domenica 31 maggio 2020

Leonello Ciardi: un mite


Quindici anni fa mio babbo Leonello ci lasciava per il Cielo, proprio nel giorno della Visitazione di Maria.

La beatitudine che mi sembra caratterizzi il profilo spirituale del babbo Leonello è: “Beati i miti”.
Mite perché sapeva stare al gioco di noi piccolini che ci nascondevamo sotto la tavola al suo rientro a casa dal lavoro. Ci piaceva sentirlo allarmato dalla nostra scomparsa, forse mangiati dal lupo, e ci piaceva soprattutto saltargli alle gambe per farci sentire vivi e gioire della sua gioia nell’averci ritrovati.
Mite perché ha affrontato le traversie della vita senza mai un lamento, anzi con fede profonda e senso di gratitudine. La prima grande prova, che rimane nella nostra memoria come un evento epico, sono state quelle tre lunghe ore in mare a seguito dell’affondamento della nave su cui viaggiava. Quelle ore di «lotta per la vita furono lunghe – scriveva da Bastia il 21 maggio 1943 –, saliva un groppo alla gola, tremito, crampi, raffreddore, proprio non si respirava più. Restavano ancora pochi minuti, invocavo la Madonna di Montenero, vedevo in faccia la morte, pensavo a casa. Quando finalmente arrivarono i soccorsi: una motobarca italiana … quando la vidi mi venne spontaneo: “Questi sono angeli!”».
Mite nel modo con cui ha saputo affrontare la prova estrema, quella della morte, come mite agnello, senza un lamento.
È vero, si muore come si vive.

Aveva 57 anni quando già si preparava alla vecchiaia, «gli anni più faticosi - scriveva -: occhi stanchi, menti vuote, i nipoti che ci fanno chiasso, non si può più leggere un libro, delle domeniche si perde la Messa per ragioni di salute». Già da allora si esercitava a raccogliere e conservare nel cuore «una frase in una predica, un ricordo in una gita, un pensiero in un libro. C’è sempre qualcosa che si ricorda in modo particolare ed allora teniamolo in mente, ricordiamolo spesso (ad es. Loppiano, Greccio, ecc.)». E ancora: «Studiamo la strategia della preghiera, ci servirà in modo particolare negli ultimi anni di nostra vita. Anche la vecchiaia la dobbiamo preparare, è importante, è una fase della vita come ogni altra età. È l’ultima fatica, ci porta direttamente al cospetto di Dio».


Una mitezza evangelica la sua, che non aveva il sapore né della rassegnazione né della codardia, e che non lo ha esonerato dall’impegno civile, politico ed ecclesiale.
Determinato e fermo nelle idealità e nei propositi ci ha lasciato una intensa testimonianza di amore e dedizione sincera alla famiglia e alla Chiesa diocesana, di rettitudine morale e di sensibilità spirituale esemplari, capaci di aiutare anche noi a vivere con serietà l’impegno civile e cristiano. “Fatti e non parole” potrebbe essere il suo motto.
Ricordo solo il suo impegno ecclesiale, nelle sue tappe principali.
È stato prima terziario francescano. Vestì l’abito di San Francesco il 20 dicembre 1935 e il 16 gennaio 1938 fece la professione. Quando arrivava con la moto nel chiostro di S. Domenico il Direttore del Terz’Ordine si metteva le mani nei capelli ed esclamava: La pace è finita! Fedele alle adunanze ne redigeva i verbali. Ma soprattutto si è impregnato gradatamente e ha vissuto con coerenza l’ideale di san Francesco.
È stato un convinto membro dell’Azione cattolica, ricoprendo varie cariche diocesane. Mi ricordo quando il Vescovo Pietro Fiordelli, incontrandolo cinque anni prima della morte, lo abbracciò dicendogli e dicendoci con foga: “Ecco uno dei miei giovani d’azione cattolica, uno dei miei sostegni”. Era l’ultimo incontro qua in terra. Ora si sono nuovamente incontrati in Cielo.
È stato un amico dei Missionari Oblati di Maria Immacolata dei quali apprezzava l’apertura e lo stile di vita fraterno. Una delle poche parole che è stato capace di pronunciare in questo ultimo periodo è stata l’esclamazione di gioia quando ha sentito che entravano in casa due missionari: “Gli Oblati!”.
Ascoltando gli aggiornamenti sulla vita del Movimento dei focolari, lui che tante volte era stato a Loppiano e aveva partecipato alle Mariapoli e agli incontri di Castelgandolfo, diceva: “Vorrei essere un focolarino”.
È stato un uomo di fede dunque, capace di gioire di tutto ciò che avvertiva di bello e di nuovo nella vita della Chiesa.

