domenica 31 agosto 2014

La Croce vista dall'Indonesia

P. Giuseppe Rebussi, prima missionario in Laos ora in Indonesia, ha presieduto la nostra messa e ci donato la sua prospettiva della Croce:

Il giorno del Signore. Forse lo gustiamo meglio noi nella missione questo raggruppamento di persone, dove la gente, che viene da lontano, si raduna in anticipo e rimane più a lungo dopo la messa per parlare e salutarsi.
Anche oggi siamo chiamati ad ascoltare la parola del Signore.  Una parola, quella di oggi, che è sembrata dura a Pietro, al quale è stata rivolta per primo : Gesù prende la croce e la porta per la strada che il Padre gli ha indicato e chiede a Pietro di seguirlo, di fare altrettanto.
Prendi la tua croce e seguimi.
Sappiamo bene che quel giorno Pietro era stato scelto per rappresentarci e che quindi quella parola, quell'invito era rivolto a tutti noi che ci dichiariamo suoi discepoli.
In verità noi cattolici siamo abbastanza proliferi nel mettere la croce in primo piano. Da parroci lo facciamo ad ogni processione: chiediamo al crocifero di precederci. Le nostre chiese, dentro e fuori, sopra i tetti e sui muri, come nelle suppellettili della nostra liturgia sono fortemente segnate dalla croce. Come Oblati siamo contrassegnati da una grande e vistosa croce. Altrettanto fanno i vescovi e i membri di tante congregazioni maschili  e femminili. I fedeli, uomini e donne non sono da meno, con croci più piccole ma più costose… Da noi è piuttosto la corona del rosario sempre terminante con la croce ben in vista sul petto. Durante la guerra di Timor Est, anche i soldati non cristiani, compresi alcuni mussulmani, si procuravano una croce o un rosario e a volte  ne chiedevano la benedizione prima di partire al fronte…
Ma queste croci di decorazione e di distinzione certamente giuste e legittime, non sono necessariamente il segno della sequela di Cristo e portatrici di salvezza per il mondo…

    La croce che il Cristo ci impone portatrice di salvezza non è necessariamente quella cruenta del Calvario, ma quella della fedeltà, quella che lui stesso incominciò a portare dopo i primi mesi di successo popolare, quando Gesù cammina verso la contestazione, le incomprensioni, i tradimenti….
E questo in verità vale per ogni strada pienamente umana, nella vita professionale, la vita affettiva o familiare che esige croci che costano, spesso molto dolorose. Non si può salvare capra e cavoli, come dice la saggezza popolare, bisogna scegliere, lasciare e portare con chiarezza….
Perciò Gesù ci dice che bisogna morire per svolgere la nostra missione. E in questa morte risiede la pienezza della vita

Il segreto di questa condotta in apparenza, anche di fronte alle sconfitte, alle delusioni e alla sofferenza.

Le prove non ci mancano. Nel 1975 un centinaio di missionari nel Laos, come in Cambogia e nel Vietnam, in pochi giorni  si videro distrutta la missione che amavano più di se stessi, l’anno seguente molti ripartirono per la stessa missione in luoghi nuovi, noi in Indonesia, altri altrove ed a tutti costoro che rimasero così fedeli, Dio ha mostrato la sua ben più grande fedeltà, creando nuovi gruppi di credenti e nuove diocesi per la vita della Chiesa, e, al ritmo da Lui.

Un Padre che ha cura di noi - I fioretti di Don Bosco / 2


Strumenti della Provvidenza sono spesso persone anonime, semplici, che a loro volta confidano nella Provvidenza. “Mentre D. Bosco era angustiato per un debito di 300 lire che bisognava pagare senza dilazione, ecco entrare in cortile un uomo di età matura il quale avvicinatosi a lui, gli disse: “Io sono un impiegato governativo in ritiro. Ho fatto qualche risparmio sulla mia pensione ed ho pensato di fare un po' di bene per l'anima mia". Così dicendo porgeva a D. Bosco una borsa. "Ma lei, si è serbato qualche cosa per caso di malattia?" chiese D. Bosco: "C'è la Provvidenza, concluse il bravo uomo... In quella borsa vi erano precisamente 300 lire”.
Un giorno si presenta all'Oratorio una donna anziana che chiede di Don Bosco: “Io sono una povera vecchia: ho sempre lavorato per poter vivere: avevo un figlio e mi è morto; ora non mi resta che morire io pure... Ecco: ho cento franchi, risparmio di 50 anni di lavoro continuo, e li consegno a vostra signoria...”.

La fede nella Provvidenza non esime Don Bosco dalle fatiche, dalle ansie, dalla ricerca continua di fondi per portare avanti le sue opere. La fiducia nella Provvidenza non lo rende passivo. Anzi, come leggiamo nelle Memorie, gli atti di beneficienza di cui era oggetto gli ispiravano “le più amorose industrie, per provvedere a tutti i bisogni de' suoi cari”.
Ma non c'è industria umana che valga quanto l'industria soprannaturale escogitata dalla Provvidenza. E' questa fiducia senza limiti nell'aiuto di Dio che lo rende audace nelle imprese, a dispetto della prudenza dei suoi collaboratori.

Quando una volta, proprio con i suoi collaboratori, traccia le ardite linee di sviluppo della Congregazione, si sente obiettare: “Ma la parte finanziaria è in pessimo stato. Dappertutto si fabbrica, dappertutto spese enormi... Dove prendere il denaro? Corriamo il pericolo di far fallimento”. E Don Bosco: “Eh! Io debbo rispondere che se dovessi guardare solamente le cose umanamente, a ciò che sta nella palma della mia mano, sarei spinto a mettermi in testa un fazzoletto bianco, a travestirmi, andare a seppellirmi nella solitudine della Tebaide e non lasciarmi mai più vedere nella società; poiché‚ non vedo modo di aggiustare i nostri affari con mezzi umani. Ma noi siamo soliti ad alzare gli occhi in su e confidare nella Provvidenza e la Provvidenza non ci manca. E come arguire il suo soccorso? Dalle cose che furono noi possiamo benissimo arguire le cose che saranno. Per il passato fummo assistiti dalla Provvidenza e speriamo che ci assisterà per l'avvenire. Nelle condizioni in cui ci troviamo oggi, noi ci siamo già trovati molte altre volte; anzi, possiamo dire che questa è la nostra condizione permanente. Aggiungerò: ci trovammo in casi peggiori. Ci mancò mai la Provvidenza? Mai!... Come si fece fin qui a progredire? Confidammo illimitatamente nella Divina Provvidenza! E questa non ci mancò mai!”.

