a me. Ho letto, studiato, scritto sulla Bibbia da semplice credente.

Ricordo con gratitudine i miei professori di Sacra Scrittura a Torino: Mauro Làconi, Dalmazio Colombo, Anselmo Dalbesio. Ho poi continuato a leggere saggi e commenti, in modo regolare, quotidiano, sistematico, portando avanti la lectio divina libro per libro, nella traduzione di Nardoni prima, poi in quella della CEI, con l’aiuto di autori come Fabris, Ghidelli, Vanni, Maggioni, Ravasi, Segalla, Penna, Léon-Dufour, Schnackenburg, Schürmann… Ho letto i commenti ai Vangeli pubblicati della Cittadella, la collana di commenti esegetici e spirituali di Città Nuova… Ma anche commenti spirituali come quelli di Divo Barsotti e prima ancora quelli dei Padri della Chiesa, primo fra tutti Origene, e di scrittori medievali. Una lettura particolarmente ricca e piacevole, nella sua essenzialità e i moltissimi spunti di erudizione, sono stati i dieci volumi della Bibbia della famiglia curata da Ravasi negli anni Ottanta.

Domenica della Parola questa, nella quale Gesù legge la Parola. La sua è una lettura unica perché ciò che legge si compie: è lui la Parola di Dio!

Domenica della Parola questa, nella quale, come Luca, anche noi studiamo con passione la Parola di Dio, per “renderci conto della solidità degli insegnamenti ricevuti”, e perché si compia anche in noi.

Vieni Spirito Santo,
posati su di me
come quando scendesti sul Cristo
nella sinagoga di Cafarnao
e guida anche me
come guidasti lui sulle vie degli uomini
divenute la via di Dio.
Dona anche a me
la passione per la ricerca accurata e lo studio
sulla vita e la parola di Gesù
che guidò Luca nella stesura del suo vangelo.
Aprimi il cuore all’intelligenza dell’ascolto
e rendi viva e operante la Parola del Maestro:
che si compia in me,
nell’oggi di ogni giorno.

venerdì 21 gennaio 2022

La Bibbia è viva e parla


La Bibbia mi appassiona come credente, perché so che in essa Dio mi parla con parole che possiedono uno spessore e una profondità che altre parole non hanno, siano esse di filosofi, di politici, di poeti. Per me sono «parole di vita»: contengono la vita e la comunicano, fanno vivere la persona umana in tutta la sua interezza. Leggo la Bibbia ogni giorno, la studio, la prego, cerco di lasciarmi guidare dal suo insegnamento.

Mi appassiona come uomo, amante dell’umanità, perché vi vedo dipinta la bellezza della natura; sento l’incanto e la meraviglia davanti allo sbocciare della vita in tutte le sue espressioni ed età. In essa ritrovo i grandi valori umani presenti in tutte le culture, i sentimenti comuni a ogni uomo, a ogni donna; incontro la saggezza di molti popoli; riconosco i comuni miti antichi; seguo le gesta paradigmatiche di uomini e di genti.

Mi appassiona come amante delle arti, perché vi ritrovo i simboli, le storie, i riferimenti che hanno ispirato letteratura e musica, scultura e pittura, poesia e teatro, impregnando di divino e di cielo il genio dell’umanità. Poeti, pittori, scultori, scrittori, musicisti, registi, hanno letto la Bibbia non soltanto come un immenso repertorio iconografico e simbolico, ma anche come uno dei codici fondamentali di riferimento espressivo e spirituale.

La Bibbia esercita un fascino anche al di fuori del mondo occidentale e cristiano. Gandhi vi coglieva qualcosa che sapeva gli apparteneva da sempre: «Quando lessi i Vangeli e arrivai al Sermone della Montagna, cominciai a cogliere in profondità l’insegnamento cristiano. L’insegnamento del Sermone della Montagna riecheggiava qualcosa da me appreso durante l’infanzia, qualcosa che sembrava appartenere al mio essere e che mi pareva di veder attuare nella mia vita di ogni giorno... Dissetatevi profondamente alle fonti del Sermone della Montagna».