Il rinnovamento liturgico è stato per lui come un grande respiro così come tutto il messaggio del Concilio Vaticano II.
Nel 1964, in un suo scritto, già si sente quell’aria nuova: «La S. Pasqua di Resurrezione è prossima. Che giorni di Santi ricordi!… Costante e fedelmente ci fa rivivere nel tempo tutta la Passione e morte di N.S.G.C. sempre fresca come allora, dopo 20 secoli.
Resurrezione, che è vittoria della vita sulla morte, della grazia sul peccato, di Dio sul demonio, premio eterno a tante rinunzie ed opere buone, Speranza che ha dato forza a tanti apostoli e martiri.
Quanto è bella la nostra Religione!
Quante tappe così belle durante l’anno, che la Chiesa Madre amorosa ci mette sulla via dell’eternità. Ci facciano meditare veramente e ci siano oasi di ristoro, onde ripartire più buoni, più zelanti, con più amore ai nostri doveri.
Che tutti noi si sia una cosa sola nell’imitazione di Gesù, per quanto ci è possibile, nella vita e nella resurrezione».
Nel suo volume dei documenti conciliari uno di questi è quasi interamente sottolineato, il documento sui laici: finalmente vedeva riconosciuto il suo statuto di laico all’interno della Chiesa, anche se in pratica continuava a soffrire nel percepirne, di fatto, una certa emarginazione.
È stato un uomo di fede, ma senza aver mai condiviso atteggiamenti ipocriti o bigotti. Anzi, perché uomo di Chiesa, ha sofferto della divisione e delle piccinerie che avvertiva in essa. Nel 1969 scriveva: «Vedrei bene cambiare molto del passato per eliminare ogni rivalità tra vari ordini e diocesi, sia nel campo laico che in quello religioso. Dovrebbe essere la stessa cosa o dell’A.C., o del Terz’Ordine, o degli Scout, ecc., pur di lavorare bene, allo stesso fine e in armonia con l’autorità, cioè con tanta più carità e amore! Gesù disse a S. Francesco: “Va, restaura la mia Chiesa”, ma poi capì che era quella spirituale; cioè non vale niente costruire chiese ed opere parrocchiali se non sappiamo costruire la Comunità Parrocchiale nella carità e nell’amore, con tutte le sue infinite applicazioni…».
A volte, come Gesù, avrebbe voluto prendere le funi e cacciare i mercanti dal tempio, ma più si rendeva conto delle debolezze dei membri della Chiesa più cresceva la sua fiducia nella Chiesa. Davanti al negativo non è mai arretrato, anzi ha continuato ad amare e servire la Chiesa, come scriveva nel bollettino della nostra parrocchia: «Vogliamo amare la Chiesa e lavorare per Essa, oggi che maggiormente ha bisogno di figli buoni, obbedienti ed uniti per realizzare la nostra Comunità». Aveva infatti il senso del mistero della Chiesa: «Individualmente – scriveva – siamo servi inutile, ma nella Comunione dei Santi anche la piccola azione o un pensiero d’amore può avere grande valore».

