martedì 30 aprile 2019

Il mese di Maria



1° maggio. Caro san Giuseppe, stavi così comodo nella tua festa del 19 marzo. È vero che piano piano l’hanno soppiantata con la festa del papà, ma la cosa non ti è dispiaciuta più di tanto, anzi, non ti pare vero di essere riconosciuto come un vero padre, e che padre! e di che figlio!
Poi Pio XII ha pensato di arginare l’onda comunista dei lavoratori mettendoti tra di loro, come loro patrono: san Giuseppe lavoratore. Anche questo non ti è dispiaciuto, anzi, hai sempre lavorato con passione. Solo che è una festa un po’ declassata, “memoria facoltativo”, ossia ti si può ricordare o farne a meno. Non è che riesci proprio a galvanizzare il primo maggio… Pazienza.
In compenso metti in primo piano la tua sposa: maggio, mese di Maria… questo funziona ancora.
Il mese di Maria. Un po’ in calo, ma non perde mai il suo fascino.
Soprattutto per chi, come gli Oblati, Maria ce l’ha nel sangue… volevo dire nel nome, ma è poi la stessa cosa.

Rleggo l’esortazione che veniva rivolta ai novizi degli Oblati già nel 1853. O meglio, in quell’anno venne stampato il Direttorio dei Novizi, che contiene l’esortazione, che quindi essa è di molto prima. Siamo negli anni della maturità di sant’Eugenio, quando vegliava con amore sulla formazione dei suoi giovani. L’anno successivo alla stampa Pio IX, con accanto sant’Eugenio, avrebbe proclamato il dogma dell’Immacolata.
Vale la pena rileggere quella pagina:

«È possibile amare veramente Gesù senza amare la sua divina Madre? […], che imbarazzo per noi, suoi figli, suoi Oblati, se non l’amassimo di un amore infuocato, se non avessimo per lei una dedizione senza limiti! È nostra madre. Ha diritto da parte nostra ad uno scambio di tenerezza filiale. Tutti noi le dobbiamo la vocazione alla Congregazione e ci aspettiamo altre grazie abbondanti per il futuro. […] Ella sarà rifugio […], forza nella debolezza, avvocata presso Dio […], consolazione nell’angoscia della prova […], cammino più breve e più sicuro verso l’amore di Gesù. La devozione a Maria e soprattutto a Maria Immacolata è anche il mezzo più potente per ottenere la conversione dei peccatori […]. Faremo di tutto per esprimerle il nostro amore, o con esercizi di devozione o con lo zelo nell’imitazione delle sue virtù. Cercheremo di esserle graditi in tutto. Quando si ama, si trovano mille modi per testimoniare la tenerezza. […]
Non si tratta affatto di una devozione ordinaria, come la professano tutti i cristiani, non si tratta soltanto della devozione più speciale, di cui l’onorano quegli ecclesiastici più fedeli alla santità; la devozione che dobbiamo avere per la divina Maria è singolarissima e in nessun altro posto si dovrà trovarne un grado così alto come da noi. Noi non siamo semplicemente i figli di Maria come lo sono i cristiani e, in particolare, i ministri della Chiesa: siamo suoi figli in modo ancor più speciale; è Gesù Cristo che ci ha dato sua Madre per mezzo del suo Vicario in terra; portiamo il suo nome e abbiamo lasciato tutto per appartenerle, per avere la felicità di dirci figli suoi. Che grazia, che favore! […] essere i figli di Maria, appartenere alla sua famiglia amata, camminare sotto le sue insegne e a quale titolo! Il più glorioso, quello della sua Immacolata Concezione. Comprenderemo mai abbastanza la grazia che di ci ha fatta dandoci tale vocazione?».


lunedì 29 aprile 2019

Le promesse alle 7 chiese dell’Apocalisse



L’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia, è un’intera promessa volta all’avvento di cieli nuovi e di una terra nuova. Ci fermiamo al suo inizio, quando Giovanni sentì la parola del Signore che lo invitava a scrivere a sette chiese situate nell’Asia minore, la parte occidentale dell’attuale Turchia. Siamo intorno all’anno 90 e le sette lettere ci danno uno spaccato vivo della situazione dei cristiani di allora. Ogni lettera costituisce un momento della verità rivolto ad ognuna delle comunità destinatarie, con la denuncia dei loro fallimenti e insieme l’elogio del loro impegno nel vivere il Vangelo. Al termine di ogni lettera una promessa. Pur espresse con immagini diverse, le promesse, come vedremo, hanno un contenuto comune. Le leggiamo ad una ad una.

