Poco tempo fa mi sono fermato a guardare i locali dove lavorava mio babbo quando ero ancora un bambino. Era una azienda di filati e stoffe, come ce n’erano a centinaia a Prato.
Mi piaceva andare da lui, nel suo ufficio. Mi attivano la spillatrice, il
vasetto di colla bianca Coccoina, che si spandeva con un pennellino piatto riposto
nella custodia al centro del barattolo, la macchina da scrivere sulla quale ho
imparato a comporre…
Ormai tutto è cambiato. Evidente l’usura del tempo, i cambi di d’uso. Ora l'edificio ospita un centro di accoglienza per profughi…
Tutto è cambiato, ma rimane ancora, sullo sposto grande di metallo che dava
accesso agli uffici, la piccola ceramica con la Madonna. Una iconcina
dozzinale, che nessuno ha rimosso, dopo settant’anni.
Chissà se i cinesi o gli immigrati di mezzo mondo che passano di lì alzano
mai gli occhi per guardarla…
Sono stato contento di rivederla.
Anni fa ho scritto su questo blog che il mio primo ricordo del venerdì
santo è localizzato proprio in quell’ambiente di lavoro, tra stoffe e filati.
Mi trovavo lì, dal babbo, quando, alle tre in punto, tutte le sirene delle
fabbriche si misero a suonare. Solitamente suonavano per scandire i turni di
lavoro. Quella volta suonavano per interrompere il lavoro invitando a un attimo
di raccoglimento e di silenzio: chiamavano alla preghiera. E il babbo si fermò,
in mezzo al piazzale: “È l’ora in cui è morto Gesù”, mi disse; si fece il segno
della croce e io con lui.
Ho ancora nelle orecchie il sibilo prolungato delle sirene e negli occhi,
indelebile, quel segno di croce nel silenzio della contemplazione. Un venerdì
santo vissuto non nel tempio, ma come Gesù fuori le mura della città santa, in
luogo secolare; senza il suono delle sacre campane dall’alto dei campanili che
in quel giorno tacevano secondo tradizione, ma con quello delle sirene delle
fabbriche dall’alto delle ciminiere. La croce mi si confondeva con le
ciminiere, l’opera di Dio con il lavoro dell’uomo.
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