Vorrei infine ricordare il babbo Leonello come uomo di preghiera.
Ogni giorno andava a pregare nella chiesa di sant’Agostino dove c’è l’adorazione eucaristica permanente. «Si cerca tanto la fuga dai rumori, la casa in montana, una tregua alla vita dinamica – diceva al Consiglio pastorale della parrocchia di san Paolo nel 1972. Andiamo qualche volta in Chiesa, per es. a S. Agostino nel trionfo dell’Eucaristia, dai PP. Cappuccini nella pace e umiltà francescana. In Chiesa ci dobbiamo star volentieri, dobbiamo trovarci un relax davanti a Lui. Egli ha detto: “Venite a me, vi ristorerò”».
Ogni giorno, come ogni buon cristiano, recitava con fedeltà le preghiere del mattino e della sera, l’angelus e il rosario.
Ma soprattutto pregava in maniera spontanea, un po’ originale.
Il 6 dicembre 1968, allora io avevo vent’anni, mi scriveva ad esempio: «Mi dici di pregare un po’ per te; sta sicuro che lo faccio come nel passato. Di solito mi piace raccomandarti alla Madonna, che ti guardi come suo figlio a codesta età: ne avrai fino a 33 anni e poi si cambierà preghiera».
La sua era una preghiera semplice, di uomo mite.
È proprio questo il titolo che diede ad una sua meditazione del 1976: “La preghiera semplice”.  Termino leggendone alcune righe soltanto.
«La strategia della preghiera consiste, secondo me, nell’educare il cuore e la mente.
Prima di pregare impariamo ad amare ed amare tanto fortemente.
L’amore convalida la preghiera, la vivifica, la precede, l’amore la porta a Dio, fa pensare a quel che si dice, a quel che si vuole, ne fa una forza, la concretizza, bussa, è attenzione, non ci distrae, cerca il motivo della preghiera, si gustano le parole più belle.
Per esempio il pensiero dice “Padre nostro che sei nei cieli”, ed il cuore pensa a Dio, agli Angeli, al Paradiso, alla Creazione.
L’amore condivide, gioisce della bellezza di Dio.
Il pensiero cerca Dio con la preghiera, il cuore la gusta.
La preghiera è bella quando è semplice, spontanea».
E qui riporta una serie sterminata di brevi e intense invocazioni che usava rivolgere a Dio, una più bella delle altre.
«Tante di queste giaculatorie – continua nel suo scritto – sono flash, istantanee, fulmini per il cielo, parafulmini per la terra. È una preghiera sempre nuova, inventata dal cuore, gratuita, senza libri. Nessuna ce la ruberà, né le chiese chiuse, né le guerre, né le rivoluzioni, né le prigioni. Anche nel dolore quando la disperazione sembrerà avere il sopravvento sapremo fare queste brevi preghiere e ci saranno di grande utilità.
È questione di allenamento e saremo sempre giovani di spirito in ogni età della vita. Come gli Angeli col loro Sanctus in Paradiso sono la delizia di Dio, così noi con le nostre invocazioni saremo in terra la delizia di Dio».

Termino con una di quelle preghiere semplici che era solito ripetere e che ha lasciato scritta:
«Cristo nostro Pasqua, Vita e Risurrezione nostra;
Gesù sono nudo come Te sulla Croce, perdona i nostri peccati;
“Oggi sarai meco in Paradiso”;
Oh! il Paradiso!;
Prendimi, Signore;
Grazie Signore;
Vedrò Maria, La Madonna, Vergine bella più bella di tutte;
Sarà Santo come tanti altri;
Andrò in Paradiso, di Lassù pregherò per i miei famigliari».

sabato 30 maggio 2020

Il Santo Rosario: I misteri dello Spirito Santo


Primo mistero: Lo Spirito Santo scende su Maria a Nazaret
L’angelo disse a Maria: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù… Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1, 31.35).
Dio entra nella nostra storia, prende la carne da Maria, diventa uomo, si fa uno di noi. È l’unità tra Cielo e terra, l’inizio del cammino dell’umanità e di tutto il creato verso i cieli nuovi e la terra nuova.
Il concepimento di Gesù è l’opera nascosta dello Spirito Santo, lo sposo della Vergine. Egli scende in lei e da quell’istante guida i passi della nostra storia.  