Alla chiesa di Efeso: «Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (2, 7). Alla chiesa di Smirne: «Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte» (2, 11). La promessa è quella di poter finalmente mangiare i frutti dell’albero della vita che troveremo nel paradiso che appare al termine dell’Apocalisse, ossia al termine della storia umana (cf. 22, 2). Era l’albero piantato nel giardino dell’Eden, quell’albero che avrebbe dato la vita immortale e che Dio aveva proibito di mangiare. La vita infatti non la si conquista autonomamente con le proprie forze, è sempre un dono da accogliere con gratitudine. La promessa adesso è che si potranno mangiare i frutti di quell’albero e raggiungere l’immortalità, tanto desiderata, partecipando della vita stessa di Dio (Efeso), così da sconfiggere la morte (Smirne).
Alla chiesa di Pergamo: «Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (2, 17). La manna, al pari del frutto dell’albero della vita, è il nutrimento celeste; la pietra bianca, colore della vittoria e della gioia, è come un lasciapassare per il cielo; il nome nuovo indica la rinascita della persona che rende degni del cielo.
Alla chiesa di Tiàtira: «Al vincitore (…) darò autorità sopra le nazioni (…), con la stessa autorità che ho ricevuto dal Padre mio; e a lui darò la stella del mattino» (2, 26.28). La promessa è che la potenza e gloria (questo il significato della stella), propri del Messia e del Signore risorto, sono ora donate a tutta la comunità dei credenti. È il definitivo superamento della debolezza e fragilità umana.
Alla chiesa di Sardi: «Il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli» (3, 5). Le vesti bianche, ancora segno di purezza, gioia, potenza e della bellezza trasformatrice della grazia, indicano che la comunità è partecipe della risurrezione di Cristo e del suo destino. L’immagine del nome di ognuno scritto con inchiostro indelebile nel libro della vita significa che tutta la comunità è resa salda e stabile nella vita nuova, mostrando con chiarezza la propria identità evangelica, tutta amore, al punto che Gesù potrà mostrarla con orgoglio al Padre e agli angeli.
Alla chiesa di Filadelfia: «Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio…» (3, 12). La colonna significa stabilità e bellezza. Ogni membro della comunità entra a far parte integrante della casa di Dio. Per questo può portare il suo nome, nientemeno che il nome di Dio, inciso a fuoco nella nostra più profonda identità! Saremo davvero come Dio.
Alla chiesa di Laodicèa: «Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho visto e siedo con il Padre mio sul suo trono» (3, 21). Se abbiamo il nome di Dio, come promesso alla chiesa di Filadelfia, logico che sederemo sul trono del Figlio di Dio, condividendone il destino finale e portandoci nel cuore di Dio.

Tutte queste promesse, che con immagini diverse ci parlano di cielo, di pienezza di vita, di divinizzazione, si compiranno alla fine dei tempi? Proprio quest’ultima immagine che fa vedere seduti sul trovo di Dio, è uguale a quella impiegata dalla Lettera agli Efesini: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato (…) ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (2, 4-6). Per Paolo è una realtà già attuata (usa il verbo al passato! “ci ha fatto sedere”) per Giovanni è in via di attuazione (“farò sedere”).
Come tutte le promesse di Gesù anche queste, rivolte alle chiese dell’Apocalisse, le possediamo già, anche se non ancora in pienezza, e pur sempre nella speranza del loro compimento. Ne abbiamo la caparra, un pegno, la garanzia. I cieli si sono aperti e già il cuore è proiettato là: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3, 1-4). È così, tra l’altro, che si è “vincitori”, parola che torna sette volte nei testi dell’Apocalisse, a indicare i destinatari delle promesse.
Con questa certezza si chiude la serie di questi brevi 18 articoli su alcune delle innumerevoli promesse che Gesù ci ha rivolto.


domenica 28 aprile 2019

Fa bene vedere i bambini scorrazzare per casa...



Le feste a casa nostra non mancano mai.
Oggi è stata la volta di Piergiovanni Gioppato che è venuto dal Canada per celebrare i 50 anni della sua ordinazione sacerdotale insieme con i suoi parenti.
Ha voluto celebrare l’anniversario nella nostra cappella perché per 10 anni ha vissuto qui svolgendo un servizio tutto particolare.
Ma soprattutto perché ha iniziato a bazzicare la nostra casa quando aveva sei sette anni. Faceva il chierichetto nella cappella della clinica della Santa Famiglia dove gli Oblati celebravano regolarmente messa. Non pareva vero agli Oblati portarsi i chierichetti nel parco, dove giocavano, raccoglievano i pinoli…
Piergiovanni era incantata soprattutto dal crocifisso che portavano gli Oblati e fin da allora aveva deciso di portarlo anche lui…

In una comunità seria come la nostra faceva bene vedere scorrazzare i bambini.
Lo stesso nei giorni passati con i miei nipoti, anche se oggi non è più tanto comune come allora.
Avevo un po’ di timore che avrebbero portato troppa confusione. Invece mi sono arrivati tanti messaggi del tipo:
- Hai una famiglia molto bella! La loro visita fra noi è stato un piacere immenso.
- È stato un piacere averli qui con noi. Sono come una famiglia anche per noi! 
- Grazie per aver portato nella nostra casa vita e gioia, con la presenza tonificante dei tuoi nipoti
- È stato un momento di gratitudine e di comunione.

sabato 27 aprile 2019

Questo Dio dov’è? Non so dove cercarlo.