venerdì 29 agosto 2014

Un Padre che ha cura di noi - I fioretti di Don Bosco / 1


 
12 gennaio 1858. Fra pochi giorni, il 20 del mese, don Bosco deve estinguere un grosso debito. Non ha un soldo. “Trovandosi egli dunque in tali ristrettezze - raccontano le Memorie biografiche -, dice ad alcuni giovani in privato: "Quest'oggi ho bisogno di una grazia particolare: io andrò in Torino, e per quel tempo che vi rimarrò procurate che vi sia sempre qualcuno di voi a pregare in Chiesa". Così si fece. D. Bosco andò in città e quei giovani alternativamente andarono a pregare in chiesa. Mentre D. Bosco camminava per Torino, vicino alla chiesa dei Lazzaristi gli si presenta un signore sconosciuto e dopo averlo salutato gli domanda: "D. Bosco! E' vero che ha bisogno di danari?". "Altro che bisogno! necessità". "Se è così prenda!". E gli presentò una busta nella quale erano più biglietti da mille... Così dicendo si allontanò in fretta”. E' una prassi che ricorre sovente: mette i giovani in preghiera, se ne va in giro per Torino e sempre trova qualcuno che lo ferma e gli dà il denaro necessario per pagare l'editore, il panettiere, l'impresario delle costruzioni...
“Ma - come leggiamo sempre nelle Memorie - se le cento volte egli andava in cerca della divina Provvidenza, questa madre amorosa veniva le cento volte e le mille in cerca di lui co' suoi soccorsi”. E si racconta, ad esempio di quando un mattino di festa il panettiere venne per farsi pagare. Don Bosco stava confessando i ragazzi “ma il panettiere si fa largo in mezzo ai giovani e va difilato innanzi a D. Bosco e incomincia ad insistere... D. Bosco per tutta risposta continuò a confessare... Finito che ebbe, pregò il Signore che lo aiutasse in quell'angustia e in quel mentre entrava in sagrestia un signore a lui ignoto, il quale gli consegnò una lettera chiusa e, salutatolo cortesemente, se ne andò senz'altro... Apertala trovò una somma considerevole, che tosto consegnò a D. Savio per contentare sufficientemente il panettiere”.

D. Savio Angelo, economo dell'Oratorio, racconta altri episodi: “Un creditore, dopo una sfuriata, per non essere ancora stato pagato, già stava per andarsene dalla camera di D. Bosco, minacciando di far spiccare contro di lui una citazione giudiziaria. Quand'ecco un benefattore presentarsi a D. Bosco e consegnarli tremila lire, precisamente la somma necessaria per pagare quel debito. Un'altra volta trovandomi io stesso in bisogno di dar le paghe ai muratori per le costruzioni già fatte, ricorsi a D. Bosco, ma egli nulla aveva di che darmi. Nel mentre che D. Bosco mi licenziava, dicendomi di tornare in altro momento, entrava in sua camera, se ben ricordo, il Conte Callori, il quale consegnò una vistosa somma che servì a meraviglia in quella critica circostanza”.

giovedì 28 agosto 2014

Gli angeli di Pietro Cavallini volano ancora

Clericus vagans, oggi mi fermo in un luogo davanti a cui passo da 45 anni e nel quale mai ho messo piede. Anche qui, come in ogni angolo di Roma, è arrivata una ragazza da fuori e ha dato inizio a una nuova avventura. Era il 4 settembre 1891, la ragazza, Antonia Lalìa, veniva dalla Sicilia e fondò una congregazione di Domenicane che ora abitano qui e che da qui partono per tutta l’America Latina e la Russia. Ma prima, nel 1219, c’era già stato san Domenico con i suoi frati e due anni dopo, quando si trasferì sull’Aventino, qui fondò il monastero per le sue Domenicane.
San Sisto Vecchio, che storia straordinaria, millenaria, iniziata nel IV secolo e proseguita tra le più svariate vicende, fino ad essere confiscato dallo Stato italiano per farne deposito di materiale e di carri funebri. Ma prima ancora doveva esserci lì una villa romana, a giudicare dai mosaici ritrovati. Scrigni di capolavori d’arte: architetture romaniche, chiostri e torrette medievali, affreschi…

Mi accoglie una giovane suora guatemalteca, qui a Roma da appena cinque anni e già esperta guida storico artistica.
Iniziamo dal luogo dove un tempo sorgeva la sala capitolare, oggi ricostruita e trasformata in cappella. Qui Domenico si è permesso il lusso di operare la risurrezione di un bambino, poi di un giovane e di un adulto. Passiamo al grande refettorio dove mangiano ancora le suore. Chissà com’era nel 1200 quando avvenne il miracolo dei pani? E poi il chiostro con le storie di san Domenico dipinte in una trentina di lunette. A mano a mano che la suora me le illustra, una per una, scorre la vita del santo bella e universale come soltanto quelle dei santi sanno esserle
Infine la basilica. Quella antica a tre navate è completamente interrata, emergono appena, a fior di pavimento, i capitelli che sorreggevano le arcate delle tre navate. L’attuale è in restauro e quindi inaccessibile a causa dell’arresto dei lavori per mancanza di fondi, oltre che per le solite imbrigliature burocratiche. Trovo tuttavia il modo di accedere al capolavoro qui celato: gli affreschi due-trecenteschi di Pietro Cavallini nascosti tra vecchie intercapedini… Gli angeli sono inconfondibili, gli stessi, anche se in dimensioni più piccole, di quelli dipinti nella basilica di santa Cecilia. Chissà perché gli piaceva tanto dipingere gli angeli. Forse perché lo portavano in un altro mondo, più vero. Anche producono in me lo stesso effetto. Cavallini ne sarebbe stato contento.