La Bibbia, «grande codice» dell’umanità, come l’ha definita Northrop Frye sulla scia di William Blake, è il punto di riferimento imprescindibile della nostra cultura, la stella polare a cui si sono orientati tutti, credenti e non credenti, quando hanno cercato il bello, il vero e il bene, magari anche per respingerne la guida e vagare altrove. Non ci si può non confrontare con questa grande opera. Eppure per i più rimane un libro sconosciuto. Non manca in nessuna delle case degli italiani, forse anche in edizione elegante, ma chi la legge?

Nelle nostre scuole di legge di tutto (anche se poco, purtroppo), ma non la Bibbia. Se ne lamentava anche un grande critico della letteratura italiana come Francesco de Sanctis, che pure era di idee anticlericali. «Non avevo mai letto la Bibbia, e i giovani neppure – racconta lui stesso. Con quella indifferenza mescolata di disprezzo, che allora si sentiva per le cose religiose, la Bibbia, come parola di Dio, muoveva al sarcasmo... Lessi non so dove meraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza e, tirato dall’argomento delle mie lezioni, gittai l’occhio sopra il libro di Giobbe. Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente di comparabile a quella grandezza». Da qui la meraviglia «come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica».

Domenica prossima si celebra la “Giornata della Bibbia”. Perché non promuoverne almeno una semplice lettura? Come quando nel 2008 la si lesse integralmente in maniera continuata, giorno e notte, nella basilica di santa Croce in Gerusalemme a Roma, in una celebre maratona di 139 ore trasmessa dalla Rai?

giovedì 20 gennaio 2022

Siena carismatica


 

Mi sono presentato come Oblato, con scarsi risultati. Quanto invece ho nominato mons. Alessandro Staccioli tutte le porte si sono spalancate ed è apparso il presidente dell’Opera del Duomo, la storica dell’arte, la Priore generale dei Caterinati, ho incontrato anche l’Assessore alla cultura… In primis il fuoriclasse Renato Rossi. Tutta Siena a nostra disposizione.



In questa settimana sono a Firenze per un incontro di formazione permanente per Oblati della fascia più giovane. 






La giornata di oggi è stata dedicata a Siena: Duomo, san Domenico e Santuario di santa Caterina, san Francesco. Un tuffo nella nostra più bella storia dell’arte e della spiritualità. Con l’immancabile ricordo della visita del Patriarca dei monaci buddisti della Thailandia guidata dal vescovo Staccioli…

Mi confermo nella convinzione che non c’è storia senza geografia e che i luoghi possono impregnarsi del carisma e mantenerlo vivo.

mercoledì 19 gennaio 2022

Luigi Gonzaga e Maddalena de Pazzi


 

A Roma dalla mia stanza vedo la cupola di san Pietro; in questi giorni, qui a Firenze, la cupola di santa Maria del Fiore. Michelangelo partendo per Roma per costruire la nuova cupola avrebbe detto: “sarà di te più grande, ma non di te più bella”.





In una stradetta nobile tra Firenze e Fiesole trovo un’edicola con una iscrizione che non avevo mai visto: “Su questi colli ove passeggiando giovinetto sentisti Iddio / o Luigi Gonzaga piovi grazia / che in tanto riso della terra / ricordi agli uomini / il cielo”.



Si riferisce al periodo in cui san Luigi, da ragazzo, era a Firenze alla corte dei Medici. La tradizione narra che in quella circostanza si sarebbe incontrato con Maddalena de Pazzi, la stessa che alla sua morte lo avrebbe visto salire al cielo, come attesta ad esempio la pittura che si trova nelle stanze di san Luigi a Roma che ho fotografato a suo tempo.