Secondo mistero: Gesù sulla croce consegna il suo spirito
«Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19, 30).
Lo Spirito Santo è la vita di Gesù, fin dal momento del suo concepimento nel grembo di Maria. Il suo morire non è semplicemente dare l’ultimo respiro, ma “consegnare il suo spirito”. Lo consegna a Maria e Giovanni che, ai piedi della croce, sono la presenza di tutta la Chiesa. Sulla croce egli dona la sua vita, il suo “spirito”, preludio dell’effusione dello Spirito Santo.

Terzo mistero: Il Risorto soffia lo Spirito sui discepoli nel cenacolo
«La sera di quel giorno, il primo della settimana… venne Gesù, stette in mezzo a disse loro… “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20, 19-22).
Il giorno di Pasqua è il giorno della nuova creazione, della vita nuova, la nascita dell’uomo nuovo. Come Adamo ricevette la vita dal soffio di Dio, così la nuova comunità cristiana riceve la vita nuova dal soffio creatore del Risorto. Con la forza divina dello Spirito Santo la Chiesa potrà portare a compimento la missione di Gesù: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.

Quarto mistero: Lo Spirito Santo scende sulla Chiesa a Pentecoste
«Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi…» (Atti, 2, 2-4).
La Chiesa è “colma” di Spirito Santo e lo può riversare a sua volta su tutti. Egli la unifica e la distingue: molte lingue, molti popoli, che si comprendono nel rispetto e nella ricchezza della diversità e insieme nell’armonia dell’unità, fino a creare l’unità di “un cuore solo e un’anima sola”.

Quinto mistero: Lo Spirito Santo a Cesarea apre la Chiesa a tutti i popoli
«Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio» (Atti 10, 44-46).
Nella casa di Cornelio, centurio della coorte Italica, a Cesarea Marittima, lo Spirito Santo scende sui “pagani”, così come a Gerusalemme era sceso sugli ebrei. È l’inizio del diffondersi del Vangelo tra tutte le genti, della missione universale della Chiesa. D’ora in poi lo Spirito Santo guiderà la Chiesa “fino ai confine della terra”.


venerdì 29 maggio 2020

Il segreto della santità di Giuseppe Gérard Apostolo del Lesotho (1831-1914)



L'immagine nella cappella della casa generalizia
Oggi, accanto a Paolo VI, festeggiamo il beato Giuseppe Gérard.
L’incontro coi Missionari Oblati di Maria Immacolata accese il suo desiderio di andare nelle missioni estere. Dopo il noviziato (1852) fu ordinato diacono da sant’Eugenio de Mazenod. Giunto nel Vicariato Apostolico di Natal (Sud Africa) il 19 febbraio 1853 fu ordinato sacerdote. Dopo il ministero tra gli Zulu, si rivolse ai Basoto, divenendo l’apostolo del Lesotho. A chi lo interrogava sul segreto del suo successo apostolico, rispondeva: “Al di là di tutti i metodi il segreto per toccare e trasformare i cuori è l’amore. Occorre amare, amare nonostante tutto e sempre”. Il 22 maggio celebrò la santa messa per l’ultima volta e il 29 maggio 1914, a 84 anni, rese la sua anima a Dio. Giovanni Paolo II, in visita a Maseru, lo ha proclamato beato il 15 settembre 1988.