mercoledì 27 agosto 2014

Monica: esaudita oltre ogni aspettativa


Sono tanti i modi di camminare per Roma. Puoi lasciarti ammaliare dai negozi, dai tavoli di ristoranti e trattorie che dilagano su marciapiedi e piazze, dai turisti che valgono quanto i monumenti, dagli angoli nascosti e romantici, dalle luci e le ombre con cui il sole si diverte a colorare in modo sempre nuovi cornicioni e squarci di cielo.
Questi giorni mi ha attirato una lapide che ricorda Mary Ward venuta a Roma dall’Inghilterra che con le sue Dame inglesi apre una scuola per le ragazze del rione Monserrato. Un’altra lapida lascia ai posteri la notizia che Luigi Gonzaga, venuto da Mantova il 20 novembre 1585, fu ospite in quel palazzo di via della Scrofa 1991, del cugino Scipione Gonzaga. Più in là si ricorda che Giuseppe Calasanzio, venuto dalla Spagna in cerca di fortuna, l’ha trovata incontrando i ragazzini di strada per i quali dà vita a scuole gratuite, allora dette “pie”…
Non c’è rione o piazza o vicolo che non ricorda che in santo, venuto dal capo del mondo, è stato qui, ha fatto questo, ha fatto quello… Che itinerari di santità potremmo percorrere per le strade di Roma.
Oggi è la volta di Monica, che è venuta dal Nord d’Africa per morire all’allora porto di Roma, Ostia antica, in procinto di tornare in patria. Aveva chiesto ai figli Agostino e Navigio che la seppellissero dove avrebbero voluto, tanto per lei niente aveva più valore. Per mille anni è stata in un bellissimo sarcofago a Ostia. Poi è stata trasportata nella chiesa di Sant’Agostino, costruita alla fine del 1400.
Una chiesa meravigliosa quella di sant’Agostino, la prima chiesa del Rinascimento a Roma, con la sua bella facciata rivestita del travertino di cui è stato svestito il Colosseo.
Dentro la Madonna del Sansovino, quella del Caravaggio, l’altare del Bernini… Ma oggi vado dritto nella cappella che, in un sarcofago verde – l’antico è ancora lì, su di un lato – conserva il suo corpo. È il momento di leggere le sue ultime parole rivolte al figlio Agostino: “Non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?”.


martedì 26 agosto 2014

Igino Giordani, inconfondibile!



“Se io devo amare il fratello come me stesso,
io devo essere Cristo per il fratello.
E cioè non soltanto il fratello è Cristo per me,
ma io sono, devo essere, Cristo per lui.
Semplice: amare alla divina”.

Igino Giordani, inconfondibile!
Per oggi mi basta.


lunedì 25 agosto 2014

Un Padre che a cura di noi / 3 -La feconda povertà di S. Francesco d'Assisi


Nell'esperienza dei Francescani la povertà si rivela un fattore centrale del vivere religioso e di conseguenza anche l'abbandono fiducioso all'amore del Padre ha un posto fondamentale. Si vogliono riprodurre il più fedelmente possibile i tratti di Cristo. Come lui si vuole andare itineranti predicando il Regno di Dio in povertà. Anche a questi nuovi apostoli Gesù sembra ripetere: “Quando vi ho mandato per il mondo, vi è mai mancato nulla?”.
Per Francesco la radicalità della povertà va di pari passo con la radicalità della fiducia in Dio. Oddone da Cheriton riporta una sua parabola nella quale, in modo vivo ed eloquente, egli esprime questo totale abbandono nella divina Provvidenza. “Un giorno fu sottoposta a frate Francesco la questione: chi avrebbe provveduto al sostentamento dei suoi frati, visto che accettava indifferentemente tutti quelli che si presentavano. Rispose con questa parabola: Un re amò una donna nel bosco e la rese incinta. Essa diede alla luce un figlio e per un po' di tempo lo nutrì per conto suo; poi lo portò alla reggia perché da qui in avanti provvedesse il re al suo sostentamento. Appena fu recato al re l'annuncio della venuta di quella donna, disse: "Tanti uomini perfidi e inutili mangiano alla mensa regia, è ben giusto che mio figlio possa prendere il suo nutrimento tra loro". E frate Francesco diede questa interpretazione: "Io sono la donna che il Signore ha reso feconda con la sua parola, ed ho generato questi figli spirituali. Se dunque il Signore provvede a tante persone ingiuste, non c'è da stupirsi che egli provvederà al sostentamento particolare per i propri figli”.
In effetti le fonti francescane sono ricche di episodi e testimonianze di quanto Dio fosse sollecito e provvido nel venire incontro a quelli che per amore suo avevano abbandonato tutto.
La Leggenda maggiore di S. Bonaventura ci fa sapere che “alla Porziuncola vi era penuria d'ogni cosa; ma, benché qualche volta vi convenissero una moltitudine di oltre cinquemila frati, non mancò mai l'aiuto della Bontà divina, che procurava il sufficiente per tutti e a tutti concedeva la salute del corpo e sovrabbondante gioia di spirito”.
Celano, riferendosi a Francesco in particolare, scrive che “La Provvidenza stessa del Creatore condiscendeva ovunque ai desideri della creatura [Francesco]. Quella paterna clemenza preveniva i suoi desideri e anticipatamente con sollecitudine accorreva come a colui che si era abbandonata ad essa. Si manifestavano ad un tempo il bisogno e la grazia, il desiderio e il soccorso”. Racconta così, a titolo di esemplificazione, come nel viaggio verso la Siria un viaggiatore misterioso abbia soccorso con i suoi beni Francesco e i suoi frati, imbarcati clandestinamente. Ugualmente, nel cammino di ritorno “ecco accorrere attraverso un campo un cavaliere con uno squisito uccello. Costui disse al beato Francesco: "Servo di Dio, accetta con piacere ciò che ti manda la divina clemenza". Accettò con gioia il dono e comprendendo come Cristo avesse cura di lui, lo benedisse in ogni cosa”. Quando ha bisogno di una tonaca nuova giunge un uomo alla porta con del panno per sei tuniche. Francesco riconosce che “quell'uomo è stato mandato per soccorrere un tale modo alla mia necessità. Siano dunque rese grazie a Colui che si prende cura di noi”. Quando invita a pranzo il medico che ogni giorno lo cura agli occhi (ma i frati hanno ben poco da portare in tavola) bussa alla porta una donna che “offrì un canestro pieno di pane fragrante, di pesce, di pasticcio di gamberi, con sopra grappoli di uva e miele”.
Lo Specchio di perfezione narra alcuni fioretti deliziosi, dove appare tutta la delicatezza dell'amore di Dio. Francesco giaceva gravemente infermo. “I frati lo pregavano di mangiare. Francesco rispose: "Non ho voglia di mangiare; se però avessi di quel pesce che si chiama squalo, forse lo mangerei". Ebbe appena espresso questo desiderio, che si fece avanti un tale con un canestro dove erano, ben cucinati, tre grandi squali, e pasticci di gamberi, che il Santo mangiava volentieri. Glieli inviava frate Gerardo, ministro di Rieti”. Anche nell'ultima malattia Francesco esprime il desiderio di vedere Donna Jacopa de Settesoli e insieme di ricevere da lei “del panno monacale color cenere e, insieme (...) quel dolce che a Roma preparò per me più volte”, ed ecco Donna Jacopa alla porta, venuta da Roma spinta da un ispirazione interiore e recante con s‚ i doni che Francesco desiderava.