Che intrecci belli… e che bello ritrovarne tracce qua e là, confuse tra tanti spazi di luce.

martedì 18 gennaio 2022

Come brace sotto la cenere


Ideali che sbiadiscono? Dipende. A volte sono come la brace sotto la cenere. La fiamma viva riscalda, fa festa, mette gioia. Ma il fuoco può restare vivo anche sotto la cenere. Come Gesù, venuto a portare il fuoco sulla terra e che desiderava di vederlo divampare. Eppure per 30 anni se n’è rimasto nascosto in un paesetto sconosciuto. Avrebbe potuto almeno gettarsi dal pinnacolo del tempio per consentire un miracolo strepitoso capace di attirare l’attenzione di tutti. Invece “perde tempo” in un lavoro umile. Quando finalmente esce da casa sarebbe potuto andare a Roma, nel centro del mondo; resta invece in periferia. Avrebbe potuto ingaggiare uomini di pensiero e d’azione, politici e strateghi militare; scegli invece dei semplici pescatori.

E l’esito del suo triennio appassionato? Si ritrova solo, abbandonato dai discepoli che si era formato con cura. Le folle che ha attirato attorno a sé gridano “crocifiggilo” e gli preferiscono Barabba. Che fallimento…

È sbiadito il grande ideale per il quale era sceso dai cieli sulla terra? Affida la realizzazione del suo ideale: “Che tutti siano uno”, ad una preghiera piena di fiducia rivolta al Padre. Forse conviene entrare nella logica di Dio.

Paolo, che segue le orme del maestro, animato dalla stessa passione, finirà col riconoscere che diventa forte nella misura in cui accusa la propria debolezza (2 Cor 12, 9).

Riconoscere la propria povertà, d’essere un povero vaso di coccio, perché appaia che tutto viene da Dio ed egli solo opera la salvezza, che sua è l’attuazione dell’ideale: “Questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2 Cor 4, 7). È questa la sapienza, e la speranza.

lunedì 17 gennaio 2022

Quell'acqua che diventa vino

 

Ideali che sbiadiscono? Come tenere viva la fiamma? Prima di entrare in merito torniamo alle nozze di Cana.

L’attesa messianica si era affievolita, ormai protrattasi per troppo tempo. Era venuta meno la speranza o si è distorta. È questo il vino che manca a Cana: la novità evangelica capace di sconvolgere la vita, la comunione col Cielo che inonda il cuore, la fratellanza tra tutti che rinnova i rapporti, la pienezza del gaudio che riempia il cuore.

Nessuno lo sapeva ancora, ma il tempo della manifestazione di Dio, del compimento delle promesse, dell’esaudimento dell’attesa era finalmente giunto. Era il tempo del vino nuovo. Soltanto una persona lo sapeva, la Madre, che conserva in cuore i misteri. Era giunta a Cana prima di Gesù, per preparargli la strada. L’amore l’aveva reso attenta. Sa cogliere la penuria e il disagio. È un amore concreto, il suo, di madre: «Non hanno più vino». Che Gesù renda noto a tutti che il tempo è giunto, e lo mostri col primo dei suoi segni!

Oggi come allora abbiamo bisogno della presenza premurosa di Maria alla nostra mensa. L’acqua incolore del nostro monotono vivere quotidiano, della dispersione nella banalità, della cattiveria, domanda di essere cambiata in vino di esultanza e in fuoco di ardimento. Maria vede i poveri della terra, i soli, e gli odi, i soprusi, le violenze, le guerre... Col cuore e lo sguardo immacolati, sa vedere e capire. Intercede ancora per noi. Bussa di nuovo alla sorgente della vita e spilla il vino nuovo.

A noi seguire la sua indicazione: «Fate quello che vi dirà». È l’ultima sua parola registrata dai Vangeli, con la quale ci indirizza a Gesù. A volte le parole di Gesù possono sembrare un assurdo, come dovettero sembrare ai servi: attingere acqua e offrirla come fosse vino? «Fate quello che vi dirà», continua a ripetere Maria, senza esitazione, senza paura, con piena fiducia.