Si catturano più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto. Per convertire qualcuno bisogna anzitutto conquistarsi il suo cuore. Presso gli indigeni non si può ottenere nulla se non si conquista il loro cuore. Se riuscirete a farvi amare, avrete conquistato la persona che avvicinate. (Ritiro annuale, 26 novembre 1882, ibid., 191)

Vi è un altro modo di predicare, per un buon sacerdote. Si tratta dell’apostolato della conversazione. Quest’apostolato spicciolo, sermo pedestris, si esercita per strada, nei campi, accanto al focolare, al capezzale del malato. Quante anime salvate in questo modo, soprattutto quando il cuore aiuta la parola. (Ritiro annuale, estate 1886, ibid., 223)

Nelle confessioni devo evitare i rimproveri. All’inizio devo ascoltare con bontà e pazienza, manifestare il mio dispiacere e rimandare con dolcezza. (…) Non devo esitare o tergiversare quando mi chiamano a confessare. Non devo domandare chi mi chiama, perché tutti hanno diritto di chiamarmi. Il buon Dio è con me. Maria, rifugio dei peccatori, è con me. L’angelo e il patrono di quella persona sono santi del buon Dio. Il buon Dio è un Padre buono. È Lui che me lo ha mandato. Accogliamo tutti sempre bene. “Volete confessarvi? Sì, molto bene, fate un’ottima cosa. Mi sforzerò, farò di tutto per aiutarvi. Andate, caro figlio, a prepararvi un po’ nella cappella. Io verrò presto”. Non devo dimenticare di salutarli, di stringere loro la mano, di chiamarli per nome... (Ritiro annuale conclusosi il 17 febbraio 1905, “Écrits oblats”, II, 4, 223)

Ormai sono alla fine della mia vita; il mio lavoro si è ridotto a ben poco. Consiste nella visita a domicilio dei vecchi e delle vecchie che non possono più venire alla Missione, per far loro celebrare la Pasqua e per prepararli alla vicina partenza per il Cielo. Istruisco anche a domicilio i pagani e le pagane che abitano lontano e che vogliono mettersi in pace con Dio. Ultimamente ho visitato un vecchio di 70‑80 anni che ha ricevuto la Prima Comunione. Dopo aver resistito a lungo alla grazia, ha accettato una medaglia di 5. Benedetto e infine si è convertito. Ci serviamo spesso di questi mezzi, che Dio poi corona col successo. (Lettera a Mons. Dontenwill, Roma, Basoutoland, 2 luglio 1912, ibid., p. 149).

Non ho più alcuna attrattiva per il mondo, non ho che un solo desiderio: amare e far amare il Sacro Cuore (Lettera a P. Cassiano Augier, Superiore generale, 8 gennaio 1906, ibid., p. 136). Come è dolce essere nel Cuore di Gesù, viverci e morire! (Appunti per un’omelia sulla devozione al Sacro Cuore, 6 maggio 1904, ibid., p. 220). Ripeto a me stesso che è necessario che mi consacri completamente ad amare il nostro buon Maestro, il suo Sacro Cuore sempre tanto buono con me, a farlo amare, a vivere in lui, per lui, con lui (Fine del ritiro annuale, 14 e 15 febbraio 1906, ibid., p. 224). Ho un grande desiderio di concludere santamente la mia vita, di far bene ogni cosa a tempo debito, una cosa dopo l’altra con l’intenzione di glorificare il buon Dio in tutto. (Ritiro annuale, 18 febbraio 1907, ibid., p. 228)

Giuseppe Gérard insegna a pregare
Giovanni Paolo II, Omelia per la beatificazione di padre Joseph Gérard
Maseru (Lesotho
), 15 settembre 1988