Ho cominciato da circa un anno a seguire il suo Blog ed è un tocca-sana per la mia anima.
Oggi dentro di me sono in una crisi esistenziale e di fede.
Partecipo ai riti liturgici, dico alcune preghiere devozionali, leggo la Parola, ma questo Dio dov’è? Ho perso proprio di vista il Signore Gesù, non so vivere una vita di fede.
Nell’involucro sono una cattolica ma nella sostanza sono una smarrita di cuore.
Nelle comunità cristiane che ho approcciato vivo un grande vuoto, non trovo Colui che sto cercando. Non so più scegliere il Signore. Non so dove cercarlo!

Così mi scrive una lettrice.
È un grido che mi giunge in contemporanea con un altro grido che si leva dal Vangelo della seconda domenica dopo Pasqua: “Se non vedo non credo…”. 
Tommaso non crede agli altri apostoli che gli dicono: «Abbiamo visto il Signore!» (Gv 29, 24). Non basta la testimonianza di chi l’ha visto per giungere alla fede. Gli apostoli stessi non avevano creduto a Maria di Magdala che gridava: «Ho visto il Signore!» (Gv 20, 18). Secondo Marco i discepoli non credono neppure ai due di Emmaus (16, 12)
Non si può fare esperienza del Signore Risorto per interposta persona. La testimonianza altrui può portare alla soglia delle fede, occorre poi l’adesione personale, lo slancio dell’amore che accoglie e si lascia penetrare dalla Verità.
Occorre sempre un’esperienza diretta, personale, di Gesù. Soltanto da questa scaturisce la fede, il riconoscimento, la proclamazione: «Mio Signore, mio Dio» (Gv 20, 28).

“Questo Dio dov’è?” mi chiede la lettrice, “Non so dove cercarlo”.
Cosa posso rispondere, io? Neppure gli apostoli sapevano cosa rispondere alle domande di Tommaso.
Occorse attendere una settimana, finché la risposta venne dal Signore stesso, l’unico che poteva rispondere.
Fu certamente una settimana lunga, nella quale Tommaso continuava a ripetere: “Dov’è questo Dio di cui mi parlare? Non so dove cercarlo”.
Fu una settimana lunga anche per gli apostoli impotenti a rispondere, come lo sono io.

Ma dopo una settimana, quando Gesù venne di nuovo in mezzo ai discepoli, «c’era con loro anche Tommaso».
Non l’avevano cacciato via perché incredulo.
Non se n’era andato perché non sapevano cosa rispondere.
Erano ancora insieme.
Forse il segreto sta proprio qui, nel rimanere insieme, anche nell’incomprensione. Rimanere insieme perché, se è vero che Gesù si rivolge ad ognuno personalmente e ognuno personalmente è chiamato alla sua scelta, è anche vero che egli “viene e sta in mezzo” e da lì rispondere.
Così come aveva fatto con i due di Emmaus, così come farà sul lago con i sette discepoli…
“Questo Dio dov’è?”. È in mezzo a quanti sono uniti nel suo nome.
Anche se “nelle comunità cristiane che ho approcciato vivo un grande vuoto e non trovo Colui che sto cercando”?
Hai ragione: che tristezza le nostre comunità vuote…
Mi accorgo che neanche questa è la risposta risolutiva…

“Questo Dio dov’è?”.
Ripenso ad un’altra persona che, come Tommaso, ha gridato questo domanda, Maria di Magdala: “Dov’è il mio Signore? Dove l’hanno portato?”.
Come Tommaso neppure lei si rassegna a questa perdita e continua a cercare…
Cara lettrice, non so come risponderò alla tua lettera. Forse qualche lettore, più illuminato di me, ci aiuterà in questa ricerca.
Intanto continuiamo a cercare insieme…


venerdì 26 aprile 2019

Preparando insieme la valigia


"E' come tu mi stia aiutando a preparare la valigia".
Così uno dei nostri magnifici Sette riguardo al ritiro che stiamo facendo insieme.
L'oblazione perpetua è il traguardo di tanti anni di preparazione.
Nello stesso tempo segna l'inizio di una vita nuova, tutta donata a Dio e alla missione.
Non ho preparato grandi tematiche per questo ritiro, sto semplicemente con loro,
condividendo convinzioni, esperienze... E senza volerlo sto preparando loro il bagaglio per il cammino della vita.