 

domenica 16 gennaio 2022

Ideali che sbiadiscono?


 

“Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima: cose sempre più piccole e più lontane, e un’astratta passione, sempre uguale, triste: ma vedrai che andrà così”. 

Così il protagonista de L’orologio, di Primo Levi, nel momento in cui – siamo nel 1945 – il Ferruccio Parri si dimette da presidente del Consiglio.

Mi hanno fatto una certa impressione leggere adesso queste parole. Sembra la parabola di tanti ideali, come il mondo unito, evangelizzare fino ai confini della terra, promuovere la fraternità universale... Ideali che rischiano di sbiadire, di rimpicciolire, fino all’implosione, al ripiegamento su se stessi, alla salvaguardia dei propri interessi.

Come tenere viva la fiamma? Ne parliamo nei prossimi giorni.


sabato 15 gennaio 2022

Alla festa di nozze


Le nozze di Cana. Gesù, Maria, i discepoli, fanno festa agli sposi. E perché la festa non si rattristi vale la pena anche cambiare l’acqua in vino. È un “segno”, come sottolinea Giovanni. Un segno di cosa? Di un rapporto nuovo tra Dio e l’umanità che trova l’immagine più appropriata nel matrimonio.

Già dall’Antico Testamento l’idea di Dio “sposo” d’Israele, è impiegata per descrivere l’opera di salvezza che egli compie in favore del suo popolo e stabilire con lui un legame indissolubile proprio come quello sponsale). L’amore umano diventa il paradigma dell’amore di Dio per il suo popolo e della risposta del popolo al suo Dio. La storia d’Israele è letta in chiave di rapporto sponsale. Si narrano il fidanzamento e le alterne vicende dell’amore, fatto di tradimenti, di ritorni, di momenti di intimità… Punto fermo rimane l’amore eterno e fedele di Dio, che non si lascia scoraggiare dalle infedeltà del popolo-sposa: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora la mia fedeltà amorosa» (Ger 31, 3; cf Ez 18 e 23).

L’immagine sponsale è ripresa in maniera velata da Gesù. Lo sposo è il Messia (cf Gv 3, 29) o il figlio del re (cf Mt 22, 1-4), Gesù stesso (cf Mc 2, 18-20). La sposa invece non viene espressamente indicata, anche se in Gv 2,1-12 la si può intendere come Maria, quale immagine della Chiesa.

Sarà Paolo a riprendere riprese la relazione tra Cristo Sposo e la Chiesa in termini sponsali. Egli ha fidanzato a Cristo la comunità di Corinto, e si sente impegnato a custodirla e a preservarla dalla seduzione delle false dottrine così da poterla presentare allo sposo come vergine pura (cf 2 Cor 11, 2). Per questo i fedeli appartengono ormai a Cristo: «Voi siete di Cristo» (1 Cor 3,2), al punto che «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1 Cor 6, 15). Anche in Gal 5,24 i cristiani vengono designati come «quelli che sono di Cristo Gesù». Cristo ha amato la Chiesa e per lei si è offerto al fine di santificarla e di averla accanto a sé gloriosa, senza macchia o ruga, santa e irreprensibile (cf Ef 5,25-27). L’unione dell’uomo e della donna diventa profezia del mystérion, del progetto di alleanza definitiva con l’umanità intera che Dio ha inaugurato nel mistero pasquale.