Come ad Abramo, il Signore disse al giovane francese di nome Joseph: “Parti dal tuo Paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il Paese che io ti indicherò” (Gen 12, 1). Ed egli andò subito, come il Signore gli aveva detto. Seguì la chiamata di Dio. Ripose tutta la sua fiducia nella promessa che aveva udito venire dall’alto.
La terra che Dio mostrò al beato Joseph era l’Africa, e più precisamente la terra del Sud Africa, e poi, anni dopo, la terra del popolo Basotho. In questo Paese, questo regno del Lesotho, egli venne perché chiamato e mandato a proclamare il Regno di Dio.
Fin dalla giovane età, Joseph Gérard era convinto che Dio lo chiamava ad essere missionario. Il suo cuore traboccava di gratitudine per il dono della fede cristiana, e anelava a condividere con gli altri questo dono prezioso, questa perla pregiatissima, le infinite ricchezze della conoscenza di Gesù Cristo. Fu questo zelo costante per l’evangelizzazione che improntò ogni momento della sua lunga vita.
Al suo arrivo nel Lesotho, insieme al Vescovo Allard e a fratel Bernard, si mise subito all’opera per imparare la lingua e i costumi del popolo Basotho. Cercava di capire il loro modo di pensare, la loro sensibilità, le loro speranze e i loro desideri. Era ansioso di capire le loro stesse anime, in modo da poter scegliere i metodi migliori da usare per predicare loro la buona novella della salvezza.
Padre Gérard e i suoi confratelli iniziarono l’opera evangelica nella missione chiamata Roma. Si dedicarono interamente e con spirito di sacrificio al loro compito, facendo totale affidamento sulla grazia dello Spirito Santo. E lo Spirito di Dio non tardò a portare i suoi frutti. Solo pochi anni dopo, nel 1866, fu istituita una seconda missione a Korokoro. Nel 1868 fu stabilita una terza missione ancora, dedicata a san Michele.

Obbedendo al suo superiore, padre Gérard andò nella parte settentrionale del Paese nel 1876, dove fondò la missione di santa Monica. Per i seguenti vent’anni vi lavorò indefessamente, istituendo un convento e una scuola, costruendo altre missioni nell’area circostante. In tutti i suoi sforzi e i suoi progetti, riponeva tutta la speranza in Dio, ricordando le parole pronunciate durante l’ordinazione sacerdotale, e cioè che Dio, che aveva iniziato in lui l’opera buona, l’avrebbe portata a compimento.
Ovunque andasse il beato padre Gérard viveva la sua vocazione missionaria con eccezionale fervore apostolico. L’amore per Dio, che sempre bruciò ardente nel suo cuore, si manifestava nell’amore concreto per il prossimo. Egli è ricordato soprattutto per la sua particolare sollecitudine per i malati e i sofferenti. Attraverso le frequenti visite e i modi gentili, sembrava che sempre portasse nuovo coraggio e speranza. Per quanti erano in prossimità della morte trovava le parole giuste per prepararli ad incontrare Dio faccia a faccia, serenamente.

Il segreto della sua santità e la chiave della sua gioia e del suo fervore venivano dal semplice fatto che viveva sempre alla presenza di Dio. L’intera vita del beato Joseph fu incentrata sull’amore per la santa Trinità. Le persone volevano stare vicine a lui perché sembrava sempre vicino a Dio. Era colmo di spirito di preghiera, nutrito quotidianamente dalla Liturgia delle Ore e da frequenti visite al Santissimo Sacramento. Aveva una devozione fervente per la Madre di Dio e i santi. Nel corso dei lunghi e difficoltosi viaggi verso le missioni distanti o le case dei malati, conversava continuamente con il suo amato Signore. È indubbiamente questo senso vivissimo di essere sempre in comunione con Dio che spiega la sua fedeltà ai voti religiosi di castità, povertà e obbedienza e ai suoi obblighi di sacerdote.
Dio benedì padre Gérard con una lunga vita fatta di servizio apostolico. Gli concesse la grazia di vedere oltre mezzo secolo di evangelizzazione nel Lesotho. (…)
Beato Joseph Gérard, prega per noi, conducici a Gesù tramite il cuore immacolato della Vergine, nostra madre nella fede.
Amen.

giovedì 28 maggio 2020

C'è ancora fede




Prima nelle mani di Dio, 
poi in quelle dei medici”, 
ha detto l’infermiera.
C’è ancora fede.

mercoledì 27 maggio 2020

Il Santo Rosario: I misteri della Risurrezione



Al termine della meditazione su "Le parole del Risorto" (mi pare sono 18 post) ho pensato di comporre una serie di "Misteri del Rosario": "I misteri della Risurrezione".