Oggi li ho portati con me a Castelgandolfo, al Centro Mariapoli, dove dovevo tenere una conferenza a religiosi, religiose, laici... sul tema della famiglie che nascono attorno al carisma.
Per i miei magnifici Sette è stata la scoperta di un mondo completamente sconosciuto, la gioia di essere coinvolti in un momento di comunione tra persone tanto diverse eppure capaci di ruotare insieme attorno alla persona di Gesù Cristo. E' da incontri come questi che tanti anni fa è iniziata la mia avventura.
Spero che anche per loro segni l'inizio di una nuova divina avventura.

giovedì 25 aprile 2019

I catecumeni ci sono ancora


Qui da noi non siamo più abituati al battesimo degli adulti, o almeno è una rarità.
Celso, missionario doc, dalla Guinea Bissau mi manda la foto con i nuovi battezzati a Pasqua.
Per l'intera settimana vengono ogni giorno alla messa e riempiono la chiesa.
Vengono con la loro veste bianca del battesimo, che restituiranno domenica prossima, che laggiù è davvero una Domenica in albis, la domenica della restituzione delle vesti bianche.
Il cristianesimo va avanti...
Evviva i missionari!

mercoledì 24 aprile 2019

Con i magnifici Sette


Sono con i magnifici Sette, di tre continenti e sei Paesi: Lesotho, Zambia, Sri Lanka, Bangladesh, Vietnam, Haiti. Ci stiamo preparando all’oblazione perpetua, che avrà luogo il 1° maggio. Un bel traguardo, inizio di un nuovo cammino.
Dall’alto della casa del Divin Maestro si abbraccia il lago di Albano.
Qui ogni anno, all’inizio della quaresima, il Papa con la curia romana vive il suo ritiro annuale. Si sente la sua presenza.

Oggi incontro con alcune suore Clarisse del monastero di Albano, che hanno condiviso con noi la loro esperienza di vita: fanno volare; chiuse in clausura e spalancate sul mondo.


martedì 23 aprile 2019

In stanza con don Alberione



In questi giorni starò nella stanza che fu del beato don Giacomo Alberiore.
È una sorpresa e un dono che mi ha riservato don Olinto, Paolino dei primi tempi.
Conobbi dal Alberiore, il Fondatore della Famiglia Paolina, pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1971.
Fu per caso, grazie a un furto fatto un giorno nella casa delle Figlie di san Paolo in via Antonino Pio. Non l’ho mai confessato perché non me ne sono mai pentito. Suor Olga Ambrosi mi aveva invitato nella sua comunità “Divina Provvidenza”, dove mi recai a più riprese per delle conversazioni e dei ritiri. La prima volta notai su uno scaffale il libretto rosso dei Pensieri di don Alberione. Lo presi e, a casa, lo lessi tutto d’un fiato. Sarà stato nel 1977.
In quel periodo stavo appena iniziando a riflettere sulla figura dei fondatori e delle fondatrici. La lettura dei Pensieri cadde in quel contesto e mi consentì di cogliere l’esperienza di don Alberione alla luce di tante altre analoghe esperienze ecclesiali, con le quali entravo in contatto. Mi aiutò anche una conversazione che poco tempo prima Chiara Lubich aveva tenuto ai membri del Movimento dei focolari, nella quale, proprio partendo dal libro Pensieri, metteva a confronto l’opera di don Alberione con la propria opera, perché, diceva, «le opere di Dio sono come tante sorelle: debbono somigliarsi perché figlie di un unico Padre; con lineamenti simili, quindi, seppure diverse».
Fu così che, quando si trattò di preparare la mia tesi di dottorato, decisi di prendere don Alberione come uno degli esempi più significativi per elaborare una tipologia di fondatore.

Mi colpì soprattutto la sua docilità all’azione dello Spirito, tema sul quale sono ritornato successivamente, nel 1998, con uno studio su Don Giacomo Alberione, uomo dello Spirito.
Tra l’altro diceva:
«Quando un’anima è ripiena di Spirito Santo ha un modo di ragionare, di comportarsi e di operare che sembra presti la bocca e le mani a Dio».
«La vita spirituale non è metodo – scriveva nell’Apostolato delle edizioni –, e perciò si istruisca ed educhi alla sveltezza della docilità allo Spirito Santo». Credo che in queste parole ci sia un tocco della propria esperienza personale, così come quando, rivolgendosi alle Figlie di San Paolo, afferma: «Quando un’anima è ripiena di Spirito Santo ha un modo di ragionare, di comportarsi e di operare che sembra presti la bocca e le mani a Dio».
Il frutto della propria personale docilità allo Spirito traspare anche dal metodo che insegna per la propaganda libraria: «Contate molto sullo Spirito Santo che è in voi; che illumini, che insegni le vie, che conforti, che porti grazia particolare anche a quelli che devono accoglierci, perché il vostro passaggio è il passaggio di una grazia».
Nell’opera Donec formetur Christus in vobis, con il suo solito stile schematico, sintetizza l’azione dello Spirito in termini di illuminazione e di luce, quella luce di cui tante volte si è sentito inondato lungo tutta la vita: «Siamo in necessità estreme, perché in tutto, sempre, siamo in bisogno di luce, grazia dello Spirito Santo, perché solo nella grazia e luce divina, vi può essere merito, forza, Chiesa, Sacerdozio, stato religioso. Donde: escludere del tutto la vana compiacenza e le mire vane: “soli Deo honor et gloria”; (...) stare in stato di preghiera e supplica abituale onde ottenere grazia, luce, misericordia dallo Spirito Santo. (...) dovendosi creare una vita nuova, sacerdotale, religiosa, cristiana, vi è continuo bisogno di Spirito Santo».