domenica 24 agosto 2014

E voi, chi dite che io sia?


“E voi, chi dite che io sia”.
Questa mattina, anche nella chiesa delle Clarisse di Albano, con le tante persone venute per la consueta celebrazione domenicale, sono risuonate queste parole rivolte da Gesù ai suoi discepoli.
Già, chi è lui per noi? Al di là dell’imparato e della retorica. Ho chiesto a tutti di fare un compito a casa: scrivere su un pezzo di carta la risposta personale alla domanda di Gesù. Alle suore ho chiesto un ulteriore compito: questa sera avrebbero dovuto leggere assieme, tra di loro, quanto ognuna aveva scritto; non era stata pubblica anche la risposta di Pietro?
Naturalmente il compito a casa avrei dovuto farlo anch’io. Ma non ho fatto in tempo. Pochi momenti dopo ho infatti recitato, come ogni giorno, la preghiera prima della comunione e mi è sembrata la risposta che avrei potuto dare alla domanda di Gesù.
“Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente…”. Non è già qui tutta la risposta? È il Signore, colui che ha in mano la mia vita e quella dell’umanità intera, la storia e il cosmo. È il Cristo, colui che inaugura il Regno di Dio. È proprio il Figlio di Dio, è Dio! E insieme è Gesù, non una deità astratta e lontana, ma una persona vera, umana, storica, con un nome specifico, proprio come noi.
“… che per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo morendo hai dato la vita al mondo…”. Gesù si identifica con la sua missione di morte e risurrezione. Non ha soltanto in mano la mia vita e quella dell’umanità intera, ma dà la vita, la sua, al punto da privarsene per noi: “è Signore e dà la vita”.
“… per il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue…”. È rimasto tra noi nella santissima Eucaristia. Non è un personaggio del passato, è il Vivente.
“… liberami da ogni colpa e da ogni male…”. È il mio Liberatore, e questo è più che perdonare il mio peccato.
“… fa che sia sempre fedele alla tua legge…”. È il Maestro, che non soltanto mi dà la vita, ma mi insegna anche a vivere. La sua legge, il suo insegnamento, è tutto sintetizzato nell’unico comando dell’amore, perché questa è la sintesi di tutta la sua vita.
“… e non sia mai separato da te”. L’anelito più profondo, che fiorisce in cuore dall’aver capito che Egli sia. Perché qui si tratta non di una conoscenza astratta, intellettuale, ma di un rapporto, che giunge alla mutua compenetrazione. L’unico timore è quello di tradirlo, di essere infedeli, di venirne separati, di perderLo. Sarebbe una tragedia. Vista la nostra debolezza, non rimane che l’invocazione fiduciosa perché egli ci conceda il dono più prezioso e ambìto: che “non sia mai separato da te”.


sabato 23 agosto 2014

Un Padre che ha cura di noi / 2 - L’esperienza di Stefano di Muret


Fin dal suo sorgere il monachesimo ha preso alla lettera l'invito di Gesù a fidarsi pienamente del Padre. Ai suoi discepoli Gesù aveva chiesto di lasciare tutto, con la certezza che il Padre avrebbe reso loro cento volte tanto. “Lasciare tutto” è diventata subito l'espressione concreta della sequela di quanti si sono sentiti chiamati alla radicalità evangelica.
Mi ha sempre impressionato l’insegnamento di S. Stefano di Muret. La sua regola, scritta per il monastero di Grandmont da lui fondato, scritta all'inizio del secondo millennio, sembra riassumere in modo meraviglioso l'esperienza monastica della povertà e della fiducia nel Padre. Stefano propone infatti uno stile di vita molto austero per il quale vieta il possedimento di chiese, terre, animali, redditi e anche la questua. Pensando alla radicalità di tali esigenze scrive: “Ma forse ci chiederete in che modo riuscirete a vivere dopo la nostra morte (...). Così vi rispondiamo: "Noi vi lasciamo Dio solo, al quale appartiene ogni cosa, per amore del quale avete lasciato tutto fino a voi stessi": E se praticando questa vita aderirete a lui con costanza (...) egli, quale signore che ha cura dei servi, senza dubbio vi provvederà di tutto ciò che è necessario. Egli infatti dice ai suoi discepoli: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione del secolo". (...) Chiedere dunque al Signore, che è vicino a quanti lo invocano in verità e che può e vuole donarvi molto più di quanto voi vogliate ricevere. Chiedete al Signore, ve lo ripeto, poiché egli dice ai suoi discepoli: "In verità, in verità vi dico: qualunque cosa chiederete al Padre nel nome mio, egli ve lo darà". (...) Vi dico ancora: se bramate essere ricchi secondo il secolo sarete sempre poveri; se desiderate essere poveri secondo Dio sarete sempre ricchi, come dice il salmista: "I ricchi impoveriscono e hanno fame, ma chi cerca il Signore non manca di nulla"”.
S. Stefano invita quindi a fare davvero calcolo dell'aiuto di Dio. “Dunque, fratelli amatissimi, designate il Signore come vostro amministratore, e noi vi diciamo con assoluta certezza che mai la vostra dispensa sarà vuota finché ne affiderete le chiavi a Dio. Come dice il profeta: "Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno". (...) Quanto infatti sarà maggiore il bisogno, allora sarà maggiore anche la vigilanza di Dio nel provvedervi il necessario: perché se di Dio solo farete il vostro tesoro amando la povertà, egli darà con abbondanza e voi non avrete bisogno di nulla. Così dunque, in ogni cosa per quanto sta in voi cercate di comunicare con Dio, essendo poveri in questo mondo come anche lui lo è stato: così sarete ricchi per sempre là dove lui è ricco in eterno”.
S. Stefano conclude la sua esortazione adducendo la propria esperienza: “Quasi quarant'anni sono passati, alcuni di grande fertilità, altri di vera sterilità, in cui io sono rimasto nel deserto in questo regime di voti, e mai nei tempi di abbondanza mi è avanzato qualcosa e nei tempi di bisogno mi è mancato alcunché di necessario. Lo stesso accadrà a voi, se custodite fedelmente questa condotta. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.