Primo mistero: Gesù incontra Maria di Magdala nel giardino
«Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì” che significa “Maestro mio!”» (Gv 20, 16).
Il pastore conosce le sue pecore, ciascuna per nome, ed esse conoscono la sua voce (10, 3-4. 14).
È bello essere chiamati per nome: dice amicizia, rapporto personale, intimità. Con quel nome, “Maria”, è come se Gesù l’abbracciasse, la prendesse dentro di sé: «Ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43, 1).
E lei, con quel nome, “Maestro mio!”, è come se lo abbracciasse. Anzi, l’abbraccia davvero!
Chiediamo a Maria il dono di un rapporto personale e profondo con il Signore risorto.

Secondo mistero: Gesù incontra i due discepoli sulla strada di Emmaus
«Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. (…) Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24, 15.30-31).
Il buon pastore va in cerca della pecora smarrita e la trova su una strada di periferia, verso Emmaus. Entra nel mondo dei due, tristi e delusi, e con la sua vicinanza ridona speranza e fa ardere il loro cuore.
Chiediamo a Maria che tutte le persone triste e deluse possano incontrare il Signore risorto e ritrovare la gioia.

Terzo mistero: Gesù incontra gli Undici nel cenacolo
«Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”. (…) Dicendo questo mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24, 36.40).
Gesù “sta”, la sua è ormai una presenza stabile: è questo l’essere profondo della Chiesa, la presenza del Signore crocifisso, espressione dell’amore infinito di Dio; presenza che pace.
Chiediamo a Maria che la promessa di Gesù di “rimanere sempre con noi” dia alla Chiesa il coraggio e l’audacia di annunciare il Vangelo ad ogni creatura.

Quarto mistero: Gesù incontra Tommaso nel cenacolo
Gesù «disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; prendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo; ma credente!». Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”» (Gv 20, 27-28).
È la più alta professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: una fede partecipata, personale, appassionata: «Sei il “mio” Signore, il “mio” Dio», così come per la Maddalena era il Maestro “mio”.
Egli è “mio” perché io sono suo, mi ha acquistato a caro prezzo, testimoniato dal segno dei chiodi e della lancia che non ha voluto cancellare perché sempre, per tutta l’eternità, vi leggessimo il suo amore infinito.
Chiediamo a Maria il dono della fede per quanti dubitano o non credono: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.

Quinto mistero: Gesù incontra Pietro sul lago
«Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. (…) Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Gli disse per la terza volta: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. (…) “Seguimi”» (Gv 21, 15-19).
Pietro ha rinnegato per tre volte il Signore, adesso per tre volte gli professa un amore incondizionato. Ogni sbaglio è l’occasione per un amore più grande. Il Risorto ci insegna che si può ricominciare. Si può sempre ricominciare a “seguire” Gesù.
Chiediamo a Maria che preghi “per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”, che preghi per tutti i peccatori, perché ritorniamo a Dio con fiducia.


martedì 26 maggio 2020

L’ultima parola del Risorto / 19 / Sulla via di Damasco



Quali le ultime parole del Risorto che ci consegnano le Scritture? Forse quelle rivolte a Giovanni nell’isola di Parmos quando, nel giorno del Signore, udì la voce che gli diceva: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1, 17-18). Ma in questo testo Giovanni, trovandosi rapito nei cieli, si colloca già alla fine dei tempi. Questo che parla è il Signore glorioso, assiso alla destra del Padre.
Forse l’ultima parola del Risorto, qua sulla terra, è quella indirizzata a Saulo, sulla strada verso Damasco.