I primi scrittori cristiani riprendono l’immagine sponsale per indicare il particolare tipo di legame che unisce Cristo alla Chiesa e per esprimere l’esigenza di una reale comunione con Dio. Origene scrive: «Intendi che Cristo è lo sposo, e la sposa è la Chiesa senza macchia né ruga». Quindi, passando dalla Chiesa alla singola anima, continua: «L’interpretazione spirituale (…) ha per oggetto la chiesa che va a Cristo sotto le figure della sposa e dello sposo, e l’anima che si unisce al Verbo di Dio». La Sposa si identifica sia con il singolo che con l’intera comunità dei cristiani, a condizione che il singolo sia Chiesa!, come scrive Bernardo di Chiaravalle: «Anche se nessuno di noi può tanto pretendere di chiamare la sua anima sposa del Signore, tuttavia, poiché apparteniamo alla Chiesa, la quale si gloria di chiamarsi ed essere veramente, tale, non senza ragione ci attribuiamo una partecipazione a questo onore. Siamo infatti singolarmente partecipi, senza dubbio, di ciò che tutti insieme pienamente e integralmente possediamo».

Per questo, come a Cana, dobbiamo restare assieme: Gesù, Maria, i discepoli…

Sposo amato,
che hai cambiato l’acqua in vino
e il vino nel sangue tuo,
siedi ancora alla nostra mensa,
disseta la brama di vita vera,
inebria di desiderio di Cielo,
ricolma il cuore
d’infinita gioia,
trasforma la nostra grigia umanità
nella tua luminosa divinità
e saremo pronti per la festa di nozze.

venerdì 14 gennaio 2022

Misteri della resurrezione / 4


Quarto mistero: Gesù incontra Tommaso nel cenacolo.

Gesù «disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; prendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo; ma credente!». Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”» (Gv 20, 27-28). È la più alta professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: una fede partecipata, personale, appassionata: «Sei il “mio” Signore, il “mio” Dio», così come per la Maddalena era il Maestro “mio”. Egli è “mio” perché io sono suo, mi ha acquistato a caro prezzo, testimoniato dal segno dei chiodi e della lancia che non ha voluto cancellare perché sempre, per tutta l’eternità, vi leggessimo il suo amore infinito.

Chiediamo a Maria il dono della fede per quanti dubitano o non credono: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto del suo seno Gesù:

1. che venne nel cenacolo a porte chiuse (Gv 20, 26)
2. che stette in mezzo ai suoi discepoli (Gv 20, 26)
3. che si mostrò a Tommaso incredulo (Gv 20, 27)
4. che chiese a Tommaso di guardare le sue mani trafitte
(Gv 20, 27)
5. che chiese a Tommaso di tendere la sua mano e metterla nel suo fianco
(Gv 20, 27)
6. che chiede di credere in lui
(Gv 20, 27)
7. Signore mio e mio Dio
(Gv 20, 28)
8. che dichiara beati chi crede senza vedere
(Gv 20, 29)
9. che dà la vita eterna a chi crede in lui (Gv 6, 47)
10. che abbiamo creduto e conosciuto come Figlio di Dio (Gv 6, 69)

giovedì 13 gennaio 2022

Per attuare la profezia del Concilio Vaticano II



Si è tenuta la commemorazione dei 50 anni dell'Istituto Claretianum. Mi è stata chiesta la mia testimonianza: 

Agli inizi del 1960 la RAI mandò in onda una serie di interviste e documentari in preparazione al Concilio Vaticano II che avrebbe avuto inizio l’11 ottobre 1962. Ero un ragazzo. Seguii quelle trasmissioni con grandissimo interesse. Suscitarono in me una immensa speranza. Sono cresciuto nel tempo del Concilio. Ho seguito i miei studi di teologia sull’onda del Concilio. Mi sono lasciato forgiare dalla sua utopia, dalla sua passione per l’umanità: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, 1). Il Concilio mi ha aperto gli orizzonti del dialogo ecumenico, interreligioso, culturale… Ha radicato la mia fede nella Parola di Dio, nella vita liturgica, e mi ha invitato a leggere i segni dei tempi, a condividere la fede con tutti.