venerdì 22 agosto 2014

Un Padre che ha cura di noi / 1


Tra le vecchie carte salta fuori uno scritto semplice del 1992, sulla Provvidenza come espressione dell'amore di Dio. Di questi tempi più tornare utile

Gesù, il Figlio di Dio, È venuto in mezzo a noi per farci conoscere il volto vero di Dio. “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che È nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Così ora noi sappiamo che abbiamo un Padre! Dio È Amore: È il culmine della rivelazione, la piena conoscenza di Dio.
Parlando dell'amore del Padre Gesù ce ne ha mostrato le infinite espressioni. Anzi lui stesso, nella sua vita, ci ha fatto vedere, a fatti, come si manifesta l'amore del Padre. Guardando Gesù noi possiamo infatti vedere il Padre stesso (cf Gv 14,9). Gesù, nel suo amore concreto, si prende cura dei poveri, dei ciechi, degli zoppi, dei lebbrosi, degli emarginati (cf Mt 11,4-6). Si commuove per il dolore di Giairo e della vedova di Naim che hanno perduto i loro figli (cf Lc 8,40-56; Lc 7,11-17). Piange per la morte di Lazzaro e condivide il dolore delle sue sorelle (cf Gv 11,35). Risana i corpi e perdona i peccati, mostrando con i fatti la realtà di un Padre misericordioso che attende il figlio perduto (cf Lc 15,20), che come un pastore buono va un cerca della pecora smarrita (cf Lc 15,4). Gesù passò tra noi facendo del bene a tutti e dicendoci, a fatti cos'è l'amore, fino al momento in cui porta la rivelazione dell'amore al suo culmine, quando compie il gesto supremo nel quale dona interamente se stesso: “In questo si È manifestato l'amore di Dio per noi: Egli ha dato la sua vita per noi” (1 Gv 4,9). Qui si rileva l'amore stesso del Padre, che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo” (Gv 3,16).

Un Padre che provvedere

Vorremmo ora fermarci a meditare assieme su uno degli aspetti di questo finito amore di Dio, quello che si esprime nella sua attenzione concreta alle nostre necessità, che vanno dal pane quotidiano fino allo Spirito Santo. Gesù ci ha infatti insegnato a chiedere con fiducia: “Padre... dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11) e ci ha anche detto: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Egli sa infatti ciò che ci È necessario (cf Mt 6,8).
Egli vuole aiutarci perché è Padre (cf Mt 6,7); un padre pronto a soccorrere più di ogni amico servizievole (cf Lc 11,5-8) e di ogni altro padre terreno (cf Mt 7,9-11), e quindi più del giudice ingiusto (cf Lc 18,1-8). Egli che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo provvederà sicuramente al nostro nutrimento e al nostro vestito (cf Lc 12,22-31), darà sicuramente il pane necessario a chi glielo chiede (cf Lc 11,5-8) così come tutti gli altri beni che gli domanderemo (cf Mt 7,9-12). “Quando eravate con me - chiede Gesù ai suoi discepoli quasi volesse aprire loro gli occhi e renderli consapevoli dell'amore premuroso del Padre - vi È mai mancato quello di cui avevate bisogno?” (   ).
A questa premurosa attenzione del Padre, che ha contato anche i capelli del nostro capo (cf Mt 10,30), occorre rispondere con una altrettanto straordinaria, illimitata confidenza. Era la fiducia incondizionata di Gesù stesso quando prega: “Abbà, Padre, tutto È possibile a te” (Mc 14,36). E' la fiducia incondizionata che egli chiede ai suoi discepoli quando ricorda loro che “tutto È possibile a Dio” (Mc 10,27; cf Lc 1,37).

Naturalmente possono pregare in questo modo soltanto coloro che cercano innanzitutto e soprattutto il Regno di Dio, e non si preoccupano di continuo e inutilmente del “domani” (cf Mt 6,33-34) perché interamente occupati del Regno. Possono confidare nella provvidenza del Padre solo coloro che non servono più Mammona (cf Mt 6,24), n‚ vivono per arricchirsi. Essi posseggono un tesoro in cielo e questo tesoro riempie il loro cuore al punto che non hanno più interesse per altri tesori (cf Mt 6,19-21). Hanno trovato il tesoro prezioso, l'unica perla di valore (cf Mt 13,44-46).

