Ancora
una volta Gesù “viene” e “sta” in mezzo ai suoi. È venuto per incontrare
Tommaso, che non ha creduto alla testimonianza dei suoi fratelli.
A
differenza delle donne Tommaso non aveva veduto le piaghe del Signore.
Quando questi
si era incamminato verso Gerusalemme, egli con tanta generosità e con un po’ presunzione
aveva dichiarato: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (11, 16). Ma quando
Gesù fu arrestato era fuggito come tutti e non l’aveva visto morire. Ora
pretende di mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel suo fianco. E
Gesù l’esaudisce, gli va incontro personalmente, come personalmente era andato
incontro a Maria di Magdala. Anche lui, come Maria, sintetizza tutti noi che
vorremo vedere, toccare, avere un rapporto diretto con il Signore, senza accontentarci
della testimonianza degli altri che ci dicono “Abbiamo visto il Signore”.
Gesù
viene. Dopo l’abituale saluto a tutti ‑ “Pace a voi!” – si
rivolge direttamente a Tommaso.
Come già
il giorno di Pasqua, Gesù mostra le sue piaghe e dice, senza mezzi termini: “Metti
qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio
fianco”. “Non
abbiate timore – sembra dire. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto
imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi
fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno”. Così Pietro Crisologo traduce le sue parole.
Per tutta
l’eternità Gesù sarà il Crocifisso risorto e noi contemplando le sue piaghe, rubini
preziosi d’una bellezza ineffabile e d’una luce splendente, ripeteremo come l’apostolo
Pietro: “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (1 Pt 2, 24).
“Metti
qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio
fianco; e non essere incredulo, ma credente” (20, 27).
La vista
dei segni dell’infinito amore e le parole d’invito a credere provocano la più
alta professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”.
Non una
professione di fede intellettuale, ma l’adesione di tutta la persona espressa in
quel “mio” ripetuto due volte, quasi ripresa del “mio” della Maddalena: “Maestro
mio”.
“Li hai
dati a me”, aveva detto Gesù al Padre (17, 6): i discepoli, tutti i discepoli,
sono suoi e ad ognuno può dire: “mio fratello” (“Va’ dai miei fratelli”). E
ogni discepolo può dire: “Mio Signore e mio Dio!”. Perfetta reciprocità di
appartenenza, unità pienamente compiuta: “Voi in me e io in voi” (15, 4).
“Perché
mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”
(20, 29).
Chi non
vorrebbe vedere Gesù? Siamo tutti come quei greci che andarono dall’apostolo
Filippo e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (12, 21). Eppure non
basta vedere. L’hanno visto anche quelli che l’hanno crocifisso. Lo sguardo
della fede è un altro. Credere è riconoscere d’essere amati da Gesù e abbandonarsi
totalmente a questo infinito amore.
Il
Risorto ha parlato per quanti sarebbero venuti dopo, per noi. Lo avevano
compreso già i primi cristiani, come constatava l’apostolo Pietro: “Voi lo
amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò
esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede (1 Pt 1, 8-9).
Così
anche noi possiamo proclamare la nostra fede e il nostro amore: “Mio Signore e
mio Dio!”.
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