Spinto da questo onda, pensai di affrontare il biennio di licenza in ecclesiologia all’Università del Laterano incentrando il mio studio sul mistero della Chiesa che il Concilio descriveva come Popolo di Dio, come comunione. Divorai i commenti della Lumen gentium di Baràuna, Philips, ma anche le opere di teologi che avevano preparato e lavorato al Concilio, come Semmelroth, Hamer, Congar, Rahner, de Lubac…

È in questo contento che seguii con molto interesse il corso di Juan Manuel Lozano sulla teologia della vita religiosa, a commento del capitolo VI della Lumen gentium. Ne fui affascinato. Decisi così di continuare gli studi al Claretianum dove Lozano insegnava. Prolungai quindi di un anno la licenza, preparando la mia tesi sulle origini della comunità della mia Congregazione, fermandomi al periodo tra il 1815 e il 1818. Il frutto del lavoro fu subito pubblicato sulla rivista dell’Istituto, “Claretianum” (1976). Nello scrivere questo elaborato fui seguito da un altro professore che ebbe in me una grande incidenza, Rudolf Mainka. Lozano mi apriva alla metodologia teologica, Mainka a quella storica. Senza dimenticare Augé che combinava in armoniosa sintesi storia e teologia. Avevo così le due principali coordinate che hanno segnato non solo il mio percorso personale di studio, ma l’impostazione stessa dell’Istituto. (…)

Subito dopo la licenza chiesi a Lozano se riteneva opportuno che proseguissi gli studi per il dottorato. Mi rispose che se ne era parlato nel Consiglio dell’Istituto e che ero invitato per l’insegnamento. Fu così che, dal 1977, iniziai la docenza al Claretianum: sono passati 45 anni! Nel 1980 conseguii il dottorato, il primo che veniva conferito dall’Istituto. (…)

A seguire il mio dottorato con fu tuttavia Lozano, che pure aveva accettato l’incarico. Presto infatti egli si trasferì negli Stati Uniti e invano cercai di mantenere il contatto con lui. Mi avvalsi allora dell’amicizia con un altro dei pilastri dell’Istituto, il padre Santiago Gonzalez Silva che benevolmente leggeva il mio lavoro capitolo per capitolo incoraggiandomi e offrendomi i suoi suggerimenti, divenendo di fatto il mio relatore. A lui la mia profonda gratitudine.

Nel 1992 fui nominato professore ordinario. Per sei anni, dal 1983 al 1989, sono stato professore incaricato di Teologia spirituale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense e successivamente professore invitato nella Facoltà di Teologia della Università Pontificia Salesiana (1991-2000), nella Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione - Auxilium, allo Studium della CIVCSVA… Tuttavia l’insegnamento al Claretianum mi ha costantemente accompagnato lungo tutta la vita ed è stato quello che ha caratterizzato il mio percorso.

Ho iniziato l’insegnamento al Claretianum con il tema dei carismi, che successivamente ho sviluppato in diversi corsi e seminari, fino a focalizzarmi sulla metodologia di ricerca e di studio del carisma dei fondatori. Ne sono nati tre libri: I Fondatori uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di fondatore, 1981; In ascolto dello Spirito. Ermeneutica del carisma dei fondatori, 1996; Carismi. Vangelo che si fa storia, 2011.

Presto mi fu affidato il corso fondamentale di Teologia della vita comunitaria, precedentemente tenuto da Lozano. Il frutto è uno dei miei libri più riusciti: Koinonia. Itinerario storico-spirituale della comunità religiosa, 1992, con tre edizioni in italiano e due in inglese. Successivamente ho integrato il testo con il libro Esperti di comunione. Pretesa e realtà della vita religiosa (1999), che ha conosciuto numerose traduzioni.