Maria Regina

60 anni fa, nel 1954, a chiusura dell’anno mariano, Pio XII istituì la festa di Maria Regina. Il titolo di “Basilissa” le fu dato fin dai primi tempi della Chiesa, leggendo rivolte a lei le parole del salmo: “Alla tua destra sta la Regina in ori di Ofir... La Figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito” (Sal 45 (44),10. 14).
La madre ha seguito in tutto il Figlio, fino alla croce, fino al cielo… e se lui è Re lei non poteva non seguirlo anche nella regalità. E quante immagini della Madonna sono state incoronate in tutto il mondo!
Ma noi a Roma… Sono così tante le immagini romane di Maria Regina da far supporre che il tema stesso sia di origine romana. Come ti muovi la vedi seduta in trono accanto al Figlio che le impone la corona della gloria. La si ritrova in affreschi nelle Catacombe e nei mosaici di Santa Maria Maggiore, come pure in un affresco della chiesa di S. Maria Antiqua nel Foro Romano, sull’arco trionfale della chiesa dei SS. Nereo e Achilleo. Più tardi eccola di nuovo nella chiesa di S. Clemente, di S. Prassede, di S. Pudenziana.
Perché Maria Regina? Perché in lei la Chiesa, come afferma in Concilio Vaticano II, “ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cf. Ef 5,27), i cristiani invece sono ancora impegnati a crescere in santità vincendo il peccato” (LG 65). In lei Gesù ha toccato il vertice delle sue possibilità di redentore vittorioso. In lei la Chiesa – noi – siamo già quello che ancora non siamo, e che pure siamo chiamati ad essere. Basterà seguirla, come lei ha seguito il Figlio.

mercoledì 20 agosto 2014

L’ultimo sigaro di san Pio X

21 agosto, festa di san Pio X. Quante cose potremmo ricordare di questo papa Santo! Già da vivo lo chiamavano così, “Papa Santo”, perché correva voce di guarigioni avvenute toccando i suoi abiti. Ma lui sorridendo correggeva: “Mi chiamo Sarto, non Santo”.
Oppure ricorderemo l’Enciclica “Pascendi” del 1907, contro il Modernismo? Il suo senso pastorale che lo portò alla riforma liturgica, ad abbassare l’età della prima comunione, a far preparare un nuovo Codice di diritto canonico? Oppure il motto che lo ha guidato nel pontificato: “Instaurare omnia in Christo”?
Potremmo ricordare la prima mattina da papa, quando mandò indietro il barbiere spiegandogli che al proprio paese i sarti facevano anche la barba e che quindi lui, di nome “Sarto”, avrebbe continuato a radersi da solo.
Oggi mi piace ricordare che nel santuario di Boccadirio si conservano, in un medesimo quadro, due sue “reliquie”. La prima – e in fin qui niente da eccepire – è un suo fazzoletto. Ma la seconda… è un mozzicone di sigaro con tanto di autentica da parte del cappellano particolare, Mons. Giovanni Bressan, che ha lasciato scritto: “Sigaro usato da S.S. Pio X la sera del 10 luglio 1909 dopo la cena, alle ore 10 circa pom. Era la seconda volta che fumava dopo l’elevazione al Sommo Pontificato. E fu anche l’ultima”. Più che una reliquia sarà una prova della eroicità delle sue virtù?
Comunque, pur non fumando, continuò a tabaccare. Si racconta che una volta offrì una presa di tabacco a un cardinale ricevuto in udienza, il quale rifiutò dicendo: “Non ho questo vizio”. Al che il papa sembra abbia risposto: “Se fosse un vizio l’avrebbe certamente anche lei”.


martedì 19 agosto 2014

Apa Pafnunzio e la vocazione del profeta Isaia



Apa  Pafnunzio aveva sempre nutrito una segreta simpatia per il profeta Geremia.
Sentiva particolare affinità con la sua reazione difronte alla chiamata di Dio. Aveva iniziato a balbettare come un bambino, per poi dichiarare candidamente: “Mi dispiace, Signore, ti sei sbagliato, non so parlare, faresti meglio a chiamare un altro”.
Il profeta Isaia, di famiglia nobile, con quel fare un po’ altero, gli risultava alquanto antipatico nella sua presunzione. Si era fatto avanti e aveva dichiarato sfacciatamente: “Cerchi qualcuno? Eccomi, ci sono qua io, manda me”.
Quel giorno l’apa riprese a leggerne proprio il libro di Isaia che, al di là dell’autore, era stato fonte di gioia e di consolazione per generazione di credenti. 
Con sorpresa, quasi non l’avesse letto mai prima d’allora, fu colto da stupore notando che anche per il profeta Isaia la prima reazione davanti alla chiamata di Dio era stata di sgomento: “Che guaio mi è capitato. Come parlare a nome di Dio se sono un uomo dalle labbra impure?”
È pur vero che poco dopo mutò atteggiamento e si fece avanti con ardimento. Ma fra i due momenti c’era stato l’intervento del Signore che, con un tizzone ardente, aveva purificato la bocca del profeta.
D’altra parte anche Geremia, sempre sgomento e cosciente della propria inadeguatezza, s’arrese entusiasta, con gioia appassionata, al fascino del suo Dio: “Mi hai sedotto e mi sono lasciato adescare da te, non posso resisterti, non posso non dirti di sì”.
Apa Pafnunzio si ritrovava nell’esperienza del primo moto provato da Geremia come da Isaia: la fuga. Anche lui come loro era inadeguato, peccatore, incapace di parlare.
Eppure non poteva negare che anche per lui c’erano momenti in cui avrebbe voluto gridare: Eccomi, manda me, non posso resistere alla tua seduzione.
Di mezzo c’era quel tizzone ardente che gli bruciava le labbra, quella spina nella carne, come l’avrebbe chiamata Paolo, a ricordargli che sarebbe bastata la grazia di Dio, che tutto sarebbe stato soltanto grazia.


lunedì 18 agosto 2014

Fino a mezzanotte…



Una giornata intera: corso intensivo a venti Guanelliani provenienti dal Sud America, Asia, Africa. 
Giornata dura ma bella. 
Come ricompensa mi basta questa parola di san Luigi Guanella: 
“Fino a mezzanotte ci penso io, poi so che ci pensa Dio”.