lunedì 22 aprile 2019

L'eredità di famiglia



“Sono stati giorni importanti di famiglia…”, “Bellissimi giorni, pieni di festa…”.
Così iniziano i messaggi WhatsApp che rimbalzano sulle strade del ritorno.
Una “tre giorni” davvero speciale, quella che ho vissuto con i miei nipoti a casa mia qui a Roma.
Abbiamo visitato tanti luoghi, ma la cosa più bella è stata ritrovarci tra noi e passare insieme la Pasqua.
Sei famiglie giovani, con bambini piccoli, a dire che la Pasqua è il rinascere della vita.


Non abbiamo avuto momenti particolari di riflessione o di preghiera, oltre quelli offerti dalla liturgia. Abbiamo vissuto piuttosto un momento ininterrotto di fraternità, di comunione semplice tra di noi, che rinsalda l’unità della famiglia, l’amicizia, l’amore reciproco. È questa l’eredità più bella di una famiglia, che occorre custodire e far crescere.


domenica 21 aprile 2019

Fiori di Pasqua

Questa mattina anche i fiorellini sul davanzale della mia finestra attendevano gioiosi l'aurora di Pasqua...


Ma poi sono spuntati altri bellissimi fiori, 22 nipoti...




sabato 20 aprile 2019

Pasqua: è risorto con le piaghe



Il Tommaso di Caravaggio che introduce il dito nella piaga del costato di Cristo risorto è una delle icone più note ed eloquenti della Risurrezione. Personalmente non immagino così la scena. A Tommaso è bastato vedere il Signore e le sue piaghe, senza doverle toccare, per crollare in ginocchio e proclamare la più alta professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio». Una fede partecipata e appassionata, viva e personale, espressa con forza dal pronome possessivo: il “mio” Signore, il “mio” Dio.
Gesù risorto non nasconde con vergogna le piaghe della crocifissione. Le mostra come prova del suo amore, sono la sua gloria. Tommaso non voleva vedere Gesù, ma il “segno” dei chiodi, il “segno” della lancia. In fondo cercava il segno di quanto fosse stato amato. Se Dio è Amore, Gesù ha un solo modo per mostrarsi Dio: amare con un amore da Dio! Le sue piaghe lo rivelano. Non le ha cancellate perché sempre, per tutta l’eternità, vi si leggesse il suo amore infinito.

Anche noi, soprattutto quando, come i discepoli nel cenacolo, ci sentiamo soli, o tristi, o scoraggiati, o delusi, o disperati, abbiamo bisogno di vedere le piaghe del Cristo. Dovremmo saperlo riconoscere in ogni piagato, in ogni persona che soffre, in ogni situazione che sanguina, nelle nostre stesse piaghe, fatte di limiti, peccati, fallimenti, nelle sofferenze più assurde e le meno attese… Anche in quelle di una Chiesa che si trova ogni giorno di più ingolfata negli scandali. «Siamo invitati a non dissimulare o nascondere le nostre piaghe – ha affermato con coraggio papa Francesco il 16 gennaio 2018 durante il suo viaggio in Cile –. Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, ma pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo. La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; sì, ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori».
Una Chiesa con le piaghe non ci fa paura, perché Gesù le ha fatte sue.

venerdì 19 aprile 2019

La tunica indivisa e la rete che non si spezza



La tunica "di Cristo", conservata a Treviri
La Passione secondo Giovanni domina il Venerdì Santo.
Nel suo Vangelo l’apostolo usa due volte soltanto il verbo schízo, dividere: per descrivere la tunica di Gesù, durante la passione, e la rete di Pietro, dopo la risurrezione. Tutte e due sono indivisibili. La traduzione italiana non lascia vedere l’impiego dello stesso verbo, come invece nel greco: della tunica è detto che era tutta d’un pezzo e quindi i soldati decisero di non dividerla; della rete di Pietro si dice che non si strappò. In ambedue i casi nessuna divisione, nessuna schizofrenia.