Al Claretianum ho tenuto parecchi altri corsi e seminari, tra cui: l’apporto dei religiosi nel dialogo ecumenico e interreligioso, i documenti del Magistero sulla vita consacrata, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, il valore teologico della Regola, la trasmissione del carisma… Ho partecipato come relatore a convegni, seminari, conferenze semestrali, prolusioni accademiche organizzati dall’Istituto. Sono stato uno dei relatori che più spesso è intervento ai convegni annuali. Tutto questo per dire che ho partecipato concretamente con gioia e senso di gratitudine alla vita accademica dell’Istituto.

In tutto questo ho avvertito una grande libertà. Non ho mai ricevuto pressioni in una direzione o nell’altra. Mi è sempre stato dato campo libero nel metodo e nei contenuti. Segno di una grande fiducia. Penso sia un’altra delle caratteristiche dell’Istituto da ricordare e salvaguardare.

Legate ad essa altre due peculiarità alle quali accenno appena perché tornano, sono sicuro, in ogni testimonianza. Primo il senso di famiglia. I rapporti sono stati sempre sinceri, anche se non sono mancati inevitabili momenti di tensione, ugualmente fecondi. Senza discapito alla serietà accademica, anzi, favorendola. Secondo l’attenzione alla formazione, anche questa senza che venisse intaccata la serietà dell’insegnamento, anzi offrendo ad esso una ulteriore forte motivazione. L’accoglienza di studenti a diversi gradi di inserimento accademico è garanzia di apertura senza pregiudizi.

Una commemorazione non si esaurisce in uno sguardo rivolto al passato, è anche e soprattutto proiezione sul futuro. E qui torno all’evento con il quale ho iniziato: il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per i nostri studenti di oggi è un avvenimento lontano nel tempo e rischia di appiattirsi su un passato senza tempo, confondendosi con il Concilio di Trento, il Lateranense IV… La teologia del periodo successivo al Vaticano II non si è fermata per fortuna ad un’esegesi del Concilio, ha progredito oltre. Eppure quella spinta profetica non ha perduto ancora la sua propulsione e deve continuare a ispirare la riflessione e la prassi.

Il Concilio ha collocato la vita consacrata nel contesto ecclesiale, nella comunione armonica tra tutte le vocazioni, riconoscendone la specificità e l’originalità e suggerendo piste per il suo continuo rinnovamento. Non possiamo dimenticare questo magistero.

Per questo occorre conoscere l’evento. Nel mio insegnamento non soltanto ne ho fatto costante riferimento, ma ho dedicato dei corsi a illustrarne la storia, il significato, i contenuti. Mi auguro che la memoria del Concilio sia tenuta sempre particolarmente viva nell’Istituto, servendosi di tutti gli strumenti possibili.

Il secondo auspicio è che, come si studia la vita consacrata quale evento storico, così la si studi nel suo contesto geografico: non esiste storia senza geografia. Benedetto, Domenico, Francesco, Caterina da Siena, Francesca Romana, Brigida di Svezia, Ignazio, Filippo Neri, Camillo de Lellis, Calasanzio, gli innumerevoli santi dell’Ottocento, da Gaspare del Bufalo, Vincenzo Pallotti, a Giovanni Bosco, quelli del Novecento, da don Orione a Giacomo Alberione, sono passati da Roma, hanno vissuto a Roma, vi hanno lasciato il segno. Eppure i nostri studenti continuano a studiare la storia avulsa dai luoghi della storia, così che questa diventa evanescente, lontana e difficilmente assurge a “maestra di vita”. Perché non consentire loro di approfittare di quello che la “città eterna” offre? È qualcosa di unico! Perché altrimenti studiare a Roma invece che a Manila o a Kinshasa o a Città del Messico?

Mi piacerebbe che alcune lezioni si tenessero per le strade di Roma percorse dai fondatori di tutti i tempi, nelle case dove hanno abitato, nelle chiese dove hanno pregato. Tra l’altro ovunque sono passati o hanno vissuto è fiorita un’arte che rispecchia il carisma. Tutto parlerebbe e sarebbe più vivo. Troverebbe senso anche venire a studiare a Roma.