domenica 17 agosto 2014

Nella terra di Tiro e Sidone



il santuario di Maghdouché a Sidone
Questa mattina, mentre leggevo il Vangelo di Gesù che va nella regione di Tiro e Sidone e della donna siro-fenicia che gli chiede di guarirle la figlia malata, non ho potuto fare a meno di tornare col pensiero al 22 settembre 2008, quando ho visitato quei luoghi. Soprattutto avevo negli occhi le tendopoli degli profughi palestinesi. Oggi si saranno moltiplicate. Ricordo i pattugliamenti dei militari, il clima di guerra, la tensione, anche questi oggi moltiplicati. E ho pregato come la donna rivolta a Gesù: “Signore, aiutaci”.
Rileggo una pagina di diario di quel mio viaggio:

Ci mettiamo nuovamente in viaggio verso Saïda, l’antica Sidone, e Tiro, luoghi di grandi risonanze bibliche. Il profeta Elia fu accolto in questa terra dalla vedova di Serepta. Giona fu rigettato dalla balena a Jyé, a nord di Saïda (= Sidone). Gesù ha guarito la figlia della sirofenicia a Saïda. Maria, quando Gesù veniva in queste regioni, lo attendeva nella grotta di Maghdouché. Gesù diede le chiavi a Pietro in Libano, a Cesarea di Filippo, identificata con l’odierna Marjaayoun. La trasfigurazione sarebbe avvenuta sul monte Hermon. Tommaso predicò il Vangelo a Tiro. San Paolo passò una settimana a in questa città nel suo viaggio verso Roma e visitò i suoi amici a Saïda.

Il porto romano di Tiro
La grotta di Maria a Sidone
Prima tappa è proprio Saïda, precisamente il santuario di Maghdouché, della Madonna di Mannara (ossia dell’attesa; attendeva l’arrivo di Gesù che andava a predicare a Saïda).
Ad accoglierci, il vescovo greco cattolico emerito, assieme al nuovo vescovo, giovane. Ci accoglie anche un nutrito numero di militari armati fino ai denti, che presidia la chiesa e, con evidente contrasto, un festoso gruppo di bambini che ci regala una simpatica coreografia.
Poi nella grotta della Madonna dell’attesa… Sarà vero non sarà vero, ma siamo lo stesso in un luogo santo. Le chiedo che mi aiuti ad attendere sempre la venuta di Gesù, quella di ogni momento e quella dell’ultimo momento, come lei l’attendeva.
Ancora a sud… e il sud del Libano è come quello di tutti i Paesi… Bananeti, palme di datteri, aranci… e mare, mare, mare. Si intensifica anche la presenza militare sulle strade.
A Tito visita agli scavi del periodo romano e bizantino ed ai resti del porto antico dove Paolo, secondo gli Atti, sarebbe sbarcato trovando con gioia una comunità cristiana e rimanendo una settimana.
Sono le 14.30 quando giungiamo alla cattedrale, ricostruita più volte sulla prima basilica della cristianità, risalente al 314. Anche qui ci accolgono i quattro vescovi del luogo di diverse confessioni. Durante il pranzo il sindaco ci fa omaggio di una sua pubblicazione sulla città di Tiro.


sabato 16 agosto 2014

Vacanza familiare



Metà degli Italiani passa le vacanze a casa e metà fuori casa. Io sono più fortunato, faccio parte della prima e insieme della seconda metà. Sono andato in vacanze fuori casa… a casa. Dalla casa di Roma a quella di Prato.
Una vacanza tranquilla dunque. Il tempo di riprendere i contatti con luoghi e persone cari, di gustare i legami di sempre, che si rinnovano, si semplificano e si affinano. Riposo ideale.


venerdì 15 agosto 2014

Chiesa in uscita o in entrata?


Prato: Monastero di santa Caterina De Ricci

Mi giunge dal Canada un commento al blog di giorni fa sulla festa di san Domenico:

“Molto bello e grazie per il blog nel giorno di San Domenico, con pensieri di San Tommaso sulla Chiesa in uscita. Sempre più, infatti, avverto che non ci può essere una Chiesa che “esce” se non c’è una Chiesa che “entra”. Per vivere fuori occorre vivere dentro…”

Oggi, festa di Maria, mi pare di ravvisare in lei, ancora una volta, l’icona della Chiesa: in uscita (la visita a santa Elisabetta), preceduta dallo stare dentro (l’annunciazione).


giovedì 14 agosto 2014

Assunta: semplicemente Santa Maria


Di Madonna in Madonna, di santuario in santuario, sono approdato al momento culmine del suo disegno: l’Assunzione al cielo. A questo punto non c’è più bisogno di recarsi in un santuario particolare; il santuario dell’Assunta è il cielo stesso!
Maria oggi si mostra come la persona pienamente realizzata, che ha raggiunto la meta. Era partita dicendo che si compisse in lei la volontà di Dio ed ora la sua missione è compiuta.
Maria oggi ci mostra qual è la volontà di Dio su lei e su ognuno di noi: il cielo, da raggiungere con l’interezza di tutto noi stessi, corporeità compresa. Non è un caso che il mistero centrale del cristianesimo sia l’incarnazione di Dio: un Dio che si fa carne, ossia che prende su di sé la totalità della nostra realtà umana. Poteva essere valorizzata più di così la nostra materialità? La conseguenza è che viene “innalzata”… fino al cielo. Tutto è assunto, non soltanto nel senso che è preso su di sé dal Figlio di Dio, ma anche proprio nel senso di portato in alto: l’umanità intera, l’attività umana, il lavoro, l’arte, la creazione. Maria assunta in cielo è la dimostrazione di ciò che Gesù ha operato con noi, la profezia del destino finale di tutti noi, con la materia di cui siamo plasmati, con il cosmo. Siamo fatti per rimanere e abitare per sempre, nei cieli nuovi e nella terra nuova.
Quand’ero piccolo non sapevo che la festa di oggi fosse l’Assunzione. A Prato si chiamava – e si chiama – semplicemente “Santa Maria”: la festa di Santa Maria. Intuizione giusta: l’Assunta è proprio lei, semplicemente lei nel suo vero lei: Santa Maria.
(E che possiamo farci se noi a Prato, nel sacro cingolo che ci ha fatto pervenire tramite  san Tommaso, abbiamo il pegno del compimento?)