Saulo, «spirando minacce e stragi contro i discepoli» è in cammino verso Damasco per mettere in catene i “seguaci della via”, i dissidenti dal giudaismo ortodosso, e per condurli prigionieri a Gerusalemme.
Su quella strada l’incontro con il Signore risorto, come testimonia più volte Paolo: “Ho visto Gesù, nostro Signore” (1 Cor 9, 1); “Apparve anche a me” (1 Cor 15, 8).
Il racconto degli Atti non parla tuttavia di apparizione: Gesù non si mostra a Paolo, come si era mostrato agli Undici e agli altri. Sulla strada di Damasco lo avvolge una luce, “più splendente del sole” (Atti 26, 13) e ode una voce (Atti 9, 4). Paolo lo annoterà nelle sue lettere: “la luce rifulse nei nostri cuori” (2 Cor 4, 6), e parla di “rivelazione” (Gal 1, 16): luce e parola.
«All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perséguiti!  Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9, 3-6).

“Saulo, Saulo”. Ancora una volta Gesù chiama per nome, come aveva chiamato per nome Maria di Magdala e Simone di Giovanni. Egli conosce ciascuno personalmente, anche il suo persecutore. Ripete per due volte il suo nome, come aveva fatto con Marta: non un rimprovero, ma una manifestazione di affetto, di attenzione, di vicinanza, di comprensione. Come ti capisco, Saulo, sembra dire il Signore, sei accecato dall’odio e adesso lo sarai anche fisicamente, fino a quando non riceverai la nuova luce del battesimo…
“Perché mi perséguiti?”. Perché? Una domanda che invita a tornare in sé, a interrogarsi sulle vere motivazioni che lo muovono, a ripensare il proprio comportamento.

Gesù non si mostra a Paolo, come invece si era mostrato agli altri nei primi giorni dopo la risurrezione. Ormai egli è salito al cielo, gli Undici lo hanno visto scomparire, una nuvola lo aveva sottratto per sempre ai loro sguardi (Atti 1, 9). Gesù dunque non apparirà più? Non lo si potrà più vedere?
È ancora presente, eccome! “Perché mi perséguiti?”. È presente nella sua comunità (Mc 18, 20) e si identifica con i miei membri (Mt 25, 40).
“Chi sei, o Signore?”. Proprio colui che tu perseguiti. Il Risorto è vivo nella sua Chiesa, ed è come se da lì si mostrasse a Saulo. Sarà l’esperienza più profonda che Paolo farà in prima persona: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Cristo vive!
Saulo deve arrendersi all’evidenza e cambiare vita. Quando, anni dopo, egli racconterà davanti al re Agrippa l’evento di Damasco, riferirà un’altra parola che gli avrebbe detto il Risorto: «Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo» (26, 14). Era un proverbio noto nel mondo ellenistico, che evocava l’immagine della bestia da soma costretta a tirare il carro, spinta dal pungolo, il bastone con un chiodo, del contadino. È inutile che tu tenti di resistere, Saulo, la potenza del Risorto è troppo forte, dovrai arrenderti all’evidenza. E Paolo si arrende.



E adesso cosa deve fare? Il Risorto aveva detto alle donne, agli Undici, agi altri, cosa avrebbero dovuto fare… Invece questa volta il Signore risorto non dice a Paolo quello che deve fare, lo manda piuttosto da un illustre sconosciuto, Anania, e sarà lui a dirgli cosa deve fare: “àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Il Signore parlerà ad Anania e gli dirà le parole che a sua volta dovrà trasmettere a Saulo. Non è troppo complicato? Tanto voleva che il Signore, con la potenza di luce manifestata sulla via di Damasco, gli affidasse direttamente la missione da compiere- Che bisogno c’era di rimandare ad altri?
È proprio così, i tempi sono cambiati! Questa ultima manifestazione del Risorto è come le altre, sostiene continuamente Paolo a spada tratta, ma nello stesso tempo è diversa: apre alla Chiesa.
Straordinaria l’ultima parola del Risorto: “ti sarà detto ciò che devi fare”, sarò io a parlarti, io che ti chiamo per nome, ma lo farò attraverso i miei fratelli, quelli con i quali mi sono identificato. 
Gesù indirizza alla sua Chiesa perché ormai egli è vivo e presente in essa e parla attraverso di essa. È iniziato il tempo della Chiesa.