La tradizione ha visto nella tunica indivisa di Gesù il simbolo della Chiesa. Le vesti furono divise in quattro parti, scrive Agostino, a indicare che la Chiesa è diffusa ai quattro venti, la tunica non si stracciata perché la Chiesa, cattolica e sparsa nel mondo, rimane sempre una. “Questo mistero dell’unità – scrive san Cipriano – questo vincolo della concordia… viene raffigurato quando nel Vangelo la tunica del Signore Gesù Cristo non viene affatto divisa né stracciata… Non può possedere le vesti di Cristo colui che scinde e strazia la Chiesa di Cristo… Col mistero della tunica e col simbolo di essa, Cristo raffigurò l’unità della Chiesa”.

Sull'Aventino con alcuni dei partecipanti alla visita
Similmente nella rete di Pietro durante la pesca miracolosa dopo la risurrezione. Aveva pescato 153 grossi pesci, un numero letto in molto modi: la somma da 1 a 17, un triangolo con base 17, numero di misteriosa perfezione; oppure si pensa alle 153 specie di pesci conosciute dagli antichi zoologi. In ogni caso il numero di pesci indica la totalità dell’umanità raccolta dalla Chiesa. Tuttavia la rete non di strappa, rimane unita, proprio come la Chiesa.

Particolarmente bella, ieri notte, la visita delle sette chiese all’Aventino.
Una breve eco:
Volevo proprio ringraziarti! È tanto difficile per me trovare dei momenti a tu per tu con Gesù e ieri mi hai fatto il dono di potergli stare accanto per lungo tempo e allo stesso tempo ritrovarlo nelle mie sorelle e nei miei fratelli con cui ho potuto condividere con qualche ora del mio Giovedì Santo.

giovedì 18 aprile 2019

Venerdì santo tra le ciminiere





Poco tempo fa mi sono fermato a guardare i locali dove lavorava mio babbo quando ero ancora un bambino. Era una azienda di filati e stoffe, come ce n’erano a centinaia a Prato.
Mi piaceva andare da lui, nel suo ufficio. Mi attivano la spillatrice, il vasetto di colla bianca Coccoina, che si spandeva con un pennellino piatto riposto nella custodia al centro del barattolo, la macchina da scrivere sulla quale ho imparato a comporre…
Ormai tutto è cambiato. Evidente l’usura del tempo, i cambi di d’uso. Ora l'edificio ospita un centro di accoglienza per profughi…
Tutto è cambiato, ma rimane ancora, sullo sposto grande di metallo che dava accesso agli uffici, la piccola ceramica con la Madonna. Una iconcina dozzinale, che nessuno ha rimosso, dopo settant’anni.
Chissà se i cinesi o gli immigrati di mezzo mondo che passano di lì alzano mai gli occhi per guardarla…
Sono stato contento di rivederla.

Anni fa ho scritto su questo blog che il mio primo ricordo del venerdì santo è localizzato proprio in quell’ambiente di lavoro, tra stoffe e filati.
Mi trovavo lì, dal babbo, quando, alle tre in punto, tutte le sirene delle fabbriche si misero a suonare. Solitamente suonavano per scandire i turni di lavoro. Quella volta suonavano per interrompere il lavoro invitando a un attimo di raccoglimento e di silenzio: chiamavano alla preghiera. E il babbo si fermò, in mezzo al piazzale: “È l’ora in cui è morto Gesù”, mi disse; si fece il segno della croce e io con lui.
Ho ancora nelle orecchie il sibilo prolungato delle sirene e negli occhi, indelebile, quel segno di croce nel silenzio della contemplazione. Un venerdì santo vissuto non nel tempio, ma come Gesù fuori le mura della città santa, in luogo secolare; senza il suono delle sacre campane dall’alto dei campanili che in quel giorno tacevano secondo tradizione, ma con quello delle sirene delle fabbriche dall’alto delle ciminiere. La croce mi si confondeva con le ciminiere, l’opera di Dio con il lavoro dell’uomo.


mercoledì 17 aprile 2019

Assaporammo la felicità in quella notte santa



L'altare dei primi voti
Giovedì santo 1816.
Come non ricordare quel giorno che segnò una tappa fondamentale nella storia dei Missionari Oblati?
Così lo racconta sant’Eugenio:

La mia intenzione, consacrandomi al ministero delle missioni per lavorare soprattutto all’istruzione e alla conversione delle anime più abbandonate, era di imitare l’esempio degli apostoli nella loro vita di dedizione e abnegazione. (…) Il mio pensiero fisso fu che la nostra piccola famiglia doveva consacrarsi a Dio e al servizio della Chiesa con i voti di religione. (…)
Mi confidai dunque col primo di loro [i suoi compagni], padre Tempier, che avevo scelto come mio direttore e che mi aveva preso come suo. Fu incantato da questa proposta, che rispondeva ai suoi pensieri. Convenimmo allora, Tempier ed io, di dare un seguito al progetto. (…)
Il Giovedì Santo, entrambi sotto l’impalcatura del bel repositorio che avevamo innalzato sull’altare principale della chiesa della missione, nella notte di quel santo giorno, facemmo i nostri voti con indicibile gioia.
Assaporammo la felicità durante tutta quella bella notte alla presenza di Nostro Signore, ai piedi del magnifico trono in cui l’avevamo posto per l’ufficio del giorno successivo, e pregammo il divin Maestro, se la sua santa volontà fosse stata di benedire la nostra opera, di condurre i compagni già presenti e quelli che si sarebbero associati in futuro di comprendere quanto valesse questa oblazione di tutto sé stesso, data a Dio, se si voleva servirlo con cuore indiviso e consacrare la vita alla diffusione del suo santo Vangelo e alla conversione delle anime. I nostri desideri furono esauditi.