mercoledì 13 agosto 2014

Di Madonna in Madonna: Boccadirio



L 'anno del Signore 1480, Donato Nutini putto di tenera età e Cornelia figlia di Matteo Vangelisti, d'anni dieci, ambedue del comune di Baragazza, contea dei Signori Pepoli di Bologna, pascolavano armenti, conforme l'uso del paese, in un luogo chiamato Boccadirio...
Inizia così la storia delle apparizioni che hanno dato vita al santuario di Boccadirio.
Un santuario particolarmente legato alla città di Prato, anche se situato nel territorio bolognese. Cornelia divenne infatti monaca domenicana, col nome di sr. Brigida, in uno dei monasteri di Prato. Quando nel 1512 la città subisce il “sacco” da parte delle soldatesche spagnole, con una carneficina valutata da alcuni storici in ben seimila vittime, suor Brigida affronta il terribile capitano, venuto a devastare anche il monastero, e col Crocifisso in mano gli chiede di voler rispettare un luogo santificato dalla preghiera e riservato a monache claustrali. Il convento non verrà né saccheggiato né oltraggiato, ma difeso e custodito proprio da chi lo voleva mettere a ferro e fuoco.

Oggi - dopo la Madonna di san Luca a Bologna e all'Impruneta - sono tornato in pellegrinaggio a questo luogo remoto e solitario sugli appennini tosco-emiliani. La prima volta vi giunsi che ero ancora in grembo alla mamma e da allora sono tornato fedelmente, come testimoniano tante delle mie foto “storiche”.
Dopo aver detto a Donato che avrebbe dovuto diventare sacerdote e a Cornelia monaca, chiese che si fabbricasse in quel luogo un tempio in suo onore promise “che tutti quelli che fossero poi divoti e frequenti in detto luogo, otterrebbero tutto ciò che sotto la protezione ed invocazione di Lei domandassero sommo Iddio”.


martedì 12 agosto 2014

La Madonna dell'Impruneta


San Luca evangelista, oltre ad essere medico, era pittore. E di ritratti della Madonna dovrebbe averne fatto parecchie, se si deve prestare fede alle molte icone a lui attribuite.
Ma la più importante è certamente quella che ha dipinto sulla tavola di casa della Sacra Famiglia a Nazareth, forse eseguito dopo aver intervistato Maria per il suo Vangelo. Per la verità, su quel tavolo di ritratti ne ha fatti due. Una volta tagliata una icone, grazie all’imperatore Costantino è arrivata a Costantinopoli, poi è proseguita per la Russia fino a giungere a Czestochowa. L’altra è arrivata all’Impruneta, alle porte della Firenze.

Sempre fantasiose le bellissime tradizioni popolari.
Dell’immagine all’Impruneta, di san Luca non è però rimasto niente. È stata ridisegnata da un pittore fiorentino dell’XI secolo e poi rifatta nuovamente da un altro pittore nel 1700, a causa del deterioramento dell’icona.
Oggi sono stato a trovare questa immagine della Madonna… ma è ben protetta e coperta. Sono obbligato a guardarmela su interne… Peccato! In compenso la chiesa che la custodisce è un gioiello d’arte, degno della bellezza della Madre. Vale la pena venire... come per secoli folle di pellegrini. La leggenda passa, ma realtà di Maria resta per sempre.


lunedì 11 agosto 2014

Chiara (Scifi degli Offreducci) d’Assisi e Chiara (Lubich) di Trento 2014

«A noi, quando eravamo giovani… ha fatto sempre una grande impressione una frase che santa Chiara ha detto a san Francesco quando san Francesco l'ha praticamente trascinata nella sua strada e san Francesco le ha detto: "Figliola, che cosa desideri?"… e lei ha detto: "Dio". Desiderava Dio perché sceglieva Dio perché Dio l'aveva scelta. Questo ci ricorda ancora oggi santa Chiara».
Così 27 anni fa, 11 agosto 1987, Chiara Lubich. 
Ogni anno eravamo abituati a festeggiare con lei santa Chiara d’Assisi. Lo faceva anche Giovanni Paolo II che in quel giorno telefonava a Chiara di Trento per farle gli auguri d’onomastico.
Chiara Lubich e Chiara d’Assisi, due donne sante che si guardano l’un l’altra: il carisma dell’una si rispecchia in quello dell’altra e si illuminano a vicenda. È una delle tante espressioni dell’amore reciproco. Tra i due carismi – meglio dire tra le due donne che lo esprimono e lo incarnano – si rende presente il Signore, datore dei carismi, e getta luce su entrambi. Più cresce la comunione più si staglia la peculiarità di ciascuno di essi.
Chiara di Trento non c’è più, eppure noi continuiamo a festeggiare il suo onomastico e, con lei, Chiara d’Assisi; continuiamo a contemplare i due carismi – le due donne – che si guardano l’una con l’altra. Nel loro cielo, come nella notte di san Lorenzo appena trascorsa, brillano sempre nuove scintille di luce.
Ed eccoci, questa mattina, con la piccola comunità di Prato, per rinnovare la nostra comunione con le due donne, per lasciarci illuminare dalle scintille di luce che emanano da quell’incontro, per lasciarci coinvolgere nella stessa scelta di Dio…


domenica 10 agosto 2014

Barga, borgo lucchese o scozzese?



Quanta storia, quanta arte, che paesaggio incastona Barga, antico borgo della Garfagnana. Il duomo dell’XI secolo la domina all’alto. Da lassù i tetti rossi si perdono nel verde delle colline attorno.
Non sono mai stato in Scozia, ma i turisti scozzesi, che sembra amino questo borgo, la chiamano “la più scozzese delle cittadine italiane”. Vuol dire che i borghi scozzesi sono romantici come Barga! È bello camminare tra le strade piccole, ricche di bifore, altane, portali lavorati in pietra, fiori…

Poco lontano, dalla sua Castelvecchio, il Pascoli ne ascoltava i rintocchi della torre antica:
Al mio cantuccio, donde non sento 
se non le reste brusir del grano, 
il suon dell'ore viene col vento 
dal non veduto borgo montano: 
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade. 
Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi, 
voce che cadi blanda dal cielo.