giovedì 14 maggio 2020

Le parole del Risorto / 13 / Non essere incredulo, ma credente!


Ancora una volta Gesù “viene” e “sta” in mezzo ai suoi. È venuto per incontrare Tommaso, che non ha creduto alla testimonianza dei suoi fratelli.
A differenza delle donne Tommaso non aveva veduto le piaghe del Signore.
Quando questi si era incamminato verso Gerusalemme, egli con tanta generosità e con un po’ presunzione aveva dichiarato: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (11, 16). Ma quando Gesù fu arrestato era fuggito come tutti e non l’aveva visto morire. Ora pretende di mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel suo fianco. E Gesù l’esaudisce, gli va incontro personalmente, come personalmente era andato incontro a Maria di Magdala. Anche lui, come Maria, sintetizza tutti noi che vorremo vedere, toccare, avere un rapporto diretto con il Signore, senza accontentarci della testimonianza degli altri che ci dicono “Abbiamo visto il Signore”.

Gesù viene. Dopo l’abituale saluto a tutti ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­‑ “Pace a voi!” – si rivolge direttamente a Tommaso.
Come già il giorno di Pasqua, Gesù mostra le sue piaghe e dice, senza mezzi termini: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco”. “Non abbiate timore – sembra dire. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno”. Così Pietro Crisologo traduce le sue parole.
Per tutta l’eternità Gesù sarà il Crocifisso risorto e noi contemplando le sue piaghe, rubini preziosi d’una bellezza ineffabile e d’una luce splendente, ripeteremo come l’apostolo Pietro: “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (1 Pt 2, 24).

“Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente” (20, 27).
La vista dei segni dell’infinito amore e le parole d’invito a credere provocano la più alta professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”.
Non una professione di fede intellettuale, ma l’adesione di tutta la persona espressa in quel “mio” ripetuto due volte, quasi ripresa del “mio” della Maddalena: “Maestro mio”.
“Li hai dati a me”, aveva detto Gesù al Padre (17, 6): i discepoli, tutti i discepoli, sono suoi e ad ognuno può dire: “mio fratello” (“Va’ dai miei fratelli”). E ogni discepolo può dire: “Mio Signore e mio Dio!”. Perfetta reciprocità di appartenenza, unità pienamente compiuta: “Voi in me e io in voi” (15, 4).

“Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (20, 29).
Chi non vorrebbe vedere Gesù? Siamo tutti come quei greci che andarono dall’apostolo Filippo e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (12, 21). Eppure non basta vedere. L’hanno visto anche quelli che l’hanno crocifisso. Lo sguardo della fede è un altro. Credere è riconoscere d’essere amati da Gesù e abbandonarsi totalmente a questo infinito amore.
Il Risorto ha parlato per quanti sarebbero venuti dopo, per noi. Lo avevano compreso già i primi cristiani, come constatava l’apostolo Pietro: “Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede (1 Pt 1, 8-9).
Così anche noi possiamo proclamare la nostra fede e il nostro amore: “Mio Signore e mio Dio!”.




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