Erano mossi non da un semplice desiderio personale di santità: il gesto implicava l’intero gruppo, anche noi, che veniamo dopo 200 anni. Forse non tutti i primi compagni in quel momento erano pronti per la vita religiosa, ma Eugenio considerava i consigli evangelici “come indispensabili da abbracciare”. La sua scelta, assieme a Tempier, in quel Giovedì santo del 1816, avrebbero fatto germogliare in seno della comunità il desiderio di “questa oblazione di tutto se stessi, fatta a Dio”, espressa nei voti.


Annullata la visita alle sette chiese

Contrariamente a quanto ho scritto sul blog di ieri sera,
la visita alle sette chiese sul'Aventino e al Celio non sarà possibile 
perché il Vicariato ha riservato le celebrazioni della Settimana Santa soltanto alle parrocchie,
quindi anche le basiliche (!) non parrocchie saranno chiuse.
All'ora convenuta farò comunque varie tappe sull'Aventino meditanto i Vangeli dell'ultima cena. 

martedì 16 aprile 2019

Giovedì Santo 2019: le sette chiese



Anche quest’anno tradizionale visita delle sette chiese per l’adorazione che segue la celebrazione della messa nella Cena del Signore.
Partenza a Santa Sabina all’Aventino, 20.30

Il tema sarà proprio l’Ultima cena del Giovedì santo, con eccezione dell’ultima tappa:
1. Santa Sabina: L’ardente desiderio
2. Sant’Alessio: La lavanda dei piedi
3. Sant’Anselmo: Il tradimento e la misericordia
4. Santa Prisca: Il pane spezzato e il vino versato

5. San Gregorio al Celio: Il comandamento nuovo
6. Santi Giovanni e Paolo: L’unità
7. Santa Maria in Navicella: Maria ai piedi della croce

In quest’ultima visita seguiremo l’invito di Papa Francesco:
Maria sotto la croce di Gesù è un’icona da “contemplare”: non servono tante parole per riconoscere l’essenza della testimonianza di una donna che è madre di tutti noi: contemplare la madre di Gesù, contemplare questo segno di contraddizione, perché Gesù è il vincitore ma sulla croce.
Maria era sempre dietro a suo Figlio: per questo diciamo che è la prima discepola. E sempre con l’inquietudine che faceva nascere nel suo cuore questo segno di contraddizione. Sempre, fino alla fine è lì, in piedi, guardando il Figlio. E forse, lei sentì i commenti: “Guarda, quella è la madre di uno dei tre delinquenti”. Ma rimase zitta: è la madre, non rinnegò il Figlio, mostrò la faccia per il Figlio.
Questo che io dico adesso sono piccole parole per aiutare a contemplare, in silenzio, questo mistero: in quel momento, lei partorì tutti noi, partorì la Chiesa. Gesù chiama sua madre “donna” e le dice “ecco i tuoi figli”. Sì, Gesù non dice “madre”, dice “donna”. E Maria è una donna forte, coraggiosa: una donna che era lì per dire “questo è mio Figlio: non Lo rinnego”.

lunedì 15 aprile 2019

L’ottava parola di Gesù in croce



Nel computo delle “sette” parole di Gesù in croce non viene mai calcolato l’ultimo suo grido.
In effetti non è una parola, ma un grido inarticolato.
Lo riportano sia Marco che Matteo.
Per Marco l’ultima parola è: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Ma dopo di questa ecco improvviso, terribile, inatteso, un forte grido: “Gesù, dando un forte grido, spirò” (15, 37).
Anche per Matteo, dopo l’ultima identica parola, “Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito” (27, 50).

Gesù muore in maniera drammatica. Non una parola, ma un grido, con tutto il fiato che gli rimane, l’ultimo. Quest’urlo, più di tutte le altre parole, lascia intuire quello che Gesù può aver vissuto. Ha fatto suo, ogni angoscia, ogni disperazione, ogni grido.
E poi il gran silenzio, senza risposta.

Tutte le altre sette parole dicono qualcosa di grande, sono un insegnamento, meritano di essere ascoltate, meditate, commentate, come ha fatto la grande tradizione cristiana.
Questa ottava è quasi scandalosa, la si sorvola facilmente, tanto è enigmatica.
Ma forse è la più bella, quella che, senza parole articolate, dice il mistero che si sta compiendo su quella croce, talmente grande che è indicibile.


domenica 14 aprile 2019

Dove sono gli amici di Gesù?


La prima volta fu nel 1975, quando ero diacono. Lessi la Passione nella Basilica di san Pietro, facendo la parte del cronista.

Oggi il foglietto della San Paolo divideva la lettura tra C (cronista), + (Gesù), D (discepoli e amici), A (altri), F (folla).
A me è toccata la parte D: dovevo leggere le parole dei discepoli e degli amici di Gesù.
Dopo la cattura di Gesù la mia parte è presto fatta, anche se umiliante: parlo tre volte
- la prima per rinnegare Gesù: “non lo conosco”
- la seconda per rinnegare me stesso: “non sono uno dei discepoli”
- la terza per rinnegare la verità: “non so quello che dice”.
Soprattutto mi hanno impressionato le parole che ho dovuto dire in seguito, lungo il racconto della Passione, fino alla morte e sepoltura di Gesù: nessuna!
La mia parte di D era già terminata. Non ho più dovuto leggere nessuna parola dei discepoli e degli amici di Gesù perché, lungo tutto il racconto della Passione secondo il Vangelo di Luca, non è presente nessun discepolo o amico di Gesù. Tutti spariti. Che vergogna!
Abbiamo lasciato Gesù da solo.
Proprio nel momento in cui avrebbe avuto più bisogno di un amico accanto a sé.
È stata questa la sua vera Passione.


sabato 13 aprile 2019

Le tre parole di Gesù in croce

Cosenza, chiesa degli Oblati
Quante sono le parole di Gesù in croce?
Basta sommare quelle che riportano ciascuno dei quattro evangelisti e il conto è presto fatto, sono sette. Dal 16° secolo le “sette parole di Gesù in croce” sono state oggetto di molti sermoni in occasione del Venerdì Santo. Ne è nata una grande letteratura.
Ma come sanno bene quelli che anche oggi continuano a commentare le sette parole, come ad esempio Ravasi, nel libro appena pubblicato dalla Queriniana, ognuno degli evangelisti ha un suo modo di narrare la Passione e dal punto di vista esegetico l’accumulo delle parole di Gesù non è un’operazione molto ortodossa.

Quest’anno la liturgia nella Domenica delle Palme ci offre la Passione secondo Luca. I tratti di Gesù che questo Vangelo ama mettere in luce sono quelli della preghiera, della misericordia, dell’amore ai poveri, dell’abbandono alla volontà del Padre.
Le tre parole di Gesù che Luca riporta sono proprio in sintonia con il ritratto che ha tessuto lungo tutto il suo Vangelo.

La prima parola è quella del perdono: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno».
Seneca scrisse che coloro che erano crocifissi maledicevano il giorno della loro nascita, i carnefici, le loro madri e persino sputavano su coloro che li guardavano. Cicerone racconta che a volte era necessario tagliare le lingue di coloro che erano stati crocifissi per far tacere le loro terribili bestemmie. Ma Gesù aveva insegnato: “Amate i vostri nemici”, “Fate del bene a quelli che vi odiano”. Non poteva che perdonare e vivere per primo il suo Vangelo.
«Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» è la preghiera che sentiamo ripetere ogni volta che ci presentiamo alla confessione. Non un rimprovero, ma il perdono.

La seconda parola è quella della grande promessa: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
“Paradiso” è una parola persiana, indicava un giardino recintato. Quando un re persiano desiderava riservare un onore speciale a uno dei suoi sudditi, lo introduceva nel suo giardino così che potesse camminare accanto a sé.
Gesù promette al ladro pentito molto più dell’immortalità. Gli promette il posto d’onore, di farlo suo compagno nei cortili del cielo.
Ladro per tutta la vita, dirà sant’Agostino, quell’uomo crocifisso con Gesù fu ladro fino in fondo e rubò il paradiso! Macché rubare, gli è stato donato, tutto è grazia!
Ogni volta che ci sentiamo peccatore, ossia sempre, possiamo guardare con fiducia l’uomo che pende dalla croce e dirgli: «Ricordati di me, quando sarai nel tuo regno».

La terza parola è pronunciata ad alta voce, Gesù disse: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
Gesù muore con una preghiera.
È il versetto di un Salmo 31,5 con l’aggiunta della parola: “Padre”. Era la preghiera che ogni madre ebrea insegnava al figlio come ultima cosa prima di addormentarsi. Gesù l’ha resa più bella perché l’inizia con la parola “Padre”.
Gesù muore come un bambino che si addormenta tra le braccia di suo padre.
Vorremmo addormentarci anche noi ogni sera con questa preghiera.
Vorremmo che fosse la nostra ultima